Rivista

Stephen Broomer


The films and videos of Willie Varela have in the past reflected the artist’s terror and outrage. Since the beginning, Varela’s work has dealt in scenes of daily life (in El Paso and San Francisco), an autobiographical sensibility (which casts him, like so many artists, under the sign of a bleeding Christ), and a plastic manipulation, through cinematography and editing, that aspires to abstraction. While these characteristics of Varela’s work have often been set to the service of love, charity and the noble aspiration of trading visions and experiences, they are also marked by a pageant of death, a legacy of wounds, and a fury, provoked by injustice and the devaluation of human life and perception.

Dorottya Szalay


Cemeteries are known to be places of ambiguous nature. They separate the community of the living from the community of the dead, but at the same time they link the there-ness of death to the here-ness of living. They represent the ultimate destination for every individual and, as forums for spiritual exchange, they re-emphasize the finality of death. For an artist who has spent his entire life situated between two cultures and caught between the past and the future, a cemetery and its position as gatekeeper between two worlds seems to be a perfect location for filmic contemplation on eternal questions like “Why are we here?”

Brian Wilson


One of the most important traits Willie Varela inherited from his mentor Stan Brakhage is his sense of light. Brakhage, a true master on par with Turner in terms of his ability to depict the subtle, almost imperceptible nuances of luminance, explored light in all its forms and through all possible variables. It was not only a physical force in Brakhage’s films, but a deeply conceptual one as well. Varela extends this approach, synthesizing it with his own unique aesthetic sensibility and cultural background to forge a vision truly his own.

Mariangela Sansone


Lo sguardo arde dietro la fitta rete delle ciglia, brucia nella creazione dell’immagine e prende fuoco; il bulbo oculare opera uno sdoppiamento materico della visione, trascende il reale per raccontare il reale, attraverso una frammentazione visiva e un ritmo ossessivo e martellante. Due schermi, una stereografia del mondo e della società, il dolore, la sofferenza del quotidiano e la deriva umana in preda alla follia del terrorismo. È l’oscenità dell’antiumano, l’uomo che, per sua natura, si rivolta a sé stesso, si ribella al prossimo e deraglia in un suicidio, al fine di supportare un’illusione defunta. Il mondo brucia per mano di colui che si arroga di fare, disfare e oscenamente distruggere, «ogni oscenità viene sospesa, e tutte le descrizioni sono come trasferite dall'oggetto stesso al feticcio. Sussiste solo un'oscenità pensante» (Deleuze 2007).

Giulio Vicinelli


C'è il cinema intelligente, nell'ultimo dei Manetti Bros, Ammore e Malavita (2017), che sente il bisogno di allontanarsi da sé almeno per un attimo, e prendersi un po' per il culo, con affetto, certo, ma almeno un po', in un'epoca in cui è il prendersi dannatamente sul serio a fare cifra autoriale. Un cinema che si ripensa, anzi, si riguarda, perché prima che cinefili si definiscono spettatori, i Bros, e si permette il lusso di ridere bonariamente di certe sue idiosincrasie ricorrenti, manie, di certe stereotipizzazioni che oramai sono diventate talmente logore da gettare, appunto, l'ombra del ridicolo.

Luigi Abiusi

La musica vista da registi, critici, musicisti, produttori.







Raffaele Cavalluzzi

Il caso e altre novelle di Krzysztof Kieslowski, a cura di Marina Fabbri (La nave di Teseo, 2017), raccoglie i materiali narrativi per i documentari e per i soggetti dei primi lungometraggi del grande regista polacco: quindi per il passaggio dall’attività di documentarista a quella di autore di film a soggetto, e di autentici capolavori come Decalogo, La doppia vita di Veronica, Tre colori (Film Blu-Film Bianco-Film Rosso). Il film-chiave, da una produzione ancora acerba e quasi sperimentale a una piena maturità e originalità artistica, è allora Destino cieco (1981) (ma il titolo originale del racconto-soggetto che porta alla sceneggiatura è appunto Il caso).

