Rivista

Raffaele Cavalluzzi


faust-mediumPer tentare un contributo di analisi del Faust di A. Sokurov è utile forse cominciare dalla fine: dall'indicazione dei titoli di coda secondo cui l'ultimo film del regista russo è l'atto conclusivo di una tetralogia che lo colloca, quasi come conseguenza, dopo Totem, Il toro e Il sole, tre film su tre figure emblematiche (Hitler, Lenin, l'imperatore giapponese Hirohito) di suprema autorità umana nel corso del XX secolo (ancorché – in queste pellicole – osservata dalla discreta marginalità di situazioni della loro vita, in cui vi è tutt'altro che l'esercizio del potere). E' stato osservato che Faust, però, non sembra avere molto a che fare con le opere del ciclo. Non sembra. E tuttavia la sua sostanza ha a che fare, programmaticamente, con il tema della ricerca del potere, giacché Faust è il fondante mito moderno di essa.

G. Adesso - M. Marelli - M. Sardone - S. Tell

faust_420Una questione privata

Questo studio è la conseguenza d’un appuntamento mancato. Quello tra UZAK e Aleksander Sokurov.
Una volta saputo della partecipazione del regista russo alla 68° Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia con il Faust, e scoperto l’acquisto dei diritti di distribuzione in Italia da parte dell’Archibald Film, contattammo immediatamente la responsabile dell’ufficio stampa, Paola Papi, per cercare di fissare un incontro durante le giornate lidensi.
Non avemmo risposta.

Raffaele Cavalluzzi


Dangerous_LedeNon è facile focalizzare lo showdown tra Freud e Jung e la contrapposizione delle loro rispettive metodologie scientifiche in una struttura drammatica che sia capace di tradurre anche le tensioni biografiche in un coinvolgente racconto filmico. Lo ha fatto invece, con un risultato eccellente, David Cronenberg in A Dangerous Method (i due protagonisti sono interpretati da Viggo Mortensen e Michael Fassbender) a partire dalla vicenda a suo modo cruciale di Sabina Spielrein (Kiera Knightley), prima paziente affetta da psicopatologia isterica di Jung, e poi, una volta guarita, giovane studiosa che si avvicinò a Freud – ateo e anch'esso, come lei, ebreo – con l'originalità di una ricerca sulla pulsione di morte che si accompagna all'istinto sessuale, mentre, a sua volta, anche Jung, di fede cristiana, l'aveva curata con un rigoroso metodo freudiano, ricavandone però conseguenze che lo avrebbero indotto a divergere pressoché radicalmente dal suo maestro, fino al misticismo e al sincretismo religioso.

Annalaura Bossi


le_havreIl microcosmo sociale che il cinema di Kaurismaki riesce a fecondare e a mettere in forma sembra spontaneamente plasmarsi sulla struttura dinamica di un quadro puntinista, dove accennati tratti di pennello accostati gli uni agli altri scoprono il loro specifico volume proprio nell’orchestrazione sinergica dell’insieme che li assorbe.
Questo principio sineddotico che anima più che mai la materia narrativa di Miracolo a Le Havre permette un’esposizione dei personaggi svincolata dai consolidati psicologismi inevitabilmente inscritti in una ferrea concatenazione di eventi fin troppo concentrata a (di)mostrare la propria coerenza finzionale all’interno della macchina diegetica.

Raffaele Cavalluzzi


melancholia3"Having for his ordinary companion fear and sadness" (R. Burton).

Un pianeta sta avvicinandosi pericolosamente alla terra e rischia, impattando, di distruggerla: il suo nome è Melancholia (che dà il titolo al film più recente di Lars Von Trier). La parola “melancholia” deriva dal greco  melankalia, composta significativamente da mélas «nero» e khalè «bile», e viene più spesso usata per indicare uno stato d'animo di vaga tristezza, insoddisfazione di sé e del mondo, propensione al pessimismo.

Simone Moraldi


un_cuento_chinoSi è conclusa nei primi giorni di un novembre inaspettatamente caldo (benché reduce da uno dei nubifragi più forti che Roma ricordi da anni) la sesta edizione del Festival del film di Roma. A dispetto di infausti pronostici che ogni anno gravano sulla discussa kermesse romana, la mostra diretta da Piera Detassis torna a risplendere, riportandoci ai fasti di certe edizioni passate.

