Passa nella sezione Orizzonti della settantacinquesima kermesse veneziana l'ammaliante Blu, nuova stanza della ballata audiovisuale degli invisibili, scritta e cantata da quello chansonniere bicefalo che risponde ai nomi di D'Anolfi e Parenti.

La nuova composizione, a testimonio dell'interiore e ininterrotta coerenza con cui dipanano il proprio discorso sul mondo, riprende temi e stilemi di opere come Il Castello (Massimo D'Anolfi, Martina Parenti, 2011) L'infinita Fabbrica Del Duomo (Massimo D'Anolfi, Martina Parenti, 2015) e, ovviamente, Spira Mirabilis (Massimo D'Anolfi, Martina Parenti, 2016) sia per l'attenzione tematica specifica a quelle teknè di basso profilo, pratiche trasformative della materia, che pur restando misconosciute ai più producono effetti positivi di portata collettiva, sia per la pratica di uno sguardo che definirei "maieutico", inteso cioè non già a una trasformazione morfologica sostanziale della realtà, ma a una sua ricodifica visuale, capace, maieuticamente, appunto, di rivelare, nel senso etimologico del re-velare dei latini, togliere il velo, quelle potenzialità estetiche, simmetrie, geometrismi, cromaticità implicite negli oggetti e negli ambienti del nostro quotidiano che rimangono preclusi al guardare ordinario. E' con queste premesse stilistiche e tematiche, e attraverso la mediazione della chiusa dantesca «E quindi uscimmo a riveder le stelle» dunque che il duo s'inabissa nelle viscere terrestri per testimoniare il notturno lavorio sommerso delle squadre di operai che lavorano alla costruzione della Linea Blu della metropolitana di Milano restituendoci un documento di meticolosa precisione antropologico-documentale e un fascinoso viaggio di rilettura del visivo, tra neri abissali elettrificati e illuminazioni cromiche artificiali, clangori e rombi meccanici, corpi in solipsistica astrazione. 

Ne parliamo a ridosso della proiezione veneziana: 

Il vostro cinema coincide con la pratica di uno sguardo “maieutico” inteso, più che a trasfigurare il reale, a scavarne fuori i valori estetici, cromatismi sorprendenti, geometrismi e simmetrie inaspettati, che normalmente non notiamo nei più ordinari aspetti del quotidiano, il braccio meccanico di un macchinario, un tunnel, griglie grate e portelli, neon e luci artificiali, che diventano il tramite fisico di una rilettura scopica del mondo...

M.D. Per noi il cinema è sempre un'epifania dello sguardo e sempre comporta la necessità di imparare a guardare la realtà con occhi nuovi. E' il motivo principale per cui filmiamo. Ritrovare tra le pieghe di ciò che chiamiamo realtà il mondo, o meglio il sotto-mondo, dell’immaginazione e della fantasia che può nascondersi dietro un paravento, dietro un albero, dietro un macchinario per costruire. C’è sempre la possibilità di guardare le cose e farle "emergere", farne uscire l'anima, e questo è quello che tentiamo di fare, che è anche il nostro modo per instaurare un rapporto con chi guarda il film, tirar fuori quella cosa dalle persone e dagli oggetti, insomma. Per quanto riguarda invece il discorso sulla colorimetria e l’aspetto cromatico di  Blu...fin dall’inizio volevamo dare corpo alla suggestione del fare un film girato interamente di notte. Spira Mirabilis termina con una notte, un’immagine notturna in America di un fuoco di fronte al quale Moses Brings Plenty, l’uomo sacro, pronuncia le ultime parole del film. Siamo ripartiti da quella notte, con la differenza che quella era una notte illuminata soltanto di stelle e da un fuoco mentre Blu è una è una notte luminosissima perché scendiamo nel sottosuolo dove il buio che ti aspetteresti è infestato da tutte le luci artificiali del mondo.

