Rivista

Vito Attolini

Vito Attolini

la chiamano estatePrima di riferire qualche impressione sul film di Paolo Franchi, E la chiamano estate  (uno dei più bistrattati della stagione), è il caso di accennare a quanto sia difficile spesso esprimere un sereno giudizio critico su ciò che si vede nei sempre più affollati festival cinematografici (troppi) che si svolgono a scadenza ravvicinata: autentiche occasioni per una “visione distratta”. Ce lo dice l’accoglienza riservata, nella fattispecie a Roma, al film di Franchi, sottoposto a lazzi e giudizi acri che fanno pensare ad altri obiettivi cui miravano le feroci stroncature, dettate evidentemente da ragioni che poco avevano da spartire con una valutazione un po’ più attenta. È accaduto per molti film cui poi il tempo ha reso giustizia con una doverosa rivalutazione.

Roberta Novielli

Roberta Novielli

Limpero-dei-Sensi-1976Ai no koriida (La corrida dell’amore, questo il titolo giapponese del famoso film del regista del 1976) rappresenta una delle punte più alte della produzione di Ôshima dedicata alla denuncia del proprio paese attraverso i suoi fallimenti: la storia di una coppia vissuta in una stanza è stata spesso intesa come definitiva vittoria del privato sul pubblico. Tuttavia, il film si riferisce a un episodio realmente accaduto nel 1936: la relazione erotica tra Abe Sada e Ishida Kichizo si accende di eccessi, al punto da sperimentare con sempre maggiore intensità lo strangolamento durante l’amplesso. L’uomo, ormai esausto, chiede alla sua amante di non fermarsi e lasciarlo morire. Sada, infine, evira il suo cadavere e porta con sé il pene per quattro giorni, prima di essere arrestata. Dagli interrogatori-fiume che seguono il suo fermo, Ôshima ha tratto con fedeltà i dettagli del suo film, del tutto conforme all’originale amour fou.

Michele Sardone

Michele Sardone

materia-oscura-01Difficile seguire scrupolosamente questo Bif&st, perdendosi le visioni inedite di quel cinema invisibile (di cui UZAK vorrebbe almeno riflettere una suggestione, una parvenza) in una selva di retrospettive, rassegne, omaggi, tributi dedicati al cinema già visto: come a dire che per ottenere un attestato di maturità ed essere annoverato fra i “grandi” appuntamenti, questo festival infante debba versare un qualche tributo (ne abbiano contati 12) al cinema del passato; con l’inevitabile risultato di dover soffocare il cinema nascituro in visioni uniche, spesso coincidenti con altre visioni egualmente “invisibili” che per molti resteranno tali. C’era forse l’intento di ottenere il massimo numero di pubblico possibile per proiezione: in sala dentro tutti (pubblico e stampa) e tutti in una volta, ma con l’inaspettato risultato che fuori rimaneva sempre qualche scontento a lamentarsi. Arrivati alla quarta edizione ci sarebbe forse voluto un po’ più di fiducia, o daremo ancora una volta ragione a Moretti quando diceva che ci meritiamo (solo) Alberto Sordi… Sembra di rivedere il solito topos per cui la periferia, invece di cercare di affermare una propria narrazione, cerca in tutti i modi di farsi notare dal centro adottandone gli stili, i valori, i volti, le storie: mentre è proprio dalle periferie al di fuori di questa periferia barese che, guarda caso, arrivano le cose più interessanti.

Sergio Arecco

Sergio Arecco

notte e nebbia«In questo testo chiamo shot quello che, negli studi in cui si girano film drammatici, si chiama comunemente cut. In breve, definirei shot “un frammento filmico girato in continuum”. […] In un unico shot, in ogni shot, si deve percepire, grazie al metodo usato dall’autore, il suo temperamento e la sua coscienza del reale. Nel mio ultimo film, Notte e nebbia del Giappone, ci sono solamente quarantatré shots. Vale a dire, in linea di massima, one scene one shot. […] Far durare il piano con una camera che si muove il più liberamente possibile costituisce uno dei miei princìpi tecnici di fondo (il metodo consente inoltre la raffigurazione esaustiva di una scena; una volta, il metodo giusto era considerato quello di tagliare una scena in corso; oggi, quando s’inizia a raffigurare una scena, è bene girarla senza interruzione fino alla fine): sono princìpi stimolati dal flusso di coscienza, dalla soggettività, poiché al flusso di coscienza, alla soggettività dell’autore è affidato il compito di svolgere una funzione critica. Ogni piano deve essere critico. Uno shot deve comportare non solo la critica dell’autore nei confronti dell’oggetto filmato, ma anche l’autocritica dell’autore stesso» (Ôshima in Le pape 1980, pp. 50-52, trad. mia).

