Michele Sardone

altNon si può descrivere tutto. Questo è il grosso problema del documentario. S’impiglia nella sua stessa trappola. [...] Se faccio un film sull’amore, non posso entrare nella stanza dove delle persone vere stanno facendo l’amore. [...] Per questo probabilmente iniziai a fare lungometraggi. Qui non ci sono problemi. Ho bisogno di una coppia per fare l’amore, a letto, la cerco. [...] Posso perfino comprare della glicerina, metterne alcune gocce negli occhi di un’attrice e lei piangerà. Sono riuscito a fotografare delle lacrime vere molte volte. È una cosa completamente diversa. Ho paura delle lacrime vere. Infatti non so se ho il diritto di fotografarle. [...] Ma adesso ho la glicerina. (Kieślowski in Žižek 2010, pp. 121-22)

Ci si deve porre un limite al rappresentabile? Tra cinefili, subito si ricorre al celebre duplice divieto che si ascrive a Bazin: non si possono riprendere il momento della morte e quello dell’orgasmo (in francese anche detto non a caso petite mort), i sospiri fatali devono essere negati alla visione. Una doppia interdizione che oggi mostra tutta la sua inattualità: ogni cosa è visibile e facilmente accessibile ai nostri occhi, dai porno amatoriali alle registrazioni delle esecuzioni capitali, video virali dove persone vere copulano e muoiono ripetutamente e incessantemente dinanzi a noi.

Capita pure nei documentari di autori acclarati: in Fuocoammare ci ritroviamo dinanzi ai corpi esanimi di immigrati stipati in un barcone. Non assistiamo più al mito stregonesco evocato da Cocteau, secondo il quale il cinema è «morte al lavoro», ma al suo superamento: la morte ha smesso di lavorare, resta solo il risultato cadaverico, l’opera finita e già data. È inevitabile confrontarsi con il limite di un’operazione documentaristica che dà l’evento come assodato (come se regista e troupe si fossero detti: andiamo in mezzo al mare a filmare la “tragedia degli immigrati” di cui tanto si parla, ben sicuri che l’evento accadrà dinanzi a noi e alle nostre macchine da presa) e che quindi ha già consumato l’oggetto della rappresentazione ancor prima di riprenderlo; come è del resto inevitabile che, una volta ripreso l’evento previsto, ci si ritrovi dinanzi all’evidenza tautologica (e quindi anche un po’ banale e deludente) che quel che doveva succedere è accaduto (nonostante la possibilità che contemplavamo dentro di noi che non accadesse), quel che dovevamo vedere abbiamo visto (sebbene avremmo anche non potuto vederlo), e che ci si ponga la domanda abissale: e ora?

altE ora non resta che discostare lo sguardo e vedere quel che effettivamente non vediamo e non avevamo previsto: la quotidianità degli abitanti di Lampedusa, ovvero la signora che prepara gli spaghetti coi calamari, il pescatore subacqueo di ricci marini, il DJ di una radio locale con repertorio fermo a decadi fa, risalente al folklore delle belle canzoni di una volta; fino all’inversione di senso del film, sin nel titolo: Fuocoammare non è più, come ci si poteva aspettare, metafora incendiaria che allude alla “tragedia degli immigrati” nel Mediterraneo (“tragedia” che ormai è un brand retorico e massmediatico già di per sé, non bisognoso quindi di ulteriori etichette), ma ritorna ad essere, banalmente e tautologicamente, quel che è e che avrebbe potuto non essere: il titolo di una canzonetta.

Può darsi che sia cambiata la stessa cognizione che abbiamo dell’evento, che non è l’inatteso che infrange la monotonia del reale, ma ne è la sostanza virtuale (o, per usare un termine in disuso, ne è l’anima): nei social tutto è evento, e ogni accadimento annunciato viene già consumato nella sua attesa, anche se l’evento stesso non dovesse realizzarsi. Ciascuno, nella vita social, è poi portato a pensare che ogni episodio della propria vita, anche il più banale, sia degno di essere immortalato, che ogni singolo pensiero, anche il più insignificante, sia degno di essere scritto e che quindi ogni accadimento e ogni pensiero di ciascun individuo siano talmente interessanti (perché appartenenti a un’esistenza unica, originale e irripetibile) che devono essere condivisi con il più ampio pubblico possibile (e che le potenzialità di internet fanno percepire come sterminato).

Ma se ogni istante della propria vita è così importante allora non vi è differenza tra un istante e l’altro, sono tutti monotonamente importanti. Ci si ritrova portati a pensare, per paradosso, che il non accadere sia l’evento nuovo e originale che attendavamo. Ci si ritrova a contemplare il flusso di informazioni e comunicazioni che ci viene offerto quotidianamente dai media, dai social, in cui tutto si dà indifferentemente, (e tutto si fonde e confonde, le guerre con i talk show, il martirio dei migranti con i talent, gli atti di terrorismo con i post, i commenti, gli hashtag e i retweet) e dinanzi a tutto questo una strategia di difesa, per non soccombere al flusso stesso, può essere rappresentata dal porre una distanza fra il nostro sguardo e lo schermo, creando una diga tra il reale-reale (che è qui, dalla parte di chi vede) e un reale-altro, con il prefisso più funzionale al momento (ir-reale, iper-reale, neo-reale, post-reale...). Del resto il digitale, modalità attraverso cui questo flusso si trasmette, non sembra stendere sul video una patina acquosa che accentua l’effetto di straniamento verso quel che si vede?

