Rivista

Luigi Abiusi

Luigi Abiusi

altNon un ritorno, ma una conferma dell’attualità di Cronenberg, a smentire, ancora, le dicerie di deriva (edulcorazione) degli ultimi anni. In linea con la natura anfibia, l’eterotopia dell’immaginario cronenberghiano – un costante lavorio su di sé, sempre a mettere in discussione le soluzioni raggiunte, tanto, mettiamo, da erodere, momentaneamente, le conquiste figurali in favore di quelle dialogiche, forse aniconiche e batailliane di un A Dangerous Method: il che era segno di un cinema in costante movimento, e non deriva o passivo annichilimento ‒, Maps To The Stars è struttura (mappa appunto) bifida, prismatica, speculare della sua tenera, umanissima e ossessiva fragilità o della scatologia più ripugnante, inerme, morta, a seconda della prospettiva, dell’inclinazione, da cui la si guarda.

Leonardo Gregorio

Leonardo Gregorio

altUn alito di vento, una bufera. Paul Vecchiali ha portato il suo cinema caldo e freddo, ossimorico, ostinato e libero alla ventesima edizione del "MedFilm Festival" di Roma, che lo ha celebrato conferendogli il Premio alla Carriera. Qui ha presentato in anteprima,  nella sezione “Le Regard des Autres”, il corto La cérémonie e il lungometraggio Faux accords, oltre a riproporre il suo bellissimo Corps à coeur (Corpo a cuore, 1979). Un film che, insieme a Rosa la rose, fille publique (Una donna per tutti, 1986)  e a Encore – Once more (Once more – Ancora, 1988), forma un ristrettissimo gruppo di titoli riusciti a varcare, con la distribuzione, le sale italiane.

Annalisa Caputo

Annalisa Caputo

altBereshit: in principio, all’origine. È la prima parola del Pentateuco ebraico. Nel cuore della secolarizzazione novecentesca, Tarkovskij pare tornare a questo ‘principio’: con (dis)incanto. Facendo propria la “morte di Dio”: senza rinunciare, però, a cercare “le basi iniziali della vita”. Una sorta di cammino a ritroso, verso le origini della creazione e dell’anima: specchiando – questo cammino stesso – nel mistero della creazione artistica e dell’animo del poeta (creatore).

Giulio Vicinelli

altÈ un film, questo di Schumacher (1999), costruito su una grammatica essenziale e che non sembra voler manifestare istanze autoriali forti, abiura le manipolazioni di segno espressionistico dei materiali audio e video (se si eccettua la scena dell’ictus del personaggio di De Niro, ricca di effetti visuali) e facilita la linearità della narrazione. Profilmico, modalità della ripresa e di montaggio tendono a una invisibilità da découpage classico e il regista sembra puntare tutto sulle cospicue performances attoriche di Philip Seymour Hoffman e De Niro, ai quali compete dar voce e carne a due non facili ritratti umani, quello di una eccentrica trans (Seymour Hoffman) e quello di un expoliziotto colpito da ictus (De Niro), sempre in bilico tra la ricerca della adeguata resa scenica e il rischio dell’eccesso caricaturale non voluto e del pietistico-lacrimevole non programmato.

Vanna Carlucci

Vanna Carlucci

altSiamo dentro un deserto di voci, deserto umano. A terra residui di presenze, indumenti sporchi e lisi sotto il respiro affannoso e subacqueo di uno sguardo, ricordi di vita lontana, frammenti di dipinti macchiati dal tempo, polvere del tempo assorbito dalla terra. Non esistono voci, non esiste più niente: I resti di Bisanzio – in concorso al Pesaro Film Festival 2014 – è il covo catastrofico degli ultimi superstiti, è lo sguardo all’indietro di quell’Angelus Novus disegnato da Paul Klee: uno sguardo che s’immerge con occhi roventi e vede un passato che ancora brucia di echi, di miti e riti, uno sguardo (quello di Schirinzi) che non calpesta nulla e non sbriciola questa piccola ferita del mondo che ancora suona nel baluginare soffocato degli alberi, nel silenzio singhiozzante dell’acqua, nella solidità di una nave che muore nel mare. Per vedere il mondo di Schirinzi bisogna inabissarsi e trattenere il respiro per sprofondare e arrivare in questa densità di mondo che è nera e assordante, e annegare, finalmente, e galleggiare senza peso (il peso del mondo) e senza corpo sotto il raschio di un suono metallico per guardare – con la testa nell’acqua – giù.