Luigi Abiusi


Mentre scrivo arrivano notizie sui vincitori del Festival di Locarno, oramai riserva di visioni scintillanti, libere, orientate verso spazi in fieri, arcipelaghi di sensi nell’oceano dei possibili significati; inferenze improvvise, insorgenze poste fuori dalle classificazioni libresche della Storia e dentro un dis-ordine geografico cinematografico, come un affiorare spontaneo di spazi-tempo, di atmosfere gonfie d'aria elettrica, un'eterogenesi diffusa di ciò che si chiama immagine, ecc., almeno da quando il direttore è Chatrian e allora accanto al monstrum Tourneur si possono vedere autori come Ossang (miglior regia), Russell, Cabeleira (menzione speciale a "Cineasti del presente"), lì dove già avevano regnato Serra, Zulawski, Costa, a cui si aggiunge ora Wang Bing (vincitore del concorso).

Gemma Adesso


«Questa tassonomia... deve intendersi come un prontuario per difendersi dalle sirene dello spettacolo contemporaneo e come un grido d’allarme per la pericolosa pedagogia della trasmissione culturale che vediamo tristemente all’opera nel nostro presente. [...] La difesa della forma – che è sempre e comunque anche contenuto – è oggi una vera battaglia culturale d’avanguardia (non d’élite!) che bisogna saper vincere contro i fautori del presentismo, i tribuni del semplicismo estetizzante e i sacerdoti dello spettacolo post-politico». F. Rossin








Giulio Vicinelli


Federico Rossin, passeur militante

L'arrivo del cinema fotochimico di Nicolas Rey al festival di Pesaro ha avuto quantomeno, fatto raro in questa «epoca malefica in stolto secolo», il valore di riaccendere gli animi e il dibattito, riuscendo a rinfocolare quella faziosità semidormiente e sonnacchiosa di noi critici, pacificati da legami di amicizie e convenienze professionali, che invece resta ancora una delle virtù redimenti del discorso possibile sul cinema, il suo valore dialettico.

Giovanni Festa


altLa radice postmoderna del cinema di Sokurov è la risultante di una serie di operazioni o passaggi che possono essere individuati (al di là del facile gioco delle coppie antitetiche concentrazione-dispersione, confine-palinstesto, selezione-combinazione, paradigma-sintagma, radice-rizoma, origine-differenza che contribuisce solo a definire una prassi teorica) nel rapporto che si instaura fra le diverse serie di sequenze-sintagmi date più che dal regime mimetico che regola e impone un sistema di rapporti di tipo relazionale, da un regime estetico (Ranciere) di eloquenza dell’iscrizione sul corpo dell’immagine e, insieme, di mutismo dell’oggetto.

Gemma Adesso

«A tutti, all’altro mondo,
ci toccherà saldare con il vuoto
il calcagno che pesa»
(Marina Cvetaeva)


Un vuoto dove passa ogni cosa
è il titolo di una raccolta di scritti politici di Maria Teresa Di Lascia (Di Lascia 2016) che non c'entra nulla con il cinema ma che giustifica l'idea di dedicare uno speciale sul vuoto in una rivista di cinema: l'urgenza – la tentazione è di definirla “politica” nonostante il termine sia tra i più abusati, fraintesi e svuotati in senso deteriore – è nel tentativo di attraversamento (“dove passa”). Questa introduzione si compone per scelta calibrata di una serie di citazioni da libri molto diversi tra loro ma che pure ruotano intorno a quella urgenza fondamentale.