Come sempre nel nostro lavoro non aggiungiamo nulla, usiamo le luci e i colori che troviamo sul posto. Tutti i cromatismi che vedi  sono quelli della normale illuminazione cittadina, nelle scene girate in superficie, prima discendere nelle gallerie, e delle luci che illuminano il cantiere sotterraneo, una volta scesi, ma niente di più. A Milano da non molto hanno tolto le vecchie lampade sostituendole con più moderne lampade LED ricolorando la città, perché queste nuove hanno luce bianca mentre le vecchie davano sull’arancione. Nella zona dove c’è il campo base, invece, ci sono ancora i vecchi lampioni arancioni, quindi il film inizia con questo doppio livello cromatico bellissimo tra i toni freddi del bianco e le sfumature calde dell'arancione...ma non lo abbiamo creato ad hoc, semplicemente l’abbiamo trovato lì, nei luoghi, e lo abbiamo usato.

Colori che correggi o “forzi “ in qualche modo in post-produzione?

In realtà non tanto, c’è un lavoro di color correction, ovviamente, ma limitandoci a fare, come dire...solo la “taratura” dei colori, quella minima pulizia necessaria perché il film si possa vedere al meglio nelle varie proiezioni. A parte questo la colorimetria delle riprese era esattamente quella vedi. Blu è un film brulicante di luci altamente cinematografiche di suo, la miriade di luci della città “di sopra” e  quella forse ancora più numerosa di quella sottoterra. Nessuna di queste luci è stata aggiunta da noi, sono luci "naturalmente" cinematografiche.

Questo sguardo maieutico, estetico, trasformativo, si associa però a una ferrea volontà di documentazione del reale per quello che è, minuziosamente descritto nei suoi reali aspetti minuti. Come si trova l’equilibrio tra queste due istanze?

M.P: Non credo che ci sia una regola del quando le cose hanno un equilibrio. Credo che ogni film si chiami una regola sua, chieda l’equilibrio necessario. In generale è vero che ci interessa il fatto di testimoniare qualcosa, specialmente quando, come nel caso delle situazioni che ci siamo andati a scegliere, per noi riveste un valore che è anche etico. Tutti i film che abbiamo fatto raccontano dei processi di lavoro volti alla produzione di qualcosa di positivo che trascenda la dimensione egoistica del singolo. Il Castello, L’infinita Fabbrica del Duomo e Spira Mirabilis raccontano sempre questa cosa, cioè di come piccole persone, spesso invisibili ai più, insignificanti per i ranghi della società, unendosi insieme lavorano per creare qualcosa di più grande, di collettivamente utile. In Blu questo discorso è molto chiaro, perché loro sono davvero invisibili, perché sono davvero sotterranei, perché per le persone che abitano la città in superficie queste persone non esistono, non hanno volto, non hanno nome, eppure l'esito del loro lavoro, la metropolitana, è qualcosa di cui beneficiamo tutti, tutti i giorni, senza considerare quanto sia costata in termini di fatica e di lavoro umani. Ma oltre ad essere intenzionati a documentare questo tipo di processi siamo anche grandi amanti del cinema, ci piacciono i film belli, girati bene, che hanno delle storie interessanti e che esportano dei personaggi grandi o piccoli ma che siano degni di suscitare attenzione e compartecipazione emotiva. La sfida che ogni film ci chiede è il riuscire a mettere insieme queste due passioni, la narrazione cinematografica e l’aspetto della realtà. Questo è un film underground (più sotterraneo di così si muore) perché non può essere che definito underground per stile e linguaggio, ma è anche molto classico , perché girato con tutti i crismi del bel linguaggio filmico, i campi e i contro campi, molto studio sulle inquadrature, la cura fotografica eccetera, insomma tutto il linguaggio del cinema diligentemente applicato e sottolineato.