Michele Sardone

Michele Sardone

altIl sistema del giudizio segue uno schema meccanicistico, nel quale ogni elemento consegue dal precedente: infrazione, riconoscimento della colpa, giudizio, espiazione. È il sistema sul quale si fonda la morale, cui ci si appella nei periodi di crisi: è allora che insorge la necessità di una catastrofe definitiva cui far seguire l’immancabile palingenesi. Sembra seguire la stessa meccanica Noah di Aronofsky, che mette prima in scena la catastrofe per eccellenza, il diluvio universale, cui far seguire una “creazione seconda”, che è anticipazione dell’Apocalisse, fine non assoluta del mondo volta a preannunciare l’avvento del Regno.

Raffaele Cavalluzzi

Raffaele Cavalluzzi

altSebbene il citazionismo non sia sempre di per sé una garanzia rispetto all’esibizione di disturbanti manierismi, talora, a disegnare la cifra stilistica di un film, collabora la ricchezza o la complessità di adeguate citazioni. Il caso del film di François Ozon Nella casa (2012), ispirato alla pièce teatrale Il ragazzo dell’ultimo banco dello spagnolo Juan Mayorga, va però anche al di là di una cosiffatta tipologia, giacché quelle che sembrerebbero citazioni sono in realtà tasselli efficaci di un mosaico poietico, che si garantisce, trascendendoli e portandoli ad unità, una tenuta  straordinariamente originale.

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Gaetano Pellecchia

Gaetano Pellecchia

altSe c’è un film recente di cui molto si è parlato e altrettanto si è frainteso, soprattutto a livello di cultura diffusa o “spettatore comune” (qualunque cosa esso sia), questo è La grande bellezza. Il film viene generalmente percepito e commentato secondo due parametri: “bellezza” e “decadenza”.
È nostra impressione, però, che “bellezza” e “decadenza” siano due aspetti importanti del film di Sorrentino, ma non il tema principale, l’asse portante. Riteniamo che la chiave interpretativa de La grande bellezza vada ricercata nel “tempo perduto”, nel senso proustiano del termine.

Vincenzo Martino

Vincenzo Martino

altIn un mondo devastato dalla guerra nucleare la luna ha smesso di brillare: ciò ha provocato apocalittiche catastrofi, stravolgimenti nell’ecosistema, mentre i pochi superstiti di una decorsa invasione aliena sabotano sistematicamente le ultime operazioni di raccolta prima della definitiva migrazione della razza umana su Titano, il nuovo Eden.

Diego Mondella

Diego Mondella

«Nessuno di noi è sano quanto mostra di essere»
(Psycho, Robert Bloch)

Sguardo, desiderio, ossessione, viaggio all’interno della psiche. Che il cinema sia tutto questo ci era stato rivelato più di cinquant’anni fa da due film che hanno segnato un’autentica rivoluzione copernicana: Peeping Tom e Psycho. Mentre il primo, misconosciuto capolavoro di Michael Powell, è stato ingiustamente sottostimato e tacciato di nauseante morbosità, il secondo è diventato in breve tempo un cult-monstre: un serbatoio di suggestioni, emozioni e repulsioni ben più sedimentato nell’immaginario della breve eppur iconica scena della doccia. L’opera hitchcockiana è stata fatta oggetto di sequel, contro-sequel e remake, omaggiata dagli epigoni del brivido (da William Castle a Brian De Palma), e persino presa come fonte d’ispirazione dal mondo della musica e dell’arte (vedi l’installazione di Douglas Gordon).

Michele Sardone

Michele Sardone

Che cos’è il potere? Che immagine dà di sé? E di cosa è fatto il rapporto fra immagine e potere? Sono le domande da cui muove la narrazione di House of Cards, serie prodotta dalla piattaforma online Netflix, che ha avuto, per la prima volta, l’idea di rendere disponibile in streaming un’intera stagione della serie, mettendo in questione il concetto stesso di temporalità seriale, slegandola dalla canonica attesa che divide ogni puntata dalla successiva, e dando così piena autonomia di visione allo spettatore (e in realtà adeguandosi a quanto già avviene con i download pirata).