Nonostante la grande disomogeneità e la sovrabbondanza della selezione, nonostante i molteplici aspetti politici che caratterizzano il festival, alcuni dei film presentati si stagliano, in un panorama internazionale, come prodotti di gran livello.

 

L. Abiusi - G. Adesso - M. Sardone


schirinzi01gIndifferenti significanti

Dopo avere ospitato, tra gli altri, Zbig Rybczynski, in una delle edizioni scorse, e aver ri-scoperto figure topiche del sottobosco del cinema sperimentale soprattutto italiano, l'“Avvistamenti” di quest'anno s'è concentrato (quasi) tutto sull'opera di Carlo Michele Schirinzi, uno degli eponimi di un fare cinema ultraindipendente (nel chiuso masturbatorio della propria camera), quindi oltre l'oleografia (in questo caso salentina) che potrebbe derivare dalla promozione delle istituzioni, sempre pronte a sciorinare la bellezza delle vedute, la genuinità dei prodotti tipici, e, in seconda battuta, la portata di presunte opere d'arte, invece plasticoso frutto del più corrivo Mercato (interno).

L. Abiusi - V. Carlucci - G. Costantiello - M. Sardone


EWO-3Intro

A prescindere dalla pressante questione tematica (l'omossessualità in tutti i suoi gradi e gradimenti) che spesso inficia l'effetto, il portato estetico, di simili manifestazioni – concentrate, anche comprensibilmente, sull'assunto e un po' meno sulla materia-cinema –, alla fine, si può dire che al Bari Queer Festival si è visto del buon cinema. Come se l'alterità – che comunque è tale solo in confronto alla supposta, sociologica normalità dell'eterosessualità – fertilizzi il terreno cinematografico, facendo rigoglire immagini inedite, accostamenti narrativi e, nel migliore dei casi, formali; insomma, imbastendo una qualche teoria di questo cinema, deterritorializzazioni fiammeggianti e fondanti, ipoteticamente, una sempre nuova immanenza.

Vito Attolini


1945-unter-den-bruecken1Pensate a un incontro fra Jean Vigo e François Truffaut… Non parliamo evidentemente di un incontro reale, perché il regista di Jules e Jim aveva appena due anni quando l’autore de L’Atalante morì (1934). Parliamo di un incontro (cinematografico) immaginario, suggerito dalla visione di uno dei film più (mi)sconosciuti della storia del cinema tedesco, firmato da un regista, Helmut Käutner (1908-1980), sull’opera del quale, dopo l’attenzione riservatagli dalla critica italiana nel dopoguerra, particolarmente per L’ultimo ponte (Die letzte Brücke, 1953), si è stesa una cortina di silenzio, nonostante una filmografia di innegabile rilievo. Il film che prendiamo in esame è Sotto i ponti (Unter den Brücken, 1945), che a suo tempo non fu presentato in Italia, per ovvie ragioni, tenuto conto del drammatico periodo in cui fu portato a termine. Per fortuna qualche rassegna (poche, in verità: ci riferiamo alla bellissima retrospettiva della Mostra di Pesaro del 1995, che ce lo fece conoscere) lo ha riproposto, rivelandone la incontestabile bellezza.

Matteo Marelli


la_scienza_del_sogno«Ogni film contiene sempre un’idea del cinema e un’idea della vita. È con queste due idee che mi confronto quando devo capire se e perché un film mi piace, ed è in base a queste idee che decido».

Interrogato da Roy Menarini su quali fossero i parametri valutativi che era solito adottare per formulare un giudizio critico su un’opera cinematografica, Vincenzo Buccheri rispose parafrasando Truffaut. Perché il cinema per Buccheri è «un’introduzione alla realtà» capace di far sviluppare agli spettatori, visione dopo visione, una coscienza critica sul loro tempo; «un film, prima che un prodotto di mercato, prima che un fatto di linguaggio, è una testimonianza esistenziale. E il critico, se non vuole essere tagliato fuori dal dialogo tra il film e il suo spettatore deve saper cogliere quanto di testimoniale c'è in un film: il suo rapporto con le nostre esistenze, ma anche con il mondo» (Buccheri 2010, p. 50).

