Rivista

Matteo Marelli

Matteo Marelli

altCominciamo dal titolo, risalendo alla sua origine: “eresia”, nel greco classico, significa «presa, scelta, elezione, inclinazione verso qualcuno o qualcosa» (Enciclopedia Treccani). Volendo potremmo quindi parafrasarlo così: scelta della felicità. A monte, dunque, di questa Creazione a cielo aperto per Vladimir Majakovskij c’è un preciso atto di volontà, che è innanzitutto un atto dovuto nel momento in cui si decide di lavorare con corpi incolti, ovvero «bambini pieni di grazia – e – adolescenti sgraziati in bilico tra l’età dell’oro e l’età del grigio (per questo, forse, ancor più commoventi)» (Martinelli in Ponte Di Pino 2014, p. 9); perché toccherà a loro «strappare/la gioia/ai giorni futuri», malgrado «In questa vita – come il poeta ricorda nei versi dedicati A Sergèj Esènin –/non è difficile/morire./Vivere/è di gran lunga più difficile» (Majakovskij 2004, p. 127).

Gianfranco Costantiello

Gianfranco Costantiello

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A metà degli anni Settanta, Lou Reed è una delle figure più eclettiche e irriverenti nel panorama musicale mondiale. Eppure la tormentata avventura con i Velvet Underground - un inanellamento di fiaschi commerciali con tanto di inevitabili dissapori che porteranno al prematuro scioglimento - non aveva fatto sperare nulla di buono. Piombato a Londra, si invaghisce della stravagante figura di David Bowie, appena di ritorno da un malinconico viaggio interstellare nei panni di Ziggy Stardust. È da questo incontro che nasce una delle pietre miliari del glam-rock e primo grande successo di Lou Reed: Transformer (1972). Ma l’improvvisa fama sembra schiacciare Lou, che teme di cristallizzarsi in un personaggio – quel Frankenstein del rock incerato nella copertina di Mick Rock – in cui, in fondo, non si riconosce. Così, prova a defilarsi con il suo lavoro più ambizioso e, probabilmente, anche il suo vertice artistico, Berlin (1973), che verrà però accolto freddamente da pubblico e critica. “Più faccio schifo e più vendo” confessa caustico e incredulo, appena un anno più tardi, all’uscita di Sally Can’t Dance. Album, quest'ultimo, rinnegato e che gli farà montare dentro un irriducibile disprezzo verso chi ai suoi concerti non fa altro che chiedergli Vicious e Walk on the Wild Side.

Alessandro Cappabianca

Alessandro Cappabianca

alt«Avrò dunque sognato!»
(Rigoletto, atto II)

«E che cosa pensa della morte?» domandava l’intervistatore imbecille al regista ne La ricotta di Pasolini. Strano interrogativo, che arrivava all’improvviso, in mezzo a un profluvio di domande banali – e qui è il regista che si trova impreparato, rispondendo a sua volta con una banalità, sia pure filosofica: «Come marxista, è un fatto che non prendo in considerazione».

Anton Giulio Mancino

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Sangue del mio sangue, sin dal titolo, è un film che esibisce una struttura simmetrica: la stessa parola, “Sangue”, collocata all’inizio e alla fine delle quattro parole complessive che, a coppia, presentano sempre lo stesso numero di lettere (quelle centrali, “del” e “mio”, che indicano ciascuna il possesso, infatti sono di tre); due vicende parallele; due epoche; due tempi (in senso cinematografico, un primo e un secondo tempo); due paradigmi interpretativi, uno che rilegge il passato attraverso il presente, l’altro che rilegge il presente attraverso il passato.

Massimo Causo

Massimo Causo

altLa pesantezza del corpo, o meglio la sua gravità, il suo essere parte del Tempo, della Storia, incardinato nelle pietre, nei luoghi e nelle loro ombre, nei silenzi che scolorano tra il presente, qui ed ora, e l’arcana arcaicità dei gesti. Nel cinema di Marco Bellocchio la fisicità dell’essere è il richiamo indistinto di una morale deviata dell’esistere, una sorta di contraddizione rispetto all’ontologia di quel divenire quotidiano che è funzionale alla risposta di una morale storicizzata e dunque acquisita. Il corpo in Bellocchio sta tra l’astrazione ipotetica di una crisalide che giace immota, la furba sfuggevolezza della farfalla che irride la forza di gravità della sua stessa leggerezza, e la greve e immota definizione della carcassa, che giace nel suo grido ammutolito.