Matteo Marelli e Luigi Abiusi

Matteo Marelli e Luigi Abiusi

Spring-Breakers-27«Fatevi sotto bambini/occhio agli spacciatori/occhio agli zuccherini». Dopo Spring Breakers il monito ferrettiano vede ribaltate le parti in causa: è il “gangster” a doversi guardare dalla beata ferocia delle adolescenti.
Harmony Korine mostra il lato ferino, orgiastico, brutale, che cova al di sotto del superficialmente innocuo e patinato immaginario giovanilistico. È tutto un catalogo di paramenti e orpelli inerenti per lo più allo scenario gangsta rap-pop: scarpe da ginnastica coloratissime, passamontagna fucsia, canotte, profumi, pistole-fallo, collane che scintillano in sequenze sempre musicate, che sarebbero videoclip d’accatto se non fossero inserite in un congegno perfetto, apparentemente ludico ma in realtà ludicamente e passivamente nichilistico.

Alessio Galbiati

Alessio Galbiati

monteiro4«Beve dalle più svariate fonti, esegue piroette in tutti i rami, cancella e omette con la perfezione di un criminale: umore e sovversione sono gli unici tratti lasciati nelle tracce di questo moto perpetuo».
(João César Monteiro, a proposito di De Sade)

«Era una persona di immensa libertà, un grande artista, dal rigore assoluto. Con lui la creazione si faceva nella carne viva. C’era improvvisazione, ma sapeva precisamente quello che voleva. È stupefacente, nel suo lavoro, il modo in cui riusciva ad andare in fondo all’orrore della sordidezza e nello stesso tempo attingere a una luminosità, una poesia, una bellezza straordinarie. Viveva sulla falda tra il fondo degli abissi e il massimo della luce. Era un uomo geniale»
(Manuela de Freitas)

«Eccoci qui di nuovo soli. Tutto è così lento. Così pesante. Così triste. Molto presto sarò vecchio. Allora tutto finirà. Tanta gente è passata per questa stanza. Hanno detto molte cose. Non mi hanno detto molto. Sono andati via. Sono invecchiati. Sono diventati lenti e miserabili, ognuno nel suo angoletto di terra».
(Voce off [João César Monteiro] in apertura al film Recordações da Casa Amarela)

Luca Romano

Luca Romano

immagine uzakAll'interno dell'ambito seminariale filosofico “Considerazioni inattuali” in corso a Bari, organizzato dalla professoressa di Linguaggi della filosofia, Annalisa Caputo, in collaborazione con l'Università degli studi di Bari 'Aldo Moro', si terranno le proiezioni di tre lungometraggi (selezionati da Gemma Adesso e Michele Sardone) legati l'uno all'altro attraverso un filo nietzscheano. Nietzsche, infatti, è l'immagine, la rappresentazione della decadenza nel suo splendore e nella sua fine. Il suo pensiero – tratto dalle considerazioni inattuali – è costantemente fuori dal tempo, inattuabile dall'uomo, il nome Nietzsche diventa il luogo di un'utopia. L'immagine e l'opera del filosofo tedesco la rappresentazione di questa utopia, quindi il reale.

Raffaele Cavalluzzi

Raffaele Cavalluzzi

Reality45663Luciano, pescivendolo e modesto truffatore napoletano, aspira al Grande Fratello (Reality di Matteo Garrone). Va ad una selezione, nel corso della quale i selezionatori e uno psicologo parlano a lungo di lui: ne restano colpiti per probabili turbe psichiche che riscontrano – senza che lui se ne renda conto – nei suoi comportamenti. Non sarà mai “preso”, ma Luciano è convinto che prima o poi succederà il contrario: anzi, immagina che la TV lo controlli e lo faccia spiare per vagliarlo e utilizzarlo adeguatamente nello spettacolo. Per questo impazzisce dolcemente, ma scopre anche la generosità per i poveri, ed è toccato dal benessere interiore che procura lo spirito religioso di cui comincia a essere intrisa la sua solidarietà verso gli umili.