Camille Dumoulié


Quando Gemma Adesso mi ha chiesto di partecipare a questo numero di “Uzak”, ricordava un mio testo in omaggio a Carmelo Bene, pubblicato nell’aprile 2003 sulla rivista «Lo Straniero» e intitolato Carmelo Bene o lo splendore del vuoto (Dumoulié 2011). Sebbene non abbia voluto scrivere ancora sul teatro o sul cinema di Carmelo Bene, il presente articolo – con il suo titolo, i suoi temi, le figure che evoca, e persino con i suoi riferimenti teorici – è abitato dallo spirito di Carmelo e riecheggia quel furore sublime e quello splendore del vuoto che era l’essenza stessa del suo teatro. In particolare, affronta due figure maggiori del suo universo poetico: la mistica, incarnazione del “godimento della donna”, e Don Giovanni. Figure che si oppongono e al tempo stesso si raggiungono, come due modi di rispondere alla stessa crisi storica: quella dell’epoca barocca, nella quale l’allontanamento di Dio ha scavato nel mondo un Vuoto di cui, paradossalmente, è possibile godere sul piano dell’intelletto, del corpo e del significante, ma anche a vantaggio di una poetica e di un’estetica del Vuoto1. (Cfr. Dumoulié 2012).

Alessandro Cappabianca

altRiflettendo (in Tokyo-Ga) sul cinema di Yasujiro Ozu, Wim Wenders ricorda che da ragazzo si chiedeva come fosse concepibile la nozione di Nulla, e poi in che modo fosse applicabile al cinema, arte del concreto – per concludere che il Nulla è irrappresentabile, ma è rappresentabile il suo incombere, il suo incidere progressivo sulle cose e sui corpi, l'avvicinamento alla fine, al grande Vuoto. Non per nulla, aveva seguito le ultime settimane di vita di Nicholas Ray (in Lampi sull'acqua), inaugurando quella che sarebbe poi diventata una specie di moda (filmare le ultime ore di un parente, un amico, una persona cara) e violando il famoso interdetto baziniano (filmare la morte, o l'agonia, è osceno, come girare un film porno).

Paolo Spaziani

alt«I'm beggin' please, little lover, stop this carryin' on
gotta get some lovin' before the planet is gone
A nuclear bomb come an' blow us all away
Come on, bad girl, give me some lovin' today»
(New York Dolls)

«Elle était belle à la fois de la beauté fugace d’une actrice et
de la beauté souveraine de la catastrophe»
(J. Gracq)

Matteo Marelli

altIl problema dello sguardo, e in particolare dello sguardo dell'altro è da sempre centrale nel fare della Socìetas Raffaello Sanzio, compagnia teatrale creata nel 1981 da Romeo Castellucci insieme a Claudia Castellucci, Chiara Guidi e Paolo Guidi, che, riprendendo il titolo di un loro testo, ha mosso i primi passi nel solco dell'iconoclastia per arrivare confrontarsi con la super-icona (basti pensare allo spettacolo Sul concetto di volto nel Figlio di Dio).

 

Raffaele Cavalluzzi


1919 Quedlinburg (Germania). La guerra è finita, e Anna (Paula Beer), una giovane donna in lutto si reca al cimitero per porre dei fiori sulla tomba (vuota) del suo fidanzato caduto sul fronte. Un giorno si accorge di uno sconosciuto che a sua volta, di nascosto, svolge lo stesso pietoso rito: si tratta di Adrien, un francese (Pierre Niney), prima accolto con risentita ostilità dal padre e poi accettato da entrambi i genitori di Frantz, presso i quali lei ormai vive, per colmare di purissimo affetto il vuoto lasciato dall’amato.

Angelo Amoroso d’Aragona


Con il terzo episodio del prequel del Pianeta delle Scimmie si può scherzare. A patto, però, di farlo sul serio, come ogni gioco che si rispetti. È quanto mi accingo a fare, trattandolo come paratesto filosofico.