Andrea Bruni

Andrea Bruni

alt«In tombe d’oro e di lapislazzuli
Corpi di sante e di santi trasudano
Olio miracoloso, profumo di viole.
Ma sono gravi masse d’argilla calpestata
Gonfi di sangue giacciono i corpi dei vampiri:
Con sudori di sangue e con le labbra umide»
(William Butler Yeats)

 

Luigi Abiusi, Gemma Adesso, Vanna Carlucci, Matteo Marelli

altNel cinema di Bellocchio la temporalità si contrae, più che nella successione di prima e dopo, nella dialettica ambigua di dentro e fuori, al di qua e al di là di tempi e spazi che ininterrottamente si piegano l’uno sull’altro. Sangue del mio sangue si sviluppa attraverso moltiplicazioni e sdoppiamenti che sfuggono alla definizione di un tempo specifico e di uno spazio preciso: nel paesaggio familiare e perturbante, un passato inesauribile si contorce su l’ipotesi di un futuro che svela tracce d'anteriore, come testimonia, del resto, la severa somiglianza tra Pier Giorgio e Alberto, rispettivamente figlio e fratello, ambedue doppi obliqui, del regista.

Luigi Abiusi

Luigi Abiusi

altA quest’ultima mimica affida, sdentato e radioso, l’intera sua baldanza di esistere, la sua fiducia di sospendere, non fosse che per un minuto, il destino di decrepitudine e morte che già gli lavora dentro e lo invecchia, invisibilmente, in ogni cellula e fibra. (G. Bufalino, Calende greche)

Vanna Carlucci

Vanna Carlucci

Parafrasando Berger, l'uomo che guarda è costantemente soggetto ad una tentazione, a quell’attrazione che lo porta a provare il sentimento di una caduta, di immaginare, di concepire l’altezza da cui l’evento accade. Il filo teso è il taglio netto, orizzonte che separa i due mondi e tra un lassù e un quaggiù qualcosa si compie.

Michele Sardone

Michele Sardone

alt«Oriente e occidente sono tratti di gesso che qualcuno disegna davanti ai nostri occhi per beffarsi della nostra pavidità»
(Nietzsche, Schopenhauer come educatore)


C’è un’immagine che rende il senso di sbigottimento e di impotenza dinanzi agli attentati del 13 novembre a Parigi, quella ritraente gli spettatori dello Stade de France scesi in campo, nella più straniante invasione che si ricordi, e rimasti in piedi sul prato verde. Si potrebbe scommettere che se l’immagine fosse in movimento, i cambiamenti sarebbero impercettibili: il senso di immobilità, di quell’immobilità che può dare solo il terrore, pervade tutto il frame.

Luigi Abiusi


I dibattiti tenutisi alla Pescheria del “Festival di Pesaro” intorno all’odierna critica cinematografica e alla connotazione di novità del cinema contemporaneo, indicano un’azione (o almeno un tentativo) di rassodamento dei territori di fruizione critica del cinema (nel tempo in cui sono scomparse dalle colture, le radici, i tuberi, mentre trionfano i frutti pompati che si rivelano privi di succo, posti in cellophane sugli scaffali dei supermercati), fuori dall’egida del giudizio e dall’ingenuità e insipienza che spesso ne derivano. Si tratterebbe non di una “sospensione del giudizio” ma proprio di un annullamento del giudizio: critica come annullamento del giudizio, della gnome, in favore dell’emersione dell’enunciato (degli enunciati, anche in contraddizione).