M.D: Blu è un film che ha due livelli: uno di documentarismo puro, una sorta di archivio del futuro e uno che ha a che fare con la trasfigurazione. La realizzazione della prima metropolitana di Milano,  l’M1, non è stata filmata, ci restano soltanto delle fotografie d'epoca e alcuni scritti di Dino Buzzati, le uniche fonti che hanno documentato le gesta di quei lavoratori. In questo caso noi filmiamo un lavoro unico, un fatto che ha una sua rilevanza storica per chi verrà dopo, con un’intento di documentazione minuziosa, di restituzione e testimonio precisi, un documentarismo puro, appunto, che tramandi per i posteri l'evento nel suo insieme, ma anche le procedure, le tecniche, gli strumenti e i saperi spiccioli che lo hanno reso possibile. Dall’altra parte lavoriamo sempre anche sulla trasfigurazione del reale, come dimostrano bene sia Spira Mirabilis che L'infinita Fabbrica del Duomo un estrarre dai corpi qualcosa che c’è ma che normalmente non si vede. Wiseman diceva: «nei miei film combino pensiero razionale e pensiero emotivo»... ecco, credo che questa frase inquadri correttamente il tipo di lavoro che cerchiamo di fare, lavorare sempre su questo doppio livello: analisi del fenomeno e sentimento del fenomeno.

Diversamente proprio da Wiseman, che tende alla restituzione totale della realtà, in scala uno a uno, voi lavorate per selezione, scegliendo solo alcune parti del processo. Mi chiedo dunque se il criterio con cui scegliete i frammenti da montare nel film finito sia di tipo rappresentativo, esplicativo, o invece estetico, visuale.

M.P. Anche in questo caso credo che sia una combinazione delle due cose. Prima di tutto per noi si tratta di scegliere situazioni che permettono di esprimere se non propriamente il proprio pensiero in forma compiuta, quantomeno il punto di vista che hai su quella parte di realtà, d’altronde ogni discorso che si fa sul reale, narrativo, visivo, documentale che sia, ha delle specificità sue, certe caratteristiche del fenomeno che si prestano meglio ad essere rese attraverso quel mezzo specifico, per cui una certa situazione può risultare più interessante dal punto di vista di chi deve rappresentarla attraverso le parole, farne letteratura, mentre risulta poco significativa per chi lavora con la danza o con la musica, e via dicendo. Lavorando con le immagini ovviamente per noi gli aspetti visivi sono fondamentali, nel riprendere una certa procedura o un ambiente la presenza o l'assenza di un qualche elemento cinetico o figurativo, il movimento di un apparato,  una simmetria o figura geometrica dovuti a una qualche struttura costruita dall'uomo, per noi diventano importantissimi, anzi fondano l'intero processo estetico in un certo senso. Cerchiamo di usare il più possibile le caratteristiche visive e cinetiche degli oggetti di ripresa piuttosto che le possibilità manipolatorie offerte dal mezzo cinematografico, al punto che tanto in La Fabbrica del Duomo che in Blu i soli movimenti che vedi sono quelli dei vari macchinari nell'esercizio delle loro funzioni e non movimenti della macchina da presa, macchine "da lavoro", quindi, non macchine cinematografiche come ottiche, carrelli e gru. In Blu quello che ci interessava dal punto di vista visivo era innanzitutto la notte, le sue ombre e le sue luci artificiali. Sul piano umano però ci interessava trasmettere l’idea di queste persone che riemergono da questa lunga notte, una suggestione se vuoi dantesca, di riemersione dagli inferi, e volevamo testimoniare come si viva duramente in questa sorta di inferno, dove il frastuono è costantemente assordante e l’aria arroventata è irrespirabile.

M.D. Per quanto riguarda il problema della “scelta“ ho cercato di rispettare il processo: Blu è un film che testimonia un insieme di procedure e che cerca, pur in una temporalità ellittica, di durare quanto il processo stesso. Si chiamano “conci” i segmenti prefabbricati di cemento armato ricurvo che si utilizzano per comporre l’anello della galleria. Ne occorrono sette per comporre ogni singolo anello, e ognuno andrà prelevato dal deposito caricato tramite gru e trasportato su un apposito treno detto la parigina sino in testa alla galleria, dove con altre gru andrà scaricato, posizionato e fissato. L’idea è quella di restituire attraverso il film questa stessa durata, la medesima temporalità.