Raffaele Cavalluzzi

Raffaele Cavalluzzi

The MasterFreddie, il protagonista di The Master (di Thomas Anderson), sarebbe di regola un caso clinico: quello di un marinaio americano disturbato, reduce dalle battaglie delle isole orientali del secondo conflitto mondiale, che si rifiuta di essere curato da medici e psicanalisti. La sua adolescenza era stata alquanto torbida nella banalità del male (il padre morto ubriacone, la madre ricoverata in manicomio, una zia con cui condivideva un sesso precoce e incestuoso): e ora solo intrugli di liquori e droga lo accompagnano nell’oscuro viaggio intrapreso nel mondo ostile del dopoguerra. Rifugiatosi per caso su una piccola nave di crociera, qui incontra – ed è ben accetto – il capo di una curiosa setta religiosa, che predice una sorta di metempsicosi e di mistici rituali che travalicano le leggi della scienza e dei comuni comportamenti di accoglienti salotti borghesi. Il film diventa a questo punto un corpo a corpo tra Freddie e il “maestro” Lancaster Dobb, che si rivela capace di attrarli straordinariamente l’un l’altro. Quindi la loro è solo apparente differenza: alla paranoia anche violenta di Freddie corrisponde l’alienazione religiosa che sublima la smodata ambizione e l’avidità dell’altro.

Simona Specchia

Le nuove forme della cultura cinematograficaAttualmente il panorama della critica cinematografica è quanto mai vasto e multiforme. Se sulle pagine dei quotidiani e dei periodici lo spazio dedicato alla riflessione e alla analisi dei film in uscita si è drasticamente ridotto, con il critico cinematografico di professione che si è visto costretto a cedere il passo al giornalista di costume o allo scrittore o al notista politico, sono invece aumentate grazie alla rete le modalità e le occasioni per fare critica, per dare e ricevere informazioni sul cinema e per ragionare sul fenomeno cinematografico: dai nuovi media (i siti telematici, le testate web, le radio locali), all’editoria specializzata, all’università, ai festival, alle rassegne tematiche, alle tante manifestazioni locali organizzate per iniziativa di enti e associazioni. Eppure quasi per una conseguenza inflattiva, alla moltiplicazione degli spazi e delle occasioni del fare critica, sono pesantemente diminuiti i momenti dell’ascolto e del confronto, si sono marginalizzate progressivamente la funzione e l’incidenza della critica stessa nel processo della produzione e del consumo del cinema. Spesso la critica parla nel vuoto, non comunica, non incide nei processi e nei fenomeni del cinema, restando sempre più ai margini della comunicazione cinematografica fino all’autoreferenzialità, cioè al massimo della specializzazione e/o dell’appiattimento.

Vito Santoro

Vito Santoro

il-western-italianoIl grande clamore suscitato da Django Unchained di Quentin Tarantino ha inevitabilmente comportato la riconsiderazione del western italiano, fenomeno fondamentale nel quinquennio 1965-1969, capace da un lato di incidere sull’immaginario collettivo, dall’altro di risollevare le sorti economiche dell’industria cinematografica nazionale, allora in riflusso. Basti pensare alla crisi della Titanus di Goffredo Lombardo, letteralmente svenatosi per i forti investimenti richiesti dalla produzione di Sodoma e Gomorra, 1962, di Robert Aldrich e de Il Gattopardo di Luchino Visconti, 1964 (anche se va sottolineato come in quegli anni il valore del mercato italiano superasse ampiamente quello di Gran Bretagna, Francia e Germania…).

Nicola Curzio

Nicola Curzio

Tetsuo  the iron 512cd0e5b9864 220x335Era il 1989 quando un proiettile di nome Tetsuo si conficcava tra/ne gli occhi ipnotizzati di un pubblico attonito che forse, dopo un decennio di visioni, guardava già alla decade seguente, desideroso com’era di velocità, di avanguardia, di futuro. Eppure c’era stato chi, da occidente, aveva a suo modo profetizzato che sarebbe arrivato qualcuno dal futuro per salvare il presente, prima che questo fosse terminato. Il futuro era già presente e nessuno se n’era accorto, non almeno fino a quando uno sconosciuto giapponese, da oriente, spara questo proiettile a velocità supersonica che squarcia il nostro corpo e lo riempie di luce: è Tsukamoto Shin’ya.