I limiti di questa postura ce li hanno già mostrati, per restare solo nell’ultimo anno, Straub e Malick, con esiti differenti, ma al tempo stesso speculari. L’aquarium et la nation sembra esasperare l’effetto acquoso dato dalla visione digitale, facendo in modo che lo sguardo si fissi su di un acquario, dove nulla accade e ogni cosa fluttua senza senso; e lo sguardo è vicinissimo al vetro, aderente quasi – quasi, appunto: una piccolissima distanza è pur necessaria per poterci accorgere della situazione nella quale sguazziamo; e Straub, a una più attenta analisi, da quell’acquario ci ha fatto appena uscire, come a dire che quel che vediamo in video ci riguarda eccome. Knight of Cups, d’altra parte, riversa sullo schermo quella sensazione che a volte ci fa vedere quel che siamo abituati a denominare reale come uno spettacolo, al quale partecipiamo da spettatori: fluttuiamo insieme al nostro sguardo, siamo dentro l’acquario ma non ne usciamo, piuttosto ne siamo al limite, ci muoviamo lungo i suoi bordi secondo un moto tangente allo scorrere delle immagini (per poi trovarci fatalmente al punto di partenza), ancora quasi aderenti al vetro come ne L’aquarium, ma, come detto a inizio frase, dall’altra parte.

Ma forse bisogna concludere che è il nostro stesso vedere che è cambiato: i video amatoriali girati con i telefonini hanno un formato che, al suo primo apparire, sembrava anomalo, con quel suo essere innaturalmente compresso ai lati e sviluppato verticalmente, come se si spiasse il mondo da dietro una feritoia, sempre in all’erta. All’attuale normalizzazione di questo sguardo innaturale ci si può opporre con il feticismo a 70 mm dell’ultimo Tarantino, o si può ricorrere a escamotage luddistici, come il monaco protagonista di The Zero Theorem di Terry Gilliam, che a martellate costringeva l’enorme monitor di un futuristico device a convertirsi a un più naturale 16:9.
Oppure si può esasperare il formato-feritoia, come già fatto da Dolan in Mommy: la macchina da presa qui sembra posizionata nell’opprimente cretto dell’utero materno; il figlio, maieutica di se stesso, nasce sul serio solo quando riesce ad allargare il formato dell’immagine, mimando l’uscita dal grembo (e sarà la madre a richiuderlo di nuovo dentro, temendo di divenire ricordo opaco del figlio).
L’immagine-cretto annulla la profondità di campo, rende tutto superficie. In una immagine del genere entra solo un viso alla volta, è specchio, è autonarrazione, un selfie fatto a lungometraggio. È l’esatta modalità di rappresentazione scelta da un potere che si è fatto materno, che ci vuole sempre adolescenti e che, con la motivazione che non siamo capaci di pensare a noi stessi, decide per noi e al nostro posto.

Eppure qualche segno di cedimento compare, la storia sembra che stia ritornando, preme ai confini, compare sui monitor. Il potere dismette i panni materni per indossare (di nuovo) la maschera volitiva e patriarcale. E noi, eterni adolescenti, sempre bisognosi di rassicurazioni e protezione, facciamo finta di credere che sia la soluzione meno peggiore.

altLa sensazione è che non finirà bene. Può forse servire un ripasso di quella che è stata la storia degli ultimi decenni. Cavalo Dinheiro di Pedro Costa comprime in due ore la storia di una nazione e in qualche modo ci avverte che è ancora lì, ancora irrisolta e alla ricerca, forse vana, di una soluzione.
Il cavallo, animale apocalittico per eccellenza, non compare. Ci sembra di udire solo il suo scalpiccio indolente: sono i passi cadenzati di Ventura, eponimo mitico della storia coloniale del Portogallo. L’apocalisse è forse passata, o magari è lì a venire, e i cavalli che devono annunciarla vagano in cerca di ristoro, in attesa che arrivi il momento. Ventura non è l’immigrato-vittima, modello tipico della retorica massmediale, dinanzi al quale noi occidentali possiamo mantenere una rassicurante posizione di superiorità; è figura mitica, ancestrale, che vive nel paradosso di essere astorica e al tempo stesso effige che porta su di sé i segni della storia.
Forse è proprio vero che la storia si ripete. Il colonialismo, le migrazioni, la guerra sono sempre accaduti e continuano ad accadere, uguali e in forme diverse. Del resto la chiusura delle frontiere come reazione alla dittatura tecnocapitalista delle troike pseudoeuropeiste ci sta riconducendo ancora una volta ai più beceri nazionalismi. E gli anni Venti di questo secolo rischiano di assomigliare tragicamente a quelli del Novecento.


Bibliografia

Žižek S. (2010): Paura delle lacrime vere, Città Aperta Edizioni, Troina (En).


Filmografia

Cavalo Dinheiro (Pedro Costa 2014)

Fuocoammare (Gianfranco Rosi 2016)

Knight of Cups (Terrence Malick 2015)

L’aquarium et la nation (Jean-Marie Straub 2015)

Mommy (Xavier Dolan 2014)

The Zero Theorem (Terry Gilliam 2013)