Gaetano Pellecchia


Tarkovskij-AndrejRublev1 - Il passato: cinema e storiografia

Ogni volta che si assiste ad un film di ambientazione storica (in questo caso medievale) o “in costume”, il pensiero corre subito alla sua “fedeltà” rispetto agli avvenimenti narrati e/o all’"ambientazione" (soprattutto scenografia e costumi). Si ritiene opportuno, ora, fissare alcuni “paletti” circa il problema della “riproducibilità” del passato e delle relazioni (pericolose) fra Cinema e Storia. Va dunque ricordato che il passato non è riproducibile, che vi è una differenza di linguaggi fra cinema e storia perché il cinema è sequenza di immagini in movimento e la storia, anzi la storiografia, è studio di temi e problemi riguardanti il passato, è prevalentemente basata sullo studio dei documenti e sul confronto continuo con quanto prodotto dalla ricerca storica e i suoi risultati vengono comunicati attraverso la forma scritta. Va infine ricordato che il cinema è finzione e fenomeno artistico-industriale.

Luigi Abiusi


The-Tree-of-Life-trailer-stunning-image1In questi ultimi mesi è accaduto qualcosa di molto importante, non solo inteso dentro l'ambiente della cultura, ma dentro l'ambiente in generale, cioè in “naturale”, se è vero, riprendendo Deleuze (non vedo chi altrimenti, pur volendo), che ogni storia dell'arte è, innanzitutto, storia naturale. La comparsa di quel The Tree of life, che, piaccia o no (e a molti non è piaciuta l'estrema pulizia, rigorosa, religiosa purificazione delle immagini, divenute così stucchevoli, o solo apparentemente), si installa come uno scuro (cioè misterioso) monolito, nella truculenza del mercato-contemporaneo.

Raffaele Cavalluzzi


timthumb.phpIl giorno successivo all’attribuzione del Palmarès a The Tree of Life di T. Malick, sulle pagine di cronaca di «la Repubblica» C. Maltese raccontava e commentava a caldo: «Continua invece e andrà avanti chissà per quanto il dibattito della critica, divisa tra entusiasti e stroncatori al limite dell’insulto. Fra i secondi, molti ideologi dell'ateismo, che trovano intollerabile e reazionaria la fede mistica di Malick. Ed è un po’ avvilente stare a discutere ancora nel 2011 se un cattolico può amare Buñuel e un ateo può adorare Bresson, se a un sincero [democratico] è consentito ammirare il filonazista Céline o se è giusto separare le parole di Lars von Trier dal suo cinema, magari per decidere che non piacciono entrambi. A parte questo, se c'è uno che può convincere un non credente dell'esistenza di Dio, nel mio caso vorrei che fosse Terrence Malick» (23-5-2011).

Bruno Roberti

 
tree_of_life_jessica_chastainSaggio tratto da "Filmcritica" n. 615/616

«Colui che si spande come una sorgente, viene conosciuto dalla
conoscenza» (Rainer Maria Rilke)

È qualcosa di incommensurabile che si espande da The Tree of Life, sono punti di sguardo senza misura che si intercalano e trapassano in un montaggio che sembra avvenire senza mediazioni nel cosmo visivo e nella mente, la nostra? Quella di una famiglia archetipica (paterno, materno, filiale intrecciati in un incessante incesto visuale, come se le immagini originassero prima della loro origine e quindi travalicassero il prima e il dopo, l'interno e l'esterno.

Lorenzo Esposito

THE-TREE-OF-LIFE-malick-brad-pitt-jessica-chastain-80-nuove-fotoArticolo tratto da "Filmcritica" n. 615/616

In Malick l’immagine è sempre stata qualcosa a metà fra la grazia e il nulla, sottilissima e siderale, scintillante e smottante fra luce e tenebre, fra principio e fine.
Una vampa tesa e velocissima, che usa gli ostacoli terreni e ultraterreni come altri punti d’accensione, già e di nuovo incanalata e inoltrata nella miriade di deviazioni e derive che pure la generano.
Come se non fosse mai solo l’immagine, ma il residuo di vita sufficiente ad assorbire tutte le vite, sintomatiche e postume, passate e future. Un nucleo assoluto, di cui forse non esiste immagine esatta, né narrazione concorde, ma solo il film che la cerca e talvolta la intravede.