Vito Attolini

Vito Attolini

Annex - Sebastian Dorothy Our Dancing Daughters 03L’inquadratura iniziale riprende dal basso le gambe di una donna che, mentre sta vestendosi dinanzi allo specchio (e, malizioso dettaglio per gli anni in cui fu girata, a un certo punto si infila le mutandine), si muove al ritmo di un charleston: il suo dimenarsi è l’esatto opposto dell’armoniosa compostezza di una danzatrice, la cui immagine apre il film. La donna è Diana Medford, una esuberante ragazza appartenente a una ricca famiglia dell’alta borghesia ed è interpretata da Joan Crawford, un’attrice che nel 1928 – anno in cui fu girato Our Dancing Daughters diretto da Harry Beaumont, di cui ci occupiamo ora – non era ancora la star che sarebbe diventata subito dopo la presentazione del film, il cui straordinario successo fu confermato anche da due successive pellicole affini. L’attrice diventò una delle più ammirate dive dello schermo, dopo una precedente, poco brillante carriera, che comprendeva una dozzina di film, non tutti da ricordare (ma uno di questi, il migliore, The unknown, fu diretto dall’eccentrico Tod Browning, e deve molto alla straordinaria interpretazione di Lon Chaney).

Luigi Abiusi



holy-motorsPare che l'automobile, anzi la Limousine, sia divenuta l'immagine, cioè unico dispositivo di indagine, del cosiddetto contemporaneo, se si vedono le recenti opzioni del Cosmopolis cronenberghiano, ma soprattutto di quell'Holy Motors di Leos Carax, che convoglia perfettamente la militanza, che deve essere non solo della creazione cinematografica, ma anche della critica. È il motore, la macchina, il veicolo dell'attraversamento dello spazio immaginale e del passaggio all'Altro cinematografico, percorrendo il Vuoto che si istituisce tra queste in(ter)dipendenti isole di senso, che vibrano ogni volta (nelle incarnazioni di Denis Lavant e nelle concrezioni del circostante) di sentimento, dolore, perversione, azione anticapitalistica, cioè di Politica, la globalità dei significati, dis-unita proprio attraverso la distanza tra isola e isola. Che è quanto emerge appunto da Holy Motors e che la critica, le critiche, devono mettere in primo piano, nel sogno avatariano di una vita nuova e reale affidata alla carne del simulacro.

Daniele Dottorini



lowtide1Siamo sempre più convinti che ciò che condanna il pensiero critico alla ripetizione del fatuo è l’ossessione del nuovo, la convinzione ‒ più o meno consapevole ‒ che ciò che vale la pena vedere, ciò su cui vale la pena scrivere sia ciò che infrange qualcosa di dato per stabilito, un codice, una forma. Ed ecco comparire, volta per volta, entusiastiche ammirazioni per rovesciamenti apparenti, ibridazioni consapevoli, negazioni più o meno annunciate di generi, forme stili. Una sorta di rincorsa spasmodica dell’avanguardia, del nuovo come icona messianica, muove a volte sguardi, percorsi critici, scritture e parole.

Vanna Carlucci - Gianfranco Costantiello

Vanna Carlucci - Gianfranco Costantiello

low_tide_minervini2Il modo di girare così calato nella drammaticità del reale ricorda i film dei fratelli Dardenne (d’altronde ho letto che alcuni componenti della truppa dei Dardenne hanno lavorato per questo suo film), ma penso anche al Truffaut de I quattrocento colpi e, soprattutto, al Rossellini di Germania anno zero (nella maniera in cui l’autore è insieme al personaggio). Crede che questi registi abbiano influenzato il suo lavoro? O ce ne sono altri che sente più vicino?

Con Marie-Hélène Dozo, che ha montato tutti i film dei fratelli Dardenne, siamo molto amici e ci frequentiamo anche quando non lavoriamo insieme. Suo marito, Joao Leite, è il produttore dei miei film. Per Low Tide si sono poi aggiunti Julie Brenta (montaggio suono) e Thomas Gauder (missaggio), anche loro stretti collaboratori dei Dardenne. Ciò nonostante, credo che tra i nostri film ci siano grandi differenze, sia formali che sostanziali. I Dardenne partono spesso da un’idea fittizia attorno alla quale costruiscono personaggi e luoghi che, sinceramente, non rappresentano la realtà da cui provengono i Dardenne stessi, vale a dire la Vallonia. I miei film hanno come punto di partenza luoghi e persone reali, ai quali adatto la mia storia, cercando di coglierne e di rappresentarne al meglio le proprie idiosincrasie. Ed è proprio in questa mia ricerca dell’autenticità che m’ispiro principalmente a Rossellini.
Ci terrei inoltre a citare Lav Diaz, che ammiro profondamente per avere il coraggio e l’ambizione di raccontare la(e) storia(e) delle Filippine, un film, un’ora, un fotogramma alla volta. Anche a me piacerebbe raccontare, film dopo film, la(e) storia(e) della vera faccia dell’America, quella del profondo Sud.

