Matteo Marelli

Il servitore di due padroni di Antonio Latella, per dirla pasolinianamente, è spettacolo che si presenta sotto forma di edizione critica di un testo considerato monumentale: l’omonima commedia goldoniana, di cui sono rispettati i personaggi («Pantalone de’ Bisognosi; Clarice, sua figliola. Il Dottor Lombardi; Silvio, di lui figliolo. Beatrice, torinese, in abito da uomo sotto nome di Federigo Rasponi; Florindo Aretusi, torinese di lei amante. Brighella, locandiere; Smeraldina, cameriera di Clarice. Arlecchino/Truffaldino, servitore di Beatrice e poi di Florindo» [Goldoni 2002, p. 4]), gli intrecci drammaturgici, ma arricchita di intromissioni intertestuali, tanto da tramutarsi in opera aperta, quindi non compiuta e definita, che mentre si mostra allo spettatore rivela i meccanismi del suo farsi.

Le indicazioni e le suggestioni goldoniane sono imprescindibili termini di confronto: le prime seguite fino all’esasperazione, le seconde svelate così da rendere le allusioni e i sottotesti evidenti. Come succede ad esempio nelle dinamiche che legano Arlecchino a Beatrice: «egli non è più il suo servitore, ma suo fratello, colui che nel testo di Goldoni porta il nome di Federigo Rasponi, assente perché ucciso in un duello passionale» (Latella 2013)1.
Facendo leva sull’ambiguità del personaggio di Beatrice, peraltro già presente nell’originale («Una zovene de spirito, de corazo; la vestiva da omo, l’andava a cavallo, e lui el giera innamorà de sta sorella. Oh! Chi l’avesse mai dito!» [Goldoni 2002, p. 6]), in questo adattamento di Latella, il tema dell’incesto, prima soltanto suggerito, diventa evidente, incandescente, tanto da porre sotto una nuova luce l’intricata ragnatela di rapporti che annoda tra loro i personaggi. Ed è proprio giocando su questa ambiguità che tutte le relazione ordite da Beatrice si caricano di una tensione erotica fortissima, come succede anche con Clarice proprio nel momento in cui le confessa di essere donna. Del resto, come dichiarato da Ken Ponzio, autore della riscrittura, «il nostro modo di percepire il comico e il tragico è cambiato, […] dopo […] aver letto Beckett, Pinter e Heiner Müller, il nostro modo di vedere le cose è de facto cambiato» (Ponzio 2013).

Accanto a questa operazione di attualizzazione dell’opera goldoniana, ottenuta per mezzo di un’evidenziazione e amplificazione di potenzialità tematiche solo suggerite nell’originale, Latella introduce nello spettacolo degli inserti esplicativi, degli explicatio terminis, adoperando le definizioni dei dizionari; come accade per Arlecchino che in scena si racconta dicendosi «maschera della Commedia dell’Arte, il cui nome si fa derivare da Hellequin, tipo comico del diavolo nelle rappresentazioni medievali francesi…». E tutto questo per dimostrare che non si può non tener conto di tutto ciò che c’è stato, che se anche si vuole andare oltre il testo è comunque da lì che si deve partire, e che se si vuole distruggere bisogna prima sapere esattamente cosa.

Ma procediamo con ordine. Lo spettatore non è immediatamente investito da questo sovraccarico polisemico. La scena si apre sulla grande hall di un hotel dove si intrecciano storie in transito. «Di primo impatto – è – piuttosto verosimiliante […]: la luce si accende, le porte dell’ascensore si aprono, la moquette si pulisce con l’aspirapolvere. […] La […] scelta, almeno per la prima parte dello spettacolo, è […] di mettere il pubblico di fronte a qualcosa che riconosce come convenzione, come tradizione» (Latella 2013).