Raffaele Cavalluzzi


grantorino03«Rendo grazie a qualsiasi Dio ci sia
per la mia anima invincibile:
sono il padrone del mio destino,
il capitano della mia anima».
(Invictus)

I film del regista americano Clint Eastwood sono sempre più cresciuti lungo due direttrici costanti: l'una tematica, l'altra formale. La prima riguarda il tema della difesa dei diritti civili, che scaturisce a sua volta dall'epica – già dei classici western e dei polizieschi – dell'uomo solo, dell'eroe onesto (ma senza scrupoli nell'uso delle armi) nell'impari lotta contro i nemici dell'ordine e della giustizia. L’altra costante dei film di Eastwood, che è venuta sempre più delineandosi via via anche attraverso la pratica di generi e di soggetti diversi, è quella della regia lineare e puntigliosa, capace, specie nei film della maturità, di portare il respiro della pellicola a contendersi il senso del reale, seguendo la verità delle cose con l’asciuttezza di ogni passaggio interpretativo e in virtù della cura di ogni dettaglio (sempre, però, per così dire, senza darlo a vedere).

Matteo Marelli


decalogo5-2Ci sono autori che immeritatamente finiscono nel dimenticatoio di pubblico e critica. È la sorte toccata a Krzysztof Kieślowski, autore su cui è calata una spessa coltre di silenzio. Una rimozione sfrontata e colpevole. Nell’anno in cui tutti vogliono celebrare il centenario della nascita di Nicholas Ray, a noi sembra giusto dedicare un po’ d’attenzione anche ai quindici anni della scomparsa del regista polacco, autore d’una delle opere di più ampio respiro di tutti gli Anni ’80, Il Decalogo. Con la speranza che si torni a far letteratura critica anche attorno al suo cinema.


L’aggettivo centrale, comunque lo si voglia usare, sia in senso proprio - di riguardante il centro - che figurato - utilizzato per indicare un qualcosa di fondamentale importanza - è particolarmente indicato per connotare il quinto episodio del Decalogo di Krzysztof Kieślowski. Il tema di questo episodio, collocato nel mezzo della struttura complessiva dell’opera, relativo all’imperativo apodittico di Non uccidere, può essere considerato come la premessa che ha dato origine all’intero progetto.

Michele Sardone


1931187«L'immagine dell'inafferrabile nella vita. E questo è la chiave di tutto».
(O. Welles1)

Più che un titolo, un'onomatopea. Se Blob è il rigurgito, il gorgoglio viscerale della sbobba televisiva propinata quotidianamente, Zaum2 è il fendente nell'etere di un ufo avvistato sugli schermi TV, rombo in fuga supersonica, irraggiungibile come il tempo reale in cui l'immagine si dà.
Zaum è stato un programma settimanale in sei parti di circa un'ora ciascuna andato in onda su Rai Tre questa estate, a cura di Enrico Ghezzi e della redazione di Fuoriorario. Tema di fondo è la catastrofe, rappresentata e montata attraverso un «repertorio raro e intenso da più di duemila anni di immagini3 scagliato e proiettato in carezza costante sulle tematiche e le ossessioni del presente fino a provocarne più l’evaporazione che la fissione»4: più che la presentazione di un programma, è la stessa presentazione ad essere un programma, sorta di libretto d'istruzione per assemblare il dispositivo Zaum, marchingegno composto esemplarmente in sei diverse varianti, potenzialmente scomponibile e ricomponibile all'infinito.

Franco Cardini


7sigillo1. Il Settimo Sigillo. Medioevo, partita a scacchi contro il nulla

La generazione precedente alla mia, quella di chi oggi ha tra i settanta e i novant’anni, è stata forse segnata soprattutto dalla radio; quella successiva alla mia, i trenta-cinquantenni, è una generazione decisamente televisiva; la prossima, quella di chi oggi ha fra i dieci e i trenta, è una generazione informatico-telematica, tutta computer e telefonini. Noialtri che stiamo tra i cinquanta e i settant’anni, noi generazione della guerra in Vietnam, del boom economico e del Sessantotto, noi contemporanei di Bob Dylan e di Sean Connery, siamo senza dubbio una generazione profondamente segnata dal cinema, intrisa di cinema. Non che il grande schermo e la pellicola al nitrato d’argento non fossero cose anche di prima: è ormai praticamente un secolo che ogni generazione ha i suoi idoli cinematografici, e Charlot non vale certo meno di Johnny Depp.

