«La Storia è isterica: essa prende forma solo se la si guarda – e per guardarla bisogna esserne esclusi».
R. Barthes, La camera chiara. Nota sulla fotografia.

L’isterismo della Storia, che Roland Barthes slegava dallo sguardo, ma da uno sguardo che pure è affrancato dall’appartenenza, come se soltanto nel non-luogo del distacco ci fosse la forma vera delle cose, la loro dinamica, muove dagli occhi, dalla voragine delle pupille dilatate: a patto di restare lontani, esclusi appunto dalla trama degli accadimenti, per essere trafitti dalla visione, e inondati da pezzi di mondi, da pezzi di vite e pezzi di sguardi. Sulla stessa linea palpitante, intensamente straniante procede, tratto a tratto, infranto e ricomposto dagli ingranaggi del montaggio, Le livre d’image, che è ancora una volta – e forse, adesso, ancora di più – discorso sul Cinema, se non domanda su quale ruolo abbia il cinema nelle innumerevoli possibilità d’essere (d’esserci) nel fulgore lacerante del reale.

Che questa presenza, sovrabbondanza del linguaggio filmico, visivo, corrisponda ad una assenza, quella cioè di una prospettiva da cui guardare, è altrettanto evidente: già nei titoli d’entrata, che appaiono e scompaiono in chiasmi visivi, come a voler annunciare la negazione di un punto dal quale fissare lo sguardo, ma anche nella disposizione a forma di croci delle parole scritte e delle immagini (la mano, il dito sullo schermo) come se ci fosse un sacrificio in atto, Jean Luc Godard frantuma quella che è, che è stata sempre di più a partire da opere come Notre Musique fino al culmine di Adieu au langage, l’idea stessa che il cinema possa offrire interpretazioni riguardo al mondo, pur essendo la sua, e anzi proprio per questo, una poetica del reale, oltre che dell’immaginario. 

Allo stesso modo, si tratta di una poetica in cui questo «voyage à travers l’écran», disseminato di citazioni illustri – una fra tutte, l’occhio che buca lo schermo da Un chien andalou di Buñuel e Dalí un attimo prima del taglio – pone ripetuti interrogativi, senza offrire risposta alcuna, su cosa sia la realtà e cosa sia il cinema; e lo fa nella medesima propensione a guardare («Image») e a narrare («Parole»), sebbene la rapidità di macchina, la vertigine del montaggio, il ricorso a inquadrature giustapposte, ai giochi onirici dell’illuminazione, troppo scarsa o troppo accentuata, l’assenza di raccordi e i cambi prospettici spingano nella direzione di una dilatazione del racconto, di quel che ne resta, verso il fuoricampo.

La difficoltà della visione, che è anche immaginazione – e «image» ha in sé la doppia valenza di “immagine” e “immagine mentale”, quindi “immaginazione” –  è di volta in volta ostentata dai violenti attacchi al suo farsi, al farsi del sogno («rêve», «utopie»): la “riserva di senso potenziale” che Jacques Rancière individua in Godard diventa proprio ricerca, senso ulteriore, segno. È la traccia che altrove, fuori dalla storia dalla quale siamo esclusi, si compie, attraversata dal campo cieco dell’immagine, la possibilità di uno sguardo che apra squarci di “pensosità” diffusa, tornando a quella caratteristica che è propria della fotografia contrapposta al cinema per Barthes: ma che invece qui, e “altrove”, Le livre d’image  assume come propria, e come insita nel linguaggio-cinema. 

«Il faut que tu parles»: tu spettatore? Tu Cinema? Chi deve parlare? Contaminazioni, sperimentazioni, colpi di tosse per rivendicare la falsa accidentalità del suono, come dell’immagine che vaga con la macchina da presa, “notre musique” del tempo, dei tempi trascorsi, che verranno, con la promessa che «l’image viendra», e verrà dopo gli orrori, dopo il viso bambino in primo piano, con la bocca aperta per parlare ma senza voce. Verrà. «Oh Temps!», e intanto schegge diacroniche, pittoriche, poetiche, dodecafonia in musica e in visioni: intanto irruzione di occhi, e mani, e voci, e violenza contemporanea, ancora quotidianità tragica.

È il cinema che sfugge alle definizioni, liberando da gabbie retoriche il linguaggio, che allora diventa quella stessa bocca che parla, tosse che interrompe, mani che creano, che disfano, ed è «remake», «signes parmi nous», perpetuarsi creativo che prima è pensiero, poi visione, e poi ancora distruzione e creazione ancora, «nel vento confuso del viaggio»: il nostro.

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