Noto che usate una terminologia tecnica da veri specialisti di cantiere: ne deduco che avete approfondito la conoscenza  tecnica di tutto il processo e credo, d'altronde, che sia stata un'opera di studio indispensabile per poterlo correttamente raccontare...

M.D. La conoscenza specifica delle procedure, di ogni loro singola fase e dell'insieme, per noi è fondamentale, abbiamo fatto corsi sulla sicurezza, incontrato e discusso a lungo con gli ingegneri, fatto riunioni, studiato a fondo le piantine, e assimilato qualsiasi altra fonte o dato che potesse esserci utile. Ma questo vale per ogni nostro film, c’è sempre dietro questo lavoro di studio e apprendistato, perché i processi li riesci a raccontare solo quando li conosci approfonditamente.

Queste parole "processo", "procedura", ritornano continuamente nei vostri discorsi e nei vostri film, che invece assai più raramente mostrano i risultati, il manufatto finito...

M.P. Si tratta sempre di “procedere“ nella conoscenza dei fenomeni, cioè di andare avanti, ricordando che l’etimo latino del termine si ritrova nel verbo cedere, cioè andare, avanzare, seguito dal prefisso pro. Il risultato, l'oggetto finito in sé, non è molto interessante, è la fine del processo, dunque è statico, non suscettibile di evoluzioni ulteriori, ed è nell’evidenza, sotto gli occhi di tutti, non offre la possibilità di ulteriori domande perché tutte le risposte sono lì, in bella mostra. Interessante invece è l’interrogare gli oggetti, specialmente quelli del quotidiano, alla luce di ciò che in essi non si vede pur essendo presente, come le procedure della loro produzione, che ancora permettono di formulare un'interrogazione nuova rispetto all'oggetto. È un po’ quello che chiediamo di accettare a chi guarda i nostri film, il patto che devi sottoscrivere per avere accesso "all'interno" del film, perché se accetti allora vuol dire che sei disposto anche ad accettare di seguire un percorso, ma non necessariamente di arrivare a un oggetto, di intraprendere un viaggio in cui non è interessante la meta.

Molta attenzione dedicate alle identità sonore e alla loro riproduzione schermica. Avete trattato i rumori dei macchinari in maniera tale da saturare completamente lo spazio d’ascolto, creare un effetto di “tutto pieno“ che maschera ogni altra presenza, comprese le esili voci degli operai.

M.P. Il suono in galleria è a dir poco infernale, un rumore continuo che rende quasi impossibile comunicare per lunghe ore. In fase di ripresa abbiamo microfonato separatamente le varie fonti, in modo di poter lavorare su volume ed equalizzazioni in maniera indipendente in fase di missaggio. il suono del film è un suono “rifatto“  a partire dal suono reale, cioè sono le le reali prese audio dell'ambiente sonoro che c'è in galleria ma trattate in modo tale da accentuare gli aspetti di rumorosità, di onnipresenza, che sono quelli che ci hanno maggiormente impressionato quando eravamo li sotto. Quello che senti, quindi è l'audio reale dei processi meccanici che abbiamo testimoniato, leggermente rimodellato sul piano della manifestazione percettiva dal sentimento che ne abbiamo avuto noi, fenomeno e sentimento del fenomeno.

M.D. Ci interessava restituire soprattutto questa idea dell’invasività di questo rumore, talmente forte da impedire di comunicare. In tutti nostri film il suono viene completamente ricostruito a partire dai suoni reali, suoni d'ambiente come suoni singoli che vengono processati in fase di montaggio, perché intraprendiamo il lavoro di montaggio delle immagini simultaneamente a quello dell’audio, non aspettando cioè di avere un montaggio video finito prima di lavorare il suono. Abbiamo un rapporto di scambio simultaneo e continuo con il nostro collaboratore storico, Massimo Mariani, ci scambiamo reciprocamente suggestioni visive e sonore e il montaggio dei due livelli avanza in parallelo, reciprocamente condizionandosi. Analogamente a quanto facciamo per le immagini anche questo suono è una forma di “estrazione” ed espansione percettiva di alcuni aspetti della realtà, del suo suono reale, che a noi interessa rivelare, scavare fuori, dall'ascolto o dalla visione quotidiani che avvengono per lo più distrattamente.