Roberto De Gaetano


altEsistono riviste di scritture e riviste di discorsi: le prime si fondano sulla firma dell’autore indipendentemente dal tema, le seconde sulla costruzione del discorso indipendentemente dall’autore. Un modello per le riviste di “scritture” è Roland Barthes, per quelle di “discorsi” Michel Foucault.
Una rivista esiste nel gesto tracciato dal suo atto di fondazione, che viene ripreso in ogni nuovo numero, se la rivista è vitale. «Fata Morgana» ha tracciato fin dall’inizio (è nata nel 2006) il suo gesto, segnando e costruendo un nuovo campo discorsivo, definito dal rapporto fra immagini in movimento e concetti. Questi ultimi, ripresi dall’urgenza del presente, non derivano direttamente dal cinema né dall’estetica, ma dalla vita e dalle sue forme. Da L’immagine-movimento e L’immagine-tempo di Deleuze, il cinema non è più la messa in forma estetica del reale, ma è sia direttamente sia analogicamente la configurazione sensibile del mondo. E dunque pensare il cinema significa in un certo senso starne continuamente fuori (stare nel mondo) per meglio rimanerne dentro, per comprenderlo nella sua centralità inalienabile nel dare forma alla nostra esperienza.

Alessandro Cappabianca


altI grandi massacri, l’eliminazione di intere etnie, gli stermini di massa, sempre esistiti, si incontrano nel Novecento da un lato con il vertiginoso potenziamento dei mezzi tecnologici più adatti alla bisogna, dall’altro con la necessità di tener conto dell’esistenza di strumenti di testimonianza (fotografia, cinema ecc.) possibilmente da evitare.
Lo Sterminio è diventato dunque qualcosa come l’ombra, il tarlo, il lato oscuro e nascosto della Civilizzazione. Come tale, da un lato deve essere occultato, effettuato in segreto e, una volta compito, consegnato all’oblio, sottraendolo a ogni tentativo di serbarne memoria o testimonianza - dall’altro, però, può essere enfatizzato, rivendicato come opera meritoria, di sostanziale giustizia, della quale fa parte una dose imprescindibile di spietatezza. I nemici, veri o presunti, sono comunque da intimidire, da rendere inoffensivi anche con la paura.

Leonardo Gregorio


altAl cinema d’archivio, Antonio Bigini, 35 anni, ci è arrivato un po’ per caso, grazie alla casa di produzione Kiné in sodalizio con Home Movies – Archivio Nazionale del Film di Famiglia. È venuta allora la scrittura del soggetto di Anita (2012), diretto da Luca Magi e ispirato al trattamento inedito di Viaggio con Anita, film mancato di Fellini, pensato e scritto con Tullio Pinelli e l’apporto di Pasolini nel 1957, portato poi sullo schermo da Monicelli vent’anni dopo (qualcosa però di molto diverso rispetto all’idea iniziale, si lamentava Fellini). Per Bigini sono arrivati poi Formato Ridotto (2012), regia condivisa con Claudio Giapponesi e Paolo Simoni (su testi di Cavazzoni, Enrico Brizzi, Emidio Clementi, Ugo Cornia e Wu Ming), e la scrittura di Vacanze al Mare (2013) al fianco di Ermanno Cavazzoni che lo ha diretto.

Gemma Adesso


altLa visione è un meccanismo? Con quale occhio crediamo di guardare, quale mondo è alla nostra altezza visiva? Se se ne percepisce il funzionamento, è forse possibile riconsiderare il valore del tempo, la sua azione lenta o accellerata sulle cose?
Partiamo dal punto di vista a noi più prossimo, quello del corpo.





Luigi Abiusi

Un equivoco condiziona l’assimilazione di Whiplash, come se il film fosse incentrato sulla musica, sul jazz (che invece è il pretesto audio-video dello svolgimento testuale, cioè un sistema tattile, contundente, fatto di cieco attrito), concentrato sull’ipostasi d’improvvisazione alla base del jazz, che sarebbe stata tradita da un palinsesto invece puntuale, quadrante. Ma il film affronta, forse anche malgrado le intenzioni di Chazelle (e secondo un fertile, lacaniano assoggettamento del soggetto), la sfasatura tra i vedenti, e tra il visto e il visibile (tra dura, puntuta, appunto quadrata refrattarietà e cose a venire, l’avvenire di Derrida, un qualche visibilio), come ipotesi di incontro (quindi politico), di allineamento, che, se verificato, crea l’enunciato, un essere al mondo come sintonia.