Vanna Carlucci


«[…] e allora è tempo di tenere degli appunti più piccoli sfalsati di 3 mesi e 3 giorni dalla data di inizio. Con tutta la costanza e tutta la speranza.»
«È tempo» che il tempo inverta le sue coordinate, un tempo in cui le pagine di questo libro vengano sfogliate come si toccano i lembi di pelle prossimi a una lacerazione; perché il più delle volte l’azione che rimanda al gesto di apertura significa proprio questo: generare una ferita o «frantumare qualcosa, quindi, tutt’al più fare un’incisione, lacerare» (Didi-Huberman 2016, p.185) ché questo è un libro che trova la sua unità proprio in un’immagine colpita da frammenti, alla ricerca di un disvelamento sempre più prossimo ad una traccia d’iride, un solco.

Raffaele Cavalluzzi


altVictor I. Stoichita è un acuto storico d’arte romeno dal profilo internazionale, che persegue l’analisi di uno dei caratteri di fondo del cinema come arte visiva. La sua è del resto una parzialità di veduta, perché il “genere” cinematografico che egli affronta è – per sua natura – parziale, ancorché assai significativo: il racconto dell’investigazione criminale, derivante dal giallo. Nel suo insieme il noir è infatti particolarmente inquietante e largamente presente nell’immaginario diffuso dei poco più che 120 anni del film, e proviene direttamente, per Stoichita, dalla combinazione (pittorica) dell’impressionismo e (letteraria) del naturalismo.







Leonardo Gregorio


alt«Forse le definizioni storicamente più accreditate – documentario, documentario di creazione, cinema del reale – dovrebbero cedere il posto a una nuova denominazione, perché sempre più spesso facciamo esperienza di un cinema di testimonianza, nel quale l’istanza documentaria si mescola a una serie di altre istanze (etiche, politiche, narrative, rielaborative), richiedendo così che ne siano ripensati gli stessi presupposti» (p.20). Ma ciò che Dario Cecchi, studioso di filosofia e cinema, sviluppa nelle pagine del suo saggio non è una mappatura né una metodologia d’analisi, non fornisce formule interpretative nette né tantomeno si preoccupa di enucleare una possibile gamma delle tendenze.




Giovanni Festa


altL’establishing shot è lo skyline di Shanghai (ma si può davvero mai darsi, in Lynch, un “establishing” che non rimandi al più volubile e mutante dei contesti, scheggia di mondo impazzita e completamente instabile, vista attraverso quella tutta sua vocazione all’ebrietà insicura degli spazi esterni, imbibiti secondo lo spettro delle tonalità lisergiche degli acrilici): lo sfondo è una notte azzurrata perché illuminata artificialmente, notte da megalopoli asiatica eternamente ricoperta dal baluginio ipnotico dei neon e delle mille luci notturne (come anche in Hou Hsiao-hsien).

Luigi Abiusi

stewart

Mentre si aspetta Cannes, e Dumont, Garrel, Lanthimos, Mundroczo (è ancora viva l'impressione che mi fece anni fa Delta, uno dei primi testi di Uzak), Ferrara, Denis, i primi due episodi di Twin Peaks ecc. - a conferma dell'ineluttabilità e utilità (estrema) di certi festival, e al di là di ogni tappeto rosso, aperitivo, pompa; dovendo, per parte mia, difendere certi film, certe selezioni in balia di burocrati, parvenus ben'azzimati; proprio certe modalità di guardare (che è poi un guardarsi, nel caos, penetrarlo, squadernarlo facendone grondare le proprie ombre), di leggere, ascoltare come da bambini (siamo cresciuti poi convinti che un film di Bela Tarr, un libro di Svevo, un disco dei Cluster, siano più importanti di qualsiasi populismo, biglietto staccato, affluenza di pubblico; e per questo ci si ritrova adesso in una zona di mezzo, a tempo, in perenne scadenza, senza futuro, pensionamento: il fallimento prossimo venturo; ma c'è come una poesia anche nella sconfitta, se fosse, perchè «traverso una catastrofe inaudita prodotta dagli ordigni ritorneremo alla salute.

Valentina Dell’Aquila


The fortunes creates at Bordeaux, at Nantes, by the slave trade,
gave to the bourgeoisie that pride which needed liberty
and contributed to human emancipation.
J. J.



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