M.P. D'altronde, anche non "ritoccando" il materiale in senso espressivo, non potrebbe comunque esserci una perfetta coincidenza tra ciò che appare sullo schermo e il fenomeno reale,  perché i documentari “non sono la realtà, prendono vita da essa ma non sono la stessa cosa, quindi anche se questa realtà per noi è inviolabile, nel senso che non la mettiamo mai in scena dando istruzioni di tipo registico in senso tradizionale, tipo «quando te lo dico accendi quella macchina, o aspetta rifacciamola ma fai il gesto più lentamente» eccetera, il risultato che si ottiene è sempre e comunque una forma di trasfigurazione. Per quanto non ci sia alcuna intenzione di contraffazione da parte nostra, sempre di film si tratta, riproduzioni del reale, anche se è un documentario comunque non è più la stessa realtà.

Lunghe scene in cui non si sente altro che il frastuono macchinico dei pesanti apparati, le rare voci umane soffocate nel fragore, ogni comunicazione impossibile...per quanto non ci sia alcuna intenzione polemica, o ideologica nella vostra rappresentazione dei fatti, il senso di isolamento, forse di alienazione , cui spinge questa vita sotterranea emerge comunque...

M.D. E' un lavoro faticosissimo, di fatto sei un minatore, ed è un lavoro equiparato al lavoro di miniera. Entrare in galleria significa avere una grande capacità di astrazione, infatti la scena dei controlli medici, è una scena di iper realismo, ma in realtà è un po' un sogno, perché nel tragitto sulla parigina che ti porta dalla stazione sino alla “talpa”, la TBM, c'è la concreta possibilità di perdersi nei pensieri, perché sei impossibilitato a parlare per il frastuono, sei isolato nel tuo silenzio in mezzo al rumore. E' una dimensione che può essere effettivamente alienante, ma a volte anche no, nel senso che è appunto la loro dimensione, la loro vita. Lavorano ventiquattro giorni al mese, tre giorni di pausa ogni ventuno giorni, vivendo lì, dentro i container del campo base, che come tutti i campi base èstato progettato e costruito con gli stessi criteri dei campi di concentramento, con le stesse geometrie funzionali all'efficenza e al lavoro. Non è una vita facile, ed è per questo che ci sembra giusto dargli una visibilità.

M.P. Non a caso il film vuole essere un omaggio a queste persone che noi non vediamo mai. Loro fanno un lavoro faticosissimo grazie a cui tutti noi godremo di benefici, del bene comune.  Per questo noi le consideriamo persone importanti e ci sembrava giusto dare visibilità alla loro opera, una piccola restituzione di giustizia.

Come avete scritto Blu? Scrittura tradizionale? Montaggio-scrittura?

M.P.  Noi scriviamo per avere dei soldi, quindi esiste uno script perché l'erogazione del finanziamento è subordinato al deposito del soggetto. Siccome questi scritti devono suscitare un'interesse di tipo istituzionale, per ottenere il finanziamento in ognuno infiliamo alcuni spunti che vadano in quella direzione. In Blu, nella sua scrittura, c'è l'idea di una grande opera che si sta costruendo, forse l'ultima grande opera di bene comune di queste dimensioni che si farà a Milano e forse l'ultima metropolitana così estesa in Italia, quindi un primo piano di lettura è questo, quello celebrativo, sul quale innestiamo, per così dire, il nostro discorso di celebrazione del lavoro invisibile e di rilettura ottica della sotterraneità. 

Ma se non foste vincolati al sistema dei finanziamenti scrivereste ugualmente?