Matteo Marelli

altLet’s Do It a Dada
(Einstürzende Neubauten)

Non pende nulla dai ganci da macellaio sospesi a mezz’aria sul palco.
Messi davanti all’assenza, la nostra attenzione è subito rivolta a ciò che manca. Bisogna soltanto fare un po’ più d’attenzione per accorgersi che la situazione è ribaltata: è dal cadavere che penzolano gli uncini. Ma ci sarà tempo a sufficienza per capirlo; otto ore ad essere precisi (tanto quanto una giornata lavorativa) per rendersi conto che la carcassa è tutt’attorno, e noi spettatori ne siamo parte: This is theatre like it was to be expected and foreseen (Questo è teatro come ci si doveva aspettare e prevedere).

Giampiero Raganelli

altIl palcoscenico del mondo

Opera giovanile di Jan Fabre riproposta oggi in occasione del trentesimo anniversario dello spettacolo e della fondazione della compagnia Troubleyn, secondo un’operazione definita dall’autore di re-enactment.



Matteo Marelli, Luca Romano

Matteo Marelli, Luca Romano

«Siamo in tempi d’emergenza» dice Gualtiero De Santi «dunque serve anche dotarsi degli strumenti necessari, […] di una critica che resiste in senso intellettuale e culturale». Ecco, allora, arrivare all’occorrenza, L’età dell’estremismo.
L’autore, Marco Belpoliti, sulla scorta di un pensiero raccontatoci da molte voci, come ad esempio quella Susan Sontang («La nostra è effettivamente un’epoca di estremismi. Viviamo sotto la minaccia continua di due prospettive egualmente spaventose, anche se apparentemente opposte: la banalità ininterrotta e un terrore inconcepibile.» (Sontag in Belpoliti 2014, p. 47)), guarda con occhio lucido alla nuova età di mezzo, già in atto da un trentennio, per farne un resoconto: dello spazio, del tempo, del mondo.





Gianfranco Costantiello

Gianfranco Costantiello

disSe non fosse per la resistenza lungo le trincee notturne di Fuori Orario, per qualche importante retrospettiva – ad esempio al “Festival di Torino” nel 2002 – o per il lavoro di certa critica di tendenza («Filmcritica» e «Alias»), il nome di Julio Bressane sarebbe pressappoco sconosciuto qui da noi. Fuoriclasse del cinema novo, il regista di Matò a la familia e foi ao cinema fa la sua comparsa, proprio in questi giorni, nell’insolita veste di scrittore, in quel flusso inafferrabile e febbrile che è Dislimite, libro bellissimo pubblicato per i tipi di CaratteriMobili. Si tratta, ad essere precisi, di una preziosa traduzione – a cura di Simona Fina e Federica Niola – di quei testi scritti tra il 1996 e il 2011 e pubblicati in quattro volumi, per le edizioni Imago, in Brasile. E sì, perché Bressane è anche un saggista, un pensatore, un poeta filosofo, il cui lavoro, a dirla tutta, ha già visto una pubblicazione in Italia, grazie alla militanza di Roberto Turigliatto (Fuori Orario), a cui Dislimite è dedicato.

Nicola Curzio

Nicola Curzio

altNel maggio del 1952 Orson Welles vinse la Palma d’Oro al Festival di Cannes con il suo Otello. Le riprese del film erano iniziate quasi quattro anni prima, nel settembre del 1948, a Venezia, per poi proseguire a Mogador e Safi in Marocco, quindi a Roma, Tuscania, Viterbo, nuovamente a Venezia e infine ancora in Marocco. La produzione della pellicola è passata alla storia come una delle più tormentate e difficili, tanto che, anni dopo, lo stesso Welles decise di raccontarla in un altro suo film, Filming Othello. Celebre, in particolare, è il campo/controcampo italo/africano, che vede montate inquadrature girate in anni diversi e in set tra loro lontanissimi. Mai il cinema era stato privato così radicalmente del suo dato territoriale (e temporale), collocandosi in un’interzona sospesa, un set immaginario che, in ultima analisi, ne costituiva l’essenza. Cinema “apolide”, cosmopolita, dunque, poiché privo di riferimenti geografici effettivi o di legami con una qualsivoglia cultura nazionale; caratteristica che, in realtà, potrebbe estendersi a tutto il cinema, basti pensare a Chaplin o persino ai Lumière che parlavano a platee intere in qualsiasi parte del mondo. Otello di Welles, però, è «il film apolide per eccellenza», dirà più tardi Enrico Ghezzi in un passaggio di Fuori Orario, poiché è tale per necessità e, soprattutto, per una precisa scelta del cineasta; un essere che è prima di tutto un voler essere; qualcosa che si lega indissolubilmente già al soggetto-regista, prima ancora che al film. È possibile riconoscere una comunità di autori che fanno di questa loro apolidicità un segno distintivo: Orson Welles, appunto, poi Wim Wenders, Atom Egoyan e, ancora, Wes Anderson.

