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L’immagine pubblicitaria, la patina della posa stimolante il consumo, è solo il risvolto di The Neon Demon, l’appiglio necessario a una “critica del reale”, economico-politica (ma comunque evidente, la fenomenologia del selfie in quanto esserci oggi, del sé narcissico ostentato senza pudore); mentre la sua essenza starebbe nella gratuità di un abbaglio d’ombra; del luccicare smorto del manichino, fermo, oscenico; nel pallore di epidermidi artificiali, cosmetiche, al chiaro di luna (o del lume che si sparge per tutto il tempio borghese in cui si compie il sacrificio della bellezza, quella di Jesse in carne o ossa, carne vera, ancora rosea, scampata fino a quel momento alla crapula da parte della scena mortuale, manichinica); sta proprio nel crepuscolo di un qualche angolo di stanza in cui l’io-Refn (pieno di sé) fruisce di un Es pieno di plastica, mentre risuona il carillon di Cliff Martinez e tocca le bambole di alabastro a gambe spalancate, con la finta feritoia, impenetrabile sotto i polpastrelli e la carne della lingua, che era stata l’ossessione di Casanova, di sfondare la perfezione del simulacro.


Rosalba, cadavere di bambola, acconciata con sfarzo rococò, cioè con il decadere delle tinte sugli ornamenti; ma potrebbe essere anche Rosabella: l’attrazione (l’ossessione) dell’inorganico, del feticcio, cioè della proiezione dell’oggetto perduto, mancante, polo di attrazione del desiderio, espresso in forza di campi semantici (il linguaggio, la rappresentazione), a scandire l’unica dimensione plausibile per il soggetto desiderante (soggetto del desiderio): l’immaginario. E questo oggetto posto in uno spazio sfinito, estenuato dall’ombra e da specchi rifrangenti la sua bellezza narcisistica, autoerotica, perciò necrofila (mai aperta all’altro ma tutta chiusa e consumata in sé); un triangolo di neon (cui vertici in-organici sono Ruby, Gigi e Sarah) tracciato sul terreno del film a delimitare i confini del sabba in cui Jesse finisce: manichino spezzato, pasto di celluloide, disossato sul fondo della piscina, prefigurato da quello a cui Ruby si attacca con la colla della saliva, nell’obitorio, dopo averlo truccato (come aveva fatto con Jesse all’inizio) proprio immaginandola nuda e lasciva in quella carcassa di lividi.

Non c’è desiderio e sessualità qui se non in senso necrofilo (o autoerotico: l’io in cerca di Altro, scarica il desiderio sul feticcio, il quale essendo di materiale refrattario, lo restituisce al soggetto, così intriso del suo stesso desiderio), come culto del sintetico, inanimato, che incarna il senso di perdita dell’oggetto del desiderio, proprio la constatazione, eccitante e oscura, della sua mancanza (ancestrale), che provoca un riversamento sterile, mortifero, su di sé: Ruby che con le gambe aperte dal buio, penetrata solo da un raggio di luna, scarica un lago di sangue sul pavimento; e anche la fellatio attuata da Hank con il coltello, non si sfoga su Jesse che dorme (inerte come un fantoccio o un morto), nella sua gola profondata dall’inorganico, ma resta tutta vibrante e tesa sulla superficie della lama e si scarica come elettricità statica sulle cose, le suppellettili vagamente rétro sparse per tutto il film, la superficie del tappeto su cui compaiono i titoli di testa, con Jesse-Rosalba che giace già dissanguata nel crepuscolo dei neon.