M.D.   No, probabilmente potremmo farne anche a meno, perché considera che vivendo insieme il nostro modo di elaborare il concept è alquanto atipico. C'è una forma di “scrittura” continua che avviene senza il bisogno di scrivere concretamente, perché tra di noi c'è un confronto continuo, uno svisceramento senza sosta delle idee che quando sfocia nel soggetto in realtà è solo all'inizio della sua elaborazione, perché poi quello che abbiamo scritto viene inevitabilmente sottoposto a una seconda fase di riflessioni, interrogazioni continue «no, guarda che questo non funziona, correggi qua, rivedi là» e quindi c'è un secondo grado di approfondimento, di svisceramento. Tutto questo si ripete quando iniziamo le riprese, e poi di nuovo per il montaggio, che spesso iniziamo simultaneamente alle riprese, ognuno dei quali è un ulteriore livello di scrittura e di sguardo. Poi, ovviamente, molto dipende dal grado di complessità di questa scrittura, ovviamente un film più semplice come Blu ha esigenze di pianificazione strategica dei materiali molto ridotte rispetto a Spira Mirabilis o Guerra e Pace, il prossimo lavoro che stiamo preparando,  e dunque i “gradi di scrittura” saranno diversi, più o meno strutturati.

M.P. Bisogna anche ammettere, per onestà che il lavoro scritturale, per quanto poi le sue motivazioni siano fondamentalmente di ordine economico, è stato spesso di grande aiuto per mettere ordine e trovare una  forma definita per certe idee, anche a riordinare materiale che avevamo già girato, o semplicemente per capire cosa non vogliamo fare.

Rispetto a Spira Mirabilis, che in qualche modo aspirava a fornire un grado di rappresentazione astratta dell'idea stessa di trasformazione, di lavoro sui materiali, in Blu è prevalente l'intento documentario, di restituzione delle teknè specifiche, del dispendio muscolare concreto...

M.P. Blu è di fatto un film più semplice di Spira Mirabilis, che cercava di rispondere ad interrogativi più grandi «Come rappresenti l'immortalità? Come rappresenti il meglio degli uomini?» quindi l'aspetto metafisico e di astrazione era più centrale e richiedeva una maggiore complessità espositiva, cioè di visione. In Blu la suggestione iniziale è chiara «E quindi uscimmo a veder le stelle», l'idea di un viaggio, e di un viaggio che attraversa la notte e che ha una riemersione alla superficie come approdo, in cui però era fondamentale il mettere in forma l'omaggio al lavoro e specialmente a quello degli invisibili ed era chiara la suggestione della notturnità sul piano estetico, niente di metafisico, insomma. Blu, e questo non va mai dimenticato, vuole essere anche un documento, una testimonianza di come si lavora nel 2017 a scavare le gallerie, che resta la chiave di lettura indispensabile per trovare il senso di tutta l'operazione.

Montaggio “monopuntuale”, come nei vecchi film delle origini: solo piani sequenza e stacchi netti...

M.D. La dissolvenza incrociata è il nostro sogno proibito!!! In fondo è la logica del cinema classico. In Blu la regola aurea che domina le durate è dettata dal processo, ma anche dal sentimento del processo. Il trenino che li porta al lavoro deve avere una sua durata, perché oltre che rendere il tragitto reale del trenino deve rendere la fatica, o la non fatica, di quel viaggio, la discesa negli inferi deve avere una sua durata, loro prima di spalle, poi che spariscono inghiottiti dalla scaletta che li porta giù, ha bisogno di un tempo che consenta di recepire l'importanza e il tipo di emozione di cui è carico quel momento di passaggio tra le due dimensioni, la superficie e "il sotto", come la costruzione dell'anello di cemento, il sogno eccetera. In più per noi il film è ripartito internamente in blocchi di sequenze che hanno un rapporto reciproco sia sul piano simbolico che su quello della durata, perché in fondo il cinema è sempre costruzione di tempo e spazio, per cui, per esempio la scena del sogno e quella della costruzione dell'anello devono avere durate simili, per bilanciare la struttura.

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