Rivista

Luigi Abiusi


medeas 3La profondità, la stratificazione di Medeas, tutta una densità, una volumetria delle immagini che tendono a non sciogliere il “problema”, o almeno le colpe, ma a cobilanciarle nella carne della contraddizione, delle inclinazioni e dei comportamenti, sono lo strumento di una riconduzione delle normali dinamiche dell’attualità, del quotidiano – quelle che magari vengono assorbite dalle regole della convivenza, della civiltà – al mito, all’oscuro rigoglio della terra, della natura annunciata già nel buio dei titoli di testa da un lento ed enigmatico scorrere d’acqua, che misura l’aporia del vivere, l’endemica impossibilità di sopravvivere quando intervengono gli elementi, gli agenti grumosi, incontrollabili della tragedia.

Vanna Carlucci


attesadiunestateEssere dentro una stagione che attende la prossima. Così le immagini si susseguono, il prima e il dopo, il presente con il passato tra le ombre di un interno, le ombre come un grumo di silenzio e d’attesa, come l’arrivo dell’onda e la schiuma, il lampo e la bava del ricordo. Santini strappa pezzi di casa, di strada, di schermi e campi per ricomporre un quadro che non finisce mai, perché gli stessi frammenti torneranno ancora con altra gradazione d’intensità come un tempo sempre al presente: e allora si guarderà la strada da percorrere e quella che ci si è lasciati alle spalle, e ogni frammento avrà l’aria di essere sempre sospirato: così Attesa di un’estate (frammenti di vita trascorsa) (2013) diventa il temporale che apre il varco e che cerca una nuova forma, come la macchia di pioggia sul vetro, come le luci dilatate della festa, un passo alla volta verso la nuova stagione, un passo attutito dalla neve che lascia una lesione, un poro dilatato, il tempo.

Diego Mondella


a vida invisivel2«Questo cinema non sta dalla parte dello spettatore.
Lo invita al lavoro più che al piacere, o, per essere più precisi, al piacere del lavoro»
(Alberto Seixas Santos)




Nicola Curzio


altQualche anno fa, Antonio Tabucchi, nel «tentativo dissennato di spiegare a un amico una parola indefinibile», scrisse una lettera destinata a Remo Cesarani: «Ebbene, caro Remo, proverò a cacciare con un retino questa parola beffarda e svolazzante come le farfalle che Nabokov notoriamente acchiappava a Luino, e di spillarla al lemma che le compete» (Tabucchi 2013, p. 56).

Martina Melilli

Aqabat-Jaber  Eyal Sivan

Perché questo è per Eyal Sivan il cinema: politica. O meglio: il mostrare in maniera chiara ed esplicita il proprio punto di vista. Politico. La sua carriera cinematografica prende avvio infatti dalla stesura di una teoria del documentario, di cui il suo primo film, Aquabat Jaber. Passing Through (1987, Grand Prix “Cinéma du Réel” dello stesso anno) nasce come pura esemplificazione. Un film-saggio. “Un progetto estetico-politico”. Così Sivan definisce i suoi film. Non considerandosi colui che svolge una professione, in questo caso quella del regista, ma piuttosto colui che porta avanti una ricerca, estetica e politica, appunto. Di cui il film è solo il contenitore. Un mezzo d’intervento politico atto a stimolare un dibattito.

Giulio Vicinelli


kotoko1Kotoko di Tsukamoto Shin’Ya si caratterizza certamente per la particolare attenzione che il regista ha dedicato alle questioni relative alla forma, che qui viene investita di una portata significazionale di livello primario, talvolta addirittura superiore a quella riconosciuta ai codici attoriali e verbali.
Soprattutto durante i climax emozionali, le scelte stilistiche di Tsukamoto escludono l’opzione mimetica in favore di una poetica della manipolazione espressiva del reale il cui esito di maggior rilievo è certamente quello di creare una forma particolare di soggettiva, che chiameremo soggettiva mentale-percettiva, nella quale lo spettatore, attraverso una serie di alterazioni dei dati audio-visuali, viene indotto a sperimentare condizioni psicologiche affini a quelle esperite dai personaggi.