Luigi Abiusi



lowtide1Low tide si estende nel dominio di elementi primi, terragni, prati oppure terricci apparsi all'improvviso, regno di lordure e rifiuti (magari di latta: sparuta risorsa per i vagabondi, come quelli della Reichardt, in fila a questuare centesimi, e, in contrappunto, mettiamo, gatti morti, impallinati in Gummo), o grigi cavalcavia tipicamente americani – con smog e via vai di macchine sullo sfondo – simili a quelli percorsi da un altro tacito bambino visto qualche anno fa nei paraggi del cinema americano indipendente, quello con le orecchie da coniglio di Gummo appunto (vero canone non solo del cinema di Korine, prima che si attualizzasse in senso pop in Spring Breakers, ma in genere di una certa rappresentazione ruvidamente realistica di un mondo, di un'America subumana), che col suo deambulare dava conto di uno spazio (urbano e suburbano, ma soprattutto cinematografico) e di un'umanità residuali.

Massimo Causo

Massimo Causo

minerviniLa disciplina dell’indifferenza nutre e organizza il senso dell’esserci del dodicenne protagonista di Low Tide, nemmeno un nome per nominarlo, ma non di meno una presenza forte e contraddittoria nella sua evidente fragilità infantile. Minervini gioca la carta della sua lampante solarità per ricoprirla della polvere della periferia suburbana, disegnando questo ragazzino come un contrappunto in fuga dall’iconografia metropolitana degli skeaters alla Van Sant, per esempio. Non c’è identità, per questo ragazzino, la sua soggettività appartiene solo all’indifferenza di cui è oggetto e alla quale lui risponde nella disarmonia delle mille attenzioni di cui ogni suo atto è espressione. La sua comunicazione silenziosa è fatta di gesti di comunione, di riparazione, di armonizzazione. La verità affettiva di cui riveste l’indifferenza della madre è fatta di esperimenti che occupano la distanza: dormire nel letto che ha preparato per i pazienti dell’ospedale in cui lavora, assaggiare di nascosto il cibo che lei sta mangiando, lavare le sue lenzuola...

Gianfranco Costantiello

Gianfranco Costantiello

da_lontanoLe immagini nel cinema di Santini sono lo scarto di uno sguardo diaframmatico, interiore, evanescente. Docile reclamo verso la finitezza dell’inquadratura, limite che, prima ancora, è proprio dell’occhio, impreparato a trattenere lo spazio intorno. Si susseguono come in un sogno: rincorrono e descrivono traiettorie di luce e buio, oltrepassano soglie e varchi, si sgranano fino a cogliere l’impenetrabile che è scosso dai sussulti di ciò che resta fuori campo. La loro contiguità, se penso soprattutto al lungometraggio Flòr da baixa, viene tenuta dal sonoro ‒ che intreccia fuggevoli ascensioni musicali al respiro segreto delle stanze d’albergo, al tramestio delle strade, allo sciabordio delle onde che torna spesso come a suggerire l’andirivieni, il moto ondoso dell’immagine che appare, schiuma e si perde ‒ e dal ri-attraversamento di un corpo-fantasma di donna che guarda dalla finestra, ché il cinema di Santini è un affacciarsi sul tempo. 

Michele Sardone

Michele Sardone

in_gialloForse per far emergere alla superficie filmica una non-storia dalla Storia impaludata nella propria autonarrazione è necessario che anche il regista cancelli se stesso. Non poteva far eccezione quell’auto(narrato)re di Carlo Michele Schirinzi che nel suo ultimo lavoro, Natura morta in giallo, cancella dalla scena se stesso, la sua storia, il suo stile, il suo tocco, per dar spazio ad altri corpi, altre storie, altri talenti, altri tocchi.