Luigi Abiusi


Ostro è l’esito di un’immaginazione duale, binaria, sotto vari punti di vista: tesa tra Nicola Giunta e Gioele Valenti (che sono i Lay Llamas); tra orografia terrestre e scrutate costellazioni celesti; esaltazione naturalistica e pratica sintetica ecc., in un vinile violaceo stampato dalla Rocket Recordings, distillatrice di psichedelie sfaccettate, spesso intransigenti, ma con una certa predilezione, mi pare, per l’impianto tribale (vedi World Music dei Goat).

Gianfranco Costantiello

Gianfranco Costantiello

r plusForse, prima o poi, arriva per tutti il momento in cui si fa irresistibile il desiderio di vedere com’è fatto al suo interno un giocattolo col quale si è giocato troppo a lungo. Ad esempio, Daniel Lopatin, il compositore di stanza a Brooklyn – meglio conosciuto come Oneothrix Point Never (da ora in poi OPN) – comincia il suo delicato processo di smontaggio già dal bellissimo Replica (2011), per proseguire intensamente, accasandosi intanto presso la Warp Records, negli ultimi due dischi: R Plus Seven (2013), e Commissions I – eppì rilasciato lo scorso aprile, in occasione del “Record Store Day”. Infatti, le traiettorie scintillanti e apparentemente squilibrate dell’ambient-drone degli esordi, sembrano piegarsi a una progressiva decostruzione della frase musicale attraverso un taglio chiaramente minimalista.

Matteo Marelli

Matteo Marelli

alt«La contiguità tra scena musicale e scena cinematografica – afferma Enrico Ghezzi – è ribadita lungo tutta la storia del cinema sonoro» (Ghezzi 2000, p. 369), tuttavia, è dalla metà degli anni Cinquanta, con l’(ir)rompere del rock’n’roll, che si salda l’unione elettrica tra l’occhio meccanico e le scariche soniche riverberanti “impulsi d’ampère”: «i due sensi estetici per eccellenza, - la vista - e l’udito, uniti in un godimento unico […]: linguaggio visibile della musica. Ecco l’autentica Rivoluzione!» (Pirandello 1994, pp. 344-345)

Luigi Abiusi

Luigi Abiusi

altMentre in sala arrivano film importanti, comunque li si veda, la si pensi, ecc. - penso a Nymphomaniac, magari a Noah, che non ho ancora visto; il che non mi impedisce di avere più aspettative, paradossalmente (e il paradosso sarebbe dato da caratteristiche come la ”colossalità” hollywoodiana e una mancanza di autorialità, almeno in apparenza; ma allora mi viene in mente anche The Counselor, che pur dentro il “genere” non manca di meditazioni esistenziali mettendo addirittura Machado in una paradossale conversazione telefonica), dico, più aspettative da Aronovsky (magari dalla patinatura delle sue immagini, già declinate, anzi proprio sublimate, in senso gotico nel suo Black Swann) che da un Lars Von Trier forse un po' prevedibile nei suoi ruvidi e umbratili allestimenti dell'umano; ma sono pronto a ricredermi, come quando vidi Antichrist che m'affascinò non poco -; e a Gran Budapest Hotel di Wes Anderson, facile obiettivo di una critica ieratica, che non va oltre le apparenze ludiche di certo cinema postmoderno; e ancora al Jim Jarmush accorato e innocente di Solo gli amanti sopravvivono; mentre accade tutto questo nelle sale, mi viene da pensare che un film che sarebbe imprescindibile probabilmente non verrà mai visto se non forse grazie, ancora, a Fuori Orario che, mi risulta, avrebbe acquistato o starebbe per acquistare, i diritti per tre o quattro passaggi televisivi de Les Rencontres d'apres minuit. Film che è diventato anche il manifesto (l'affiche) della “Semaine de la critique” al Festival di Cannes che sta per cominciare. E su cui basta fare un nome su tutti: Jean Luc Godard. Ma anche Cronenberg, cui sceneggiatore è quel Bruce Wagner che la scorsa primavera invitammo qui in italia (a Bari) a tenere una master class per la rassegna “Registi fuori degli schermi”.