Michele Sardone


Se il cinema è morto, non resta che inscenarne la ricognizione e l'autopsia. Le immagini sulle quali scorrono i titoli di testa di The Canyons sembrano confermare l’assunto di partenza: sale cinematografiche abbandonate, seggiolini consumati dall’incuria, schermi vuoti e sfondati, relitti di un’apocalisse che non ha risparmiato nulla, neanche l’umano, salvo l’occhio che registra i postumi della catastrofe. Paul Schrader assume il punto di vista del superstite che non può nulla se non chinarsi sul corpo ancora caldo della vittima e cercare tracce che conducano all'assassino, e al movente. Ma l'occhio indagatore non giunge ad alcuna conclusione razionale, anzi, le tracce visibili sono solo apparenze, fatte apposta per cogliere in fallo il raziocinio, frammenti e frame residui di uno specchio immaginale rotto.

Bruno Roberti


film the canyons«Questa è la terra morta
Questa è la terra dei cactus
Qui le immagini di pietra
Sorgono, e qui ricevono
La supplica della mano di un morto
Sotto lo scintillio di una stella che si va spegnendo»
(Thomas Stearns Eliot, The Hollow man)

«Col rifiutarsi di nominare, definire o delimitare il vero Iddio, stava sforzandosi di creare quella che potrebbe chiamarsi la plenitudine del vuoto, dove l’immaginazione di Dio possa mettere radici»
(Henry Miller, Il tempo degli assassini)

Raffaele Cavalluzzi


Cosmopolis5«C’è abbastanza dolore per tutti, adesso» (Cosmopolis)

Rispetto al film Cosmopolis (2012) di David  Cronenberg il fattore cruciale della poetica di Don DeLillo, autore dell’omonimo romanzo (2003) da cui la pellicola è tratta, è dato dalla drammatica percezione del protagonista del racconto, e del testo in generale, della bolla del tempo, che, oggettiva e confermata essenzialmente dalla tecnologia più avanzata, spiazza ogni tradizionale contestualità esistenziale dell’uomo nel passaggio al nuovo millennio.

 

Vincenzo Martino


altAccecati da un mondo fastoso che dista solo pochi chilometri, un gruppo di ragazzi svaligia le abitazioni di alcuni tra i personaggi più famosi della frivola Hollywood.




Francesco Saverio Marzaduri


lintrepidoC’era un giovanotto, molto saggio e gentile. Dicono che vagasse molto, molto lontano, per mare e per terra. Era un po’ triste, la stanchezza negli occhi. Ma era molto saggio... Finché un giorno, quel giorno, la magia valicò la mia strada, e mentre parlavamo di tante cose, di folli e di re, questi mi disse: «La cosa più grande che mai si possa imparare, è solo per amore ed essere amati in cambio».
(Nat “King” Cole, Nature Boy)

Silvia Calderoni


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NoveDicembreDuemilatredici

Soundtrack: Eddie Vedder - Guaranteed

È da quasi un mese che rimando questo scritto. Non per pigrizia o per costipazione del tempo. Ma per un cruccio che non so risolvere. Mi spiego.
Scrivere su una rubrica di teatro.
L’idea iniziale era provare a restituirvi per scritto un’esperienza vissuta questa estate in Romania, al Festival estivo di Rosia Montana, luogo che lega musica, teatro e laboratori ad una lotta nel mezzo delle montagne rumene contro una multinazionale Canadese che vuole riaprire una cava per l’estrazione dell’oro che “ammalerebbe” tutta la valle. (Parole come LOTTA… VALLE… l’analogia è facile…).
Progetto bizzarro il nostro1, sulla carta un workshop teorico e pratico di teatro, nella pratica un viaggio interstellare partito dal fango, partito da una domanda:

IS THIS LAND MINE? (può una domanda far partire una rivolta?)

Gemma Adesso - Matteo Marelli


punzoLa stagione teatrale del Kismet OperA di Bari si è aperta lo scorso 26 ottobre con Hamlice, lo spettacolo scritto e diretto da Armando Punzo e messo in scena dalla Compagnia della Fortezza. Dal 1988, gli attori-detenuti del carcere di Volterra portano “fuori” storie e personaggi per invertire i tempi, rifondare gli spazi e immaginare altri confini. Una vera e propria rivoluzione che attraverso i testi letterari passa per il teatro, sovverte la lingua e le forme, per provare a immaginare possibilità altre di sottrarsi a un ruolo definitivo, scritto per sempre.
Partendo dall’Hamlice, abbiamo discusso con Armando Punzo di queste possibilità, di come i corpi degli attori divengano altro nella contaminazione infinita con il mito.