È il Neonismo trionfante, naturale, anzi artificiale evoluzione del Crepuscolarismo – quello mistico, simbolistico di Maeterlinck, Corazzini, già impresso nei grandi iniziati di Schuré, Nerval, ecc –, che fermava i barbagli del sole al tramonto o delle prime luci elettriche accese di sera, su vetrate, sui selciati, i muri dei sanatori, le superfici cimiteriali, «un chiaro di luna stanco./ Chiaro di luna in cui traspaiono/ gigli ingialliti del domani;/ chiaro di luna in cui non nascono/ che le ombre tristi delle mani» (Maeterlinck); e che ora, dopo l’ulteriore filtro di Roussel, Jarry, Craig e di tutto il Novecento, mette in luce, in luna (in una certa luce decrescente) la costellazione di volti e di corpi marionettistici, maschere, reliquie tra i cristalli, i brillanti da cosmesi vagamente liberty; i carillon di specchi; l’incanto dei riflessi morti; i drappi, i pavimenti delle sale; teatri di techno-posa dove i corpi sono bluastri, lividi, grumo elettrico; le piastrelle lucide dei bagni, in putrefazione per fotosintesi da neon: una folla di feticci che (non) satura l’infinito spazio dell’inconscio, immaginazione, dove riecheggia il vuoto a intermittenza, la penombra, il gocciolare di note elettroniche, enigmatiche (a cui sono appese tutte le immagini del film), la superficie gommosa, siliconica del synth che smuove la fermezza dell’immagine e dice, mima il sorgere (già decaduto) del sublime sintetico. Ulteriore conferma (anche rispetto alle sanzioni bressoniane) che l’esperienza cinematografica è esperienza di auscultazione tanto quanto lo è di visione: un film che deve essere ascoltato, visto nella sua urgente emissione sonora e musicale, nell’emanazione audio di un materiale che nasce già come sostanza audio-video.

P.s.
Non rientrano nel Neonismo alcuni film del Postmoderno (che, per proprie caratteristiche intrinseche, sembrerebbe potervi corrispondere), programmaticamente privi di un retroterra semantico (che non sia quello legato al manifestarsi per sé dell’immagine), cioè quel sublime in disfacimento (anzi proprio fenomenologia, fisiologia di macerazione per fotosintesi neoniana) condotto da luci e superfici sintetiche, cadaveri artificiali e poetici, manichini dimenantisi e stridenti la propria malinconia, che era già di Raymond Roussel, Craig, poi di Witkiewicz, Schulz, ecc., dopo che si era conclusa l’esperienza del crepuscolarismo mistico. Per una comprensione del concetto di sublime rimando al classico Edmund Burke, da cui già si ricava una specie di pietrificazione della bellezza e di “piacere negativo” legato al monumentale disfacimento, quello che Benjamin rinverrà nelle reliquie: a ciò si aggiunge il fascino del notturno e del barbaglio che getta un minimo di luce sulla cera (o la plastica, la porcellana), la maschera opaca, la cosmesi dell’Altro; il che, come s’è visto, è anche alla base di alcune esperienze crepuscolari: il minimo della luce, il crepuscolo, sulle superfici.

Neonico sarebbe un film come Les rencontres d’après minuit di Gonzalez; e pre-neonico L’ȃge atomique di Héléna Klotz, entrambi sostenuti da una narrazione, sublimazione delle cose, che però si declina in senso romantico o post-romantico (per un approfondimento su questi film rimando a Tre notti di un sognatore. Albert Serra. Héléna Klotz. Yann Gonzalez, su «Filmcritica» 645-646), mentre sembra più vicino al film di Refn (nel senso di un neonismo passivo, o meglio negativo) Il cigno nero di Aronofsky. Ma volendo individuare un archetipo di The Neon Demon e del Neonismo, si arriva facilmente almeno a Suspiria (in cui i crepuscoli tipici di Dario Argento si trasformano in crepuscoli artificiali, appunto neonici), nonostante qui le plaghe, le ombre al neon siano lo strumento e non il fine del film, che in Refn si incarnano alle superfici, alle epidermidi, imbalsamando la materia cinematografica.


Bibliografia

Burke E. (2002): Inchiesta sul bello e il sublime, Aesthetica, Palermo.
Corazzini S. (1999): Poesie edite e inedite, Einaudi, Torino.
Maeterlinck M. (1989): Serre Calde e Quindici Canzoni, Mondadori, Milano.
Schuré E. (1993): I grandi iniziati, Laterza, Bari.
Schulz B. (1970): Le botteghe color cannella, Einaudi, Torino.
Roussel R. (1982): Locus Solus, Einaudi, Torino.

 
Filmografia

Il Casanova di Federico Fellini (Federico Fellini 1976)
Il cigno nero (Black Swan) (Darren Aronofsky 2010)
L’ȃge atomique (Héléna Klotz 2012)
Les rencontres d’après minuit (Yann Gonzalez 2013)
Suspiria (Dario Argento 1977)
The Neon Demon (Nicolas Winding Refn 2016)
Quarto Potere (Citizen Kane) (Orson Welles 1941)