Giampiero Raganelli

Giampiero Raganelli

il-cinema-di-koji-wakamatsu-cover«I film di Wakamatsu Kōji offrono ai loro spettatori un’esperienza che non ha equivalente alla luce del sole. È la voce del desiderio, dei propositi delittuosi, e quindi della miseria screziata, che echeggia nella notte». Con queste parole Ōshima Nagisa (1970) si è espresso nei confronti del regista suo protégé, che ha voluto peraltro come produttore per il suo scandaloso Ecco l’impero dei sensi (1978).
Wakamatsu ci ha lasciato improvvisamente il 17 ottobre del 2012, a 76 anni, dopo una carriera di cinquant’anni e di oltre cento film, ancora nel pieno dei suoi progetti e dei suoi tour per i festival di tutto il mondo. Portato via da un incidente stradale, investito da un taxi, proprio come Angelopoulos.

Alessandro Baratti


mon_voyageIl cinema non è un soggetto. Tutt’al più è un oggetto di riflessione. Nelle sue innumerevoli manifestazioni chiama sì in causa intere legioni di soggetti reali - i cosiddetti addetti ai lavori - ma nessuno di loro, per quanto si affanni a sottometterlo alla propria volontà, ne può controllare l’esuberanza semantica, la spinta centrifuga. Il cinema, insomma, è un’entità paradossale: accoglie docilmente in sé la pulsione espressiva di soggetti disparati, ma non si riduce a tradurla pedissequamente, a dattilografarla. Si presta senza assoggettarsi, si concede mantenendo una certa indipendenza. Questa autonomia non ha niente di soggettivo, d’intenzionale: si configura esattamente come un surplus, un’eccedenza, una resistenza all’ordine imposto da forze estranee. Non c’è autorialità o logica spettacolare che tenga: la materia cinematografica, per quanto pensata meticolosamente o generata digitalmente, sfugge alla traduzione dell’idea che l’ha concepita, resiste alla manipolazione integrale. Ebbene, questo surplus è precisamente l’altro del cinema. Un’alterità che si concretizza prendendo le distanze dalle intenzioni della messa in scena, giacendo sotto di essa, sedimentandosi in un fondo letteralmente inesauribile, suscettibile di infinite scorribande interpretative.

Mariella Lazzarin

Mariella Lazzarin

deathrow_2179913bL’abolizione della pena di morte
verrà come la morte,
non come la pena di morte,
non si sa quando.
(Jacques Derrida)

 

La morte. Con Death Row e Into the Abyss, Werner Herzog radicalizza la sua poetica di fatti reali ‒ del resto anche My Son, My Son what have ye Done è tratto da una vicenda veramente accaduta ‒ per spostarla letteralmente negli abissi di una storia celata, rimasta necessariamente al buio. Uno sguardo distaccato, una dichiarazione d’intenti, una radicalità drastica, perentoria. Herzog costruisce una cupa tassonomia di sottrazioni: dapprima lo spazio, teso e claustrofobico, per la sua stessa imposta impossibilità di mostrarsi al pubblico; poi il tempo, cinquanta minuti d’intervista ai cinque detenuti, l’amara consapevolezza di un destino ormai segnato, le rinunce, le ammissioni, le ricostruzioni e le lacerazioni; infine la presa di coscienza della impossibilità di agire, la competenza solamente umana di cambiare il proprio destino relegata a divenire spazio chiuso dell’eterna attesa, l’estrema sintesi dove le intenzioni possono prendere vita solo nella parentesi di un miraggio, nell’estensione incisa di una chimera.

Raffaele Cavalluzzi


Il_primo_uomo-44491084La sesta edizione nei Tascabili Bompiani dell’ampio frammento del romanzo postumo di Albert Camus Il primo uomo (aprile 2012, a cura di Catherine Camus, trad. di Ettore Capriolo) è uscita quasi contemporaneamente col film che Gianni Amelio ne ha tratto ispirandovisi. Amelio ha trovato nell’opera di Camus l’occasione per trasferirvi il tema centrale della sua vicenda artistica ed esistenziale: la ricerca del padre e, in assenza di lui, delle sue radici nel profondo nostro Sud (la metafora del viaggio è particolarmente significativa nel cinema più maturo di Amelio, da Il ladro di bambini a Lamerica, da Le chiavi di casa a La stella che non c’è).

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