Raffaele Cavalluzzi

altAnime nere di Francesco Munzi (dal romanzo omonimo di Gioacchino Criaco) è una tragedia dai caratteri ancestrali per i luoghi e i riti evocati, i personaggi, i gesti e l’antropologia morale e familiare che la connotano, nel contesto del crimine, fermo nel tempo della società calabrese (la ’ndrangheta), a travolgere vittime e a consolidare nefasti legami.

Vanna Carlucci

In Mad Max: Fury Road non esistono traiettorie sicure, ma si cavalca col volante in mano evadendo da una forma di prigionia degli occhi. C’è il desiderio di soddisfare la sete di vedere ancora dentro luoghi desertici che sono i tanti territori del cinema, distese di nulla che smuovono continuamente la propria superficie granulosa, rompendo gli orli, sfalsando prospettive e coordinate per proiettarci in un viaggio allucinato, cioè nel cinema.

Raffaele Cavalluzzi

altIvan, il tecnico responsabile della costruzione di un gigantesco grattacielo nella grande periferia londinese, alle otto di sera lascia il cantiere e, in macchina, si dirige non a casa, dove l’attendono euforici i due figli adolescenti e la moglie per il rito familiare di un’importante partita di calcio in TV. Il film, Locke (scritto e diretto da Steven Knight, acuto sceneggiatore tra gli altri di Frears e Cronenberg, al suo secondo lungometraggio presentato fuori concorso a Venezia nel 2013), si svolge interamente nell’ora e mezza di viaggio, e tutto dentro l’auto, tramite i dialoghi telefonici in viva voce tra Ivan e gli altri personaggi del racconto.

Valentina Dell'Aquila

alt

Ché l cuore Questo non mi spinge questo
[...] ché l cuore Questo non mi spinge...

(Carmelo Bene)

 


 

 

 

 

Michele Sardone

Michele Sardone

Si dice che un’opera, per dirsi postmoderna, debba contenere in sé una riflessione sulla propria forma espressiva: un film deve riflettere sulla forma-cinema, un romanzo su cosa sia la narrazione, il teatro sulla rappresentazione e così via. Non ci interessa ora definire Vince Gilligan come autore postmoderno delle serie TV, ma possiamo dire che nei suoi lavori c’è, se non una riflessione, quantomeno un riferimento esplicito alle tecniche narrative della serialità.

Luigi Abiusi

Luigi Abiusi

altSenza retorica: ma è cominciato il primo festival di Cannes della storia senza la presenza, sia pure latente, di Manoel De Oliveira. Non dirò nulla di economia cinematografica (e letteraria, filosofica) di questa scomparsa, appunto evitando il risaputo, e perché altri ne parlano in questo numero di Uzak, come sempre fitto di cose: su alcuni dei registi che più ci piacciono (Martin, Larrain, Frammartino, Soderbergh), su altri sempre controversi (Seidl, Haneke), tutto uno speciale dedicato a un film importante, tra i più importanti dell'anno, Vizio di forma di Paul Thomas Anderson; e appunto una sezione rivolta a De Oliveira, che non può che straripare, anche rispetto al "genere", vista la forma ibrida, tra saggio e poema, usata da Bruno Roberti, già autore di un libro splendido Manoel De Oliveira. Il visibile dell'invisibile uscito appena un anno fa; e gli altri due articoli a firma di Cappabianca e Bruni, che riescono a delineare un profilo d'altronde irriducibile. Poi le interviste agli autori ospitati nella quarta edizione di "Registi fuori dagli sche(r)mi", tra maestri e talenti emergenti, poliedrici, come la Klotz, della quale attendiamo il nuovo film prodotto da Jacque Audiard.


Luigi Abiusi

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«[...] Una lucertola attraversò il mio occhio ed entrò nel bosco. Si dice che la lucertola entrò nelle foglie, che fogliò».
(Manoel De Barros)











Bruno Roberti

Bruno Roberti

Uno

La Valle delle origini o le ali che sbucano dal terreno: acque superiori e inferiori, un cinema elementale. «Ema torna all’acqua perché viene dall’acqua. La sua morte è come una rinascita. Ecco perché è così gioiosa. Con l’acqua, la vita può continuare. Mi piace il suo rapporto istintivo con la natura, il biologico, l’animalità. Lei trascende costantemente la realtà, invece gli uomini non hanno ali.» (de Oliveira a proposito di Vale Abraão)

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