Michele Sardone



Abbiamo incontrato Michelangelo Frammartino in occasione dell’incontro a lui dedicato all’interno della terza edizione della rassegna Registi fuori dagli sche(r)mi. I suoi lavori sono diventati termine di paragone imprescindibile per coloro che vogliano cimentarsi con una sorta di cinema contemplativo e naturalista, sebbene Frammartino si senta più vicino a cineasti come Cronenberg, condividendone la ricerca per una sorta di fusione, attraverso l’occhio meccanico della cinepresa, con l’immagine.

Nicola Curzio - Matteo Marelli

Nicola Curzio - Matteo Marelli

Questa intervista non comincia.
Affiora nel farsi d’una chiacchierata con Mirko Locatelli, due settimane prima della sua partecipazione alla terza edizione di Registi fuori dagli sche(r)mi.
Negando un inizio smentiamo in partenza la possibilità di un centro. Resta, come cosa certa, soltanto il punto d’arrivo, con i nostri ringraziamenti per la disponibilità dimostrataci.
Abbiamo deciso, anche per rispettare le indicazioni di messa in scena emerse durante il discorso, di intervenire il meno possibile a posteriori. Giusto qualche levigatura per rendere più agile la lettura. Domande e risposte si succedono secondo il disordine della conversazione.
Pensate quindi a questa intervista non come a un serrato scambio di campi/controcampi, ma a un ininterrotto piano sequenza, che coinvolge nel quadro tutti gli interlocutori assieme.

Matteo Marelli, Vincenzo Martino, Michele Sardone

Matteo Marelli, Vincenzo Martino, Michele Sardone

Durante il secondo appuntamento della rassegna Registi fuori dagli sche(R)mi III, abbiamo incontrato Jan Soldat in seguito alla proiezione del suo documentario Der Unfertige, presentato all'ultimo Festival del Cinema di Roma. Caratterizzata da un rigore formale mai fine a se stesso, la (se pur breve) cinematografia di Soldat si è affermata non tanto per la scabrosità dei soggetti rappresentati quanto per lo sguardo autoriale privo di qualsiasi giudizio o intromissione.

Leonardo Gregorio

Leonardo Gregorio

È teatro privato, personaggi sul palcoscenico di un altro pianeta, Les rencontres d’après minuit. Ali, Matthias, Udo, La Stella, Lo Stallone, La Cagna e l’Adolescente in una casa pronta a fare dei loro corpi un’orgia e la musica sintetica degli M83 a svelarne le anime. Un film come oggetto misterioso che lentamente si schiude, un sogno con personaggi in cerca d’amore, più che d’autore, visioni debordanti a pulsare un sentimento (la necessità e la mancanza) delle cose, dell’umanità, del mondo, per diventare meraviglia, libero e rigoroso gioco infinito del cinema. Delle sue forme, delle sue possibilità. Presentato alla Settimana Internazionale della Critica al Festival di Cannes 2013, approdato in Italia lo stesso anno al Milano Film Festival e recentemente al Cineporto di Bari come capitolo finale di Registi fuori dagli Sche(r)mi III, Les rencontres d’après minuit è il primo lungometraggio di Yann Gonzalez (fra i dieci migliori film del 2013, secondo i Cahiers du cinéma). Francese, classe 1977, il regista guarda al cinema – che conosce, e molto bene – con gli stessi occhi di quando, bambino, nelle videoteche, ha scoperto di amarlo senza averlo mai visto.

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