Eppure già qualcosa si insinua come elemento di disturbo: ad esempio Brighella, maître d'étage dell’hotel, oltre alle proprie battute, recita anche le indicazioni sceniche, insinuando da subito che ciò a cui si è di fronte è una messinscena. Un effetto straniante che s’intensifica una volta presentatisi tutti i personaggi, i cui costumi vanno dal taglio settecentesco a quello anni Cinquanta sino a commistioni contemporanee.
E poi la recitazione: inizialmente uniforme, dopo invece ciascuno prosegue affinando un differente registro interpretativo. Così nella stessa scena cortocircuitano rielaborazioni della tradizione della Commedia dell’Arte con gli approdi teorici sull’attorialità novecentesca: da Brecht a Grotowski e oltre, in una crescente esasperazione formalista che dà corpo a una testualità disomogenea e frammentaria. Un elaborato disegno registico che costringe a riflettere sul senso dello spazio rappresentato come eminente luogo della finzione. Un gioco decostruttivo finalizzato allo svelamento progressivo dell’impianto spettacolare.

I personaggi cominciano comportarsi come cellule impazzite che erodono dall’interno il corpo scenico. Si accaniscono contro la componente scenografica mettendone a nudo l’artificiosità. L’eliminazione degli elementi spaziali mette paradossalmente in evidenza la centralità che questi hanno nelle dinamiche di messa in scena: più si “spoglia” il palco del significante e più lo si carica di senso rivestendolo di significato. Messi davanti alla nudità, la nostra attenzione è tutta rivolta a ciò che è venuto a mancare: è il paradosso dell’assenza.
Arlecchino e con lui tutti gli altri protagonisti diventano alieni a loro stessi, dissociati dal proprio ruolo nel quale non gli è più possibile riconoscersi; delle marionette-performer costrette a inscenare inautenticamente e perpetuamente un dramma svuotatosi di senso. Una volta emancipatisi eccoli agitarsi come in preda a una nevrosi schizzoide.

Ma nonostante lo spalancarsi dell’abisso qualcosa impedisce di venire inghiottiti dalla vertigine, di sprofondare nel baratro. Ciò che permette di restare in equilibrio sul terreno smosso e scabro che è sui margini del precipizio è la regia di Latella, capace di architettare una drammaturgia «che fa corrispondere il punto estremo della libertà di un personaggio con la sua sottomissione a un comando» (Rancière 2006, p. 25). È lui, il regista, che costruisce mediante la decostruzione della messa in scena un discorso sulla rappresentazione, che ne smembra i meccanismi per riformularli, rinnovandoli di senso. Non abdica mai al proprio ruolo abbandonando lo spettacolo alla distruzione, ma la controlla, tenendo sempre sorvegliati gli esiti della demolizione. Per Latella è «necessario che l’artificio venga distrutto, che la scenografia venga smontata e il palco torni ad essere vuoto» perché, come da lui stesso dichiarato: «ho bisogno di arrivare là dove sono io ora, dove per me c’è lo stare oggi» (Latella 2013).


Note

1 Le dichiarazioni di Antonio Latella e Ken Punzio sono riprese dal libretto di scena Il servitore di due padroni realizzato per la prima dal Teatro Bonci di Cesena (2013).


Bibliografia

Goldoni C. (2002): Il servitore di due padroni, Einaudi, Torino.

Rancière J. (2006): La favola cinematografica, Edizioni ETS, Pisa.






Titolo: Il servitore di due padroni

Regia: Antonio Latella

Drammaturgia: Ken Ponzio (da Carlo Goldoni)
Con: (in o. a.) Marco Cacciola, Federica Fracassi, Giovanni Franzoni, Roberto Latini, Annibale Pavone, Lucia Peraza Rios, Massimiliano Speziani, Rosario Tedesco, Elisabetta Valgoi
Produzione: Emilia Romagna Teatro Fondazione, Fondazione Teatro Metastasio di Prato, Teatro Stabile del Veneto
Debutto: Cesena, Teatro Bonci, 21 novembre 2013

Visto al Teatro Elfo Puccini


http://www.youtube.com/watch?v=4OAagTHriPk