Gemma Adesso


«Vedere un corpo significa proprio non afferrarlo in una visione: la vita stessa vi si distende, vi si spazia».
(Jacques Derrida)

La rovina si mostra da sempre in atto come forma data e mai pienamente compiuta. Se c’è una connessione tra il cinema e il teatro non è tanto nell’inventare la rappresentazione quanto nell’esorcizzare, attraverso la rappresentazione, l’inesorabile deriva della visione dentro i luoghi di un abbandono che sembrerebbe irreversibile. Se il cinema è la forma più riuscita di “teatro fotografato” perché ha riprodotto infinitamente la disgregazione naturale degli elementi (della finzione)1, il teatro rende impossibile la ripetizione fissa di un crollo a venire, ma ne inscena la caduta nella durata di un’azione finita e mai uguale.

Matteo Marelli


È uno stormire di bambine in tutù a sussurrare all’orecchio la folle intenzione: «Mercuzio non vuole morire!». Nonostante gli scontri e le ferite, riprende fiato si rialza e combatte di nuovo, duellando con chiunque abbia una spada perché forte è il desiderio di rivendicare la sua esistenza, e lui sa bene che il teatro e la poesia lo possono salvare.
L’idea scandalosa di questo spettacolo della Compagnia della Fortezza è che Mercuzio non vuole più essere «un sogno iniziato all’apparire della storia», e si ribella a quel testo che lo costringe, ormai da 400 anni, a morire, troppo presto, ogni sera. Non è più disposto al sacrificio per un dramma che non gli appartiene, non accetta che il suo nome sia sinonimo di tragedia: sì, perché quando Mercuzio esce di scena cominciano le morti di tutti i giovani della «bella Verona», che macchiano di «sangue veronese mani di veronesi».

Luca Pacilio


ritorno a casaAnni Sessanta. Teddy, divenuto professore universitario, torna dall’America, dopo nove anni, nella casa londinese, un universo proletario maschile in cui vivono il padre, due fratelli e lo zio; la madre è morta anni prima. L’uomo arriva di notte, con la moglie, una donna che i familiari non conoscono. Non ha avvertito nessuno.

Matteo Marelli


«Muscoli e nervi sono più sicuri di tutte le preghiere. […]
Ciascuno di noi
tiene nelle sue cinque dita
le cinghie motrici dei mondi!»
(Vladimir Vladimirovič Majakovskij, La nuvola in calzoni)

Interrogate ben bene le proprie vertebre ha deciso di credere solo all’evidenza di ciò che agita le sue midolla, non a ciò che si indirizza alla ragione (cfr. Artaud in Pasi 1989, p. 31). Virgilio Sieni inventa una danza in memoria per commemorare le vittime di piazza Fontana, la strage per antonomasia della storia della Repubblica italiana, quella del 12 dicembre del 1969 alla Banca nazionale dell’agricoltura di Milano, pensandola come un gioco del tatto che infrange il tabù del tocco: «quale gioco un danzatore può proporre nell’incontro con persone che hanno vissuto e resistito agli sconvolgimenti della vita? L’unica risposta che sento, la più vicina al senso di quest’esperienza, è il “toccare con mano”» (Sieni).

Vito Attolini


Su Veit Harlan, uno dei più discussi registi del cinema tedesco, pesa, irredimibile, la “scomunica” cui la sua fede politica, la sua formazione culturale e il film al quale è tristemente legata la sua fama lo “abilitarono”. Eppure, al di là del pur non eccezionale rilievo nel panorama cinematografico europeo, la sua filmografia merita attenzione proprio perché ci restituisce con tratti inconfondibili e nelle sue linee essenziali la fisionomia complessiva del periodo storico in cui si colloca: una filmografia “datata”, ma proprio per questo di indubbio interesse per un’analisi della temperie culturale della Germania nazista. Nell’esecrazione che coinvolge il suo operato, si rischia però di trascurare qualche film che non merita l’oblio.

Luigi Abiusi


altPer me, lo so – lo sapevo quest'estate quando ha cominciato a girare nello spazio di giornate ferme (I Don't Mean To) Wonder, blocco distorto di due tre note mistiche e tragiche, estatica avanguardia lanciata a suggerire le stelle fredde –, Stars Are Our Home dei Black Hearted Brother è uno di quei dischi stupefacenti, attesi per molto tempo; venuto da un altrove sempre in via di facimento/disfacimento fantastico; e dilatato nella sua fibra di sinestesia gialla verde fucsia blu, e fredda, in odore di bruma, ancora più scintillante e sonora se si ha un cappello di lana giallo e blu e qualcuno a fianco con cui affrontare l'enorme spazio stellato, la superficie caveosa dei pianeti, con pozze di vernice fiottante sotto luci e lune.

Gianfranco Costantiello

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Una deflagrazione atomica sul punto di inghiottire una città in lontananza oppure il fuoco sordo e incolore che avvolge lo scorcio di una città in un'alba fumosa. Diverse le prospettive di interpretazione a cui si presta la copertina di Tomorrow’s harvest, ultimo disco dei Boards of Canada. Del resto una plausibile chiave di lettura di questi primi anni di nuovo millennio potrebbe facilmente stare in una dialettica che oscilla fra l’inevitabilità della fine e un ritrovato sentimento di intimità, di condivisione, di sogno.
Diciassette componimenti dal suono decisamente umbratile e asciutto come fomentato da un sentimento dell’irreparabile, scandito probabilmente dalle folate di uno scenario apocalittico di una catastrofe imminente, o di una catastrofe già avvenuta (Fukushima?), il cui lascito resta taciuto, imbavagliato. Tomorrow’s harvest allora sembra sintonizzarsi lungo le frequenze distopiche di un capolavoro del passato: Radioactivity (1975) dei Kraftwerk. D’altronde il duo scozzese lo si può considerare figlioccio della storica formazione di Dusseldorf, che è riuscita egregiamente per prima nell’intento di volgere la musica elettronica verso una forma-canzone rispetto, ad esempio, alle suite intransigenti degli albori stockhauseniani.

Lorenzo Esposito


alt«In televisione non c’erano regole, eravamo degli anarchici, potevamo fare quel che volevamo perché eravamo i primi a sperimentarla, nessuno poteva dirci esattamente cosa e come farlo, perché nessuno l’aveva mai fatta prima. Nel momento in cui ci siamo dedicati al cinema, l’abbiamo fatto con molta irriverenza. Rispettavamo John Ford e i suoi western, ma volevamo fare il nostro film western. E forse questa forza ci veniva proprio dalla televisione, dove nessuno ci impediva nulla. Io ho fatto delle cose incredibili in TV. Per esempio: dovevo girare una scena con un uomo su una sedia a rotelle. Volevo fare un primo piano e montarlo con un’inquadratura in campo lunghissimo con lo sfondo a fuoco. Ora, gli obiettivi di cui disponevamo in televisione non mi permettevano di fare queste cose. Così ho fatto costruire una piccola sedia a rotelle e ci ho messo sopra un nano, ottenendo così l’effetto prospettico desiderato…»
(Arthur Penn)

Luigi Abiusi

Luigi Abiusi

To-The-Wonder-Trailer2Annunciato in uscita per il 23 dicembre 2012, constatata dai distributori l'inconsumabilità di quello che pensavano, forse, potesse essere un prodotto festivo (gli ingredienti sembravano tipici: storia d'amore, attori stagliati nella loro riconoscibile, commercializzabile bellezza, luoghi oleografici, i viaggi - la morte -, eccetera), To the Wonder è stato congelato per mesi, per poi uscire in sala nel calderone incandescente dell'estate, ma insieme, almeno, ad altri film difficilmente piazzabili, di quelli scarni, silenti che fanno sfigurare la bancarella versicolore e gommosa della piazza (ad esempio Holy Motors, La leggenda di Kaspar Hauser, ancora lui; La quinta stagione, ecc.).

Michele Sardone

Michele Sardone

Cinema e televisione sono, da anni, posti l'uno di fronte all'altro come due antagonisti, fino a decretare che, se il cinema dovesse morire (o se è già morto), ad ucciderlo sarebbe stata la televisione. La prima volta che il cinema ha rischiato di morire (o almeno, di perdere la sua natura artistica) è stato per mano dei regimi totalitari, che hanno rappresentato in maniera spettacolare la storia che stavano scrivendo: «le grandi messe in scena politiche, le propagande di Stato divenute quadri viventi, le prime manipolazioni umane di massa» (Daney) superavano il cinema, andando ben al di là dei piccoli orrori cinematografici che si celavano dietro la rappresentazione per immagini. Dietro gli allestimenti spettacolari del potere c'erano i campi di concentramento.

Victor Erice

Victor Erice

kiarostami(Versione Originale)