Francesco Violante


lancelot-joust-audience1. Il sogno del Medioevo

Dove abbiamo imparato, dunque, tutto quello che sappiamo sul Medioevo? E come?
Come ha ben scritto Giuseppe Sergi, ciò che colpisce, negli sguardi sul passato, e sul Medioevo in particolare, è la compresenza di due categorie psicologiche antitetiche, assimilazione e distanziamento. Da un lato si cercano aspetti della storia degli uomini nel passato che più facilmente possano dire qualcosa sul presente, momenti di vita quotidiana, o sentimenti ed emozioni, o che, in prospettiva, indichino possibili sviluppi futuri della civiltà; dall’altro, in positivo o in negativo, il passato impone una fascinazione collettiva indotta dalla diversità dell’esotico ritrovato negli stessi luoghi del presente, ma lontano ormai irrimediabilmente nel tempo.

Vito Attolini


harold_lloyd_reduced«Aveva… un vocabolario comico insolitamente vasto ed aveva in particolare un corpo sapientemente espressivo… I suoi film derivavano dalla vita quotidiana e vi erano vicini più di qualsiasi altro film comico», scrisse James Agee (1950) a proposito di Harold Lloyd, contrapponendo la sua opera a quella dei grandi comici a lui contemporanei, suoi “rivali”: vale a dire Charlie Chaplin e Buster Keaton, dai quali i film dell’homme aux lunettes d’écaille sono stati in parte “oscurati”. La singolarità di questo grande attore, che ebbe la sua stagione d’oro nei decenni Venti-Trenta, trova le sue ragioni in ciò che James Agee definiva realismo ordinario, quotidiano appunto, alla base di una comicità lontana dalla stilizzazione che caratterizzava quella di Chaplin o Keaton. (Sull’opera di questo grande protagonista del cinema hollywoodiano del muto è da segnalare la monografia italiana di Alessandro Faccioli, Harold Lloyd. L’officina della risata).

Michele Sardone


dispersiNon potevamo non incontrarci. Da una parte noi, gli uzaki al (quasi) completo, impegnati da tempo a recuperare film fuori dal cortissimo circuito delle sale cinematografiche nazionali. Dall'altra loro, Sara Sagrati e Alberto Brumana, co-curatori del libro Dispersi (370 pp., 19 euro), edito da Falsopiano, una guida ai film non distribuiti in Italia. E non potevamo scegliere miglior luogo dell’atrio della Sala Perla, durante l’ultima Mostra di Venezia, poco dopo la proiezione di Cut di Naderi, un film che ha tutte le caratteristiche per diventare anch'esso un clamoroso disperso e che scegliamo come nume tutelare del nostro incontro.

Gemma Adesso


Immagine-15-211x300«La filosofia è scritta in questo grandissimo libro che continuamente ci sta aperto innanzi a gli occhi (io dico l'universo), ma non si può intendere se prima non si impara a intender la lingua, e conoscer i caratteri, ne' quali è scritto». (G. Galilei)


Ceci n'est pas un livre: due libri, in forma di quadro.
Un quadro contempla, attraverso le lenti di un cannocchiale, la sua immagine nel riverbero del più prossimo; tra le due immagini non c'è riproduzione somigliante, ma solo il riflesso capovolto di una similarità che si pensa in proiezione.
Il riflesso della prima immagine è letteralmente: (come). Le parentesi hanno il valore lenticolare dell'ingrandimento, ingigantiscono lo spazio della distanza approssimandolo al nulla che attrae: (come) se IL nulla fosse1.

Tommaso Ottonieri

ottonieriQuesto articolo è già apparso sul «Verri», n. 25, 2004.

Nei primi giorni di giugno di questo giugno autunnale, bellico, grigio-lucido come pochi nel vacuum delle parate sottovuoto (l’atterraggio dalle Americhe del Principe Cespuglio alle 0.25 l’ho percepito da un battito elicottero sul cielo del cortile, a vigilare sul corteggio da Ciampino ai Parioli) in questo novilunio incipiente di giugno, livido, febbricitante, blindato, e poi, così perplessamente fuori parte, come le naiadi nel centrotavola del cenone offerto dal suo ultimo vassallo, il Cavaliere del Maradagàl; è in questa lunga notte, percorso da brividi strani, che mi sovviene dell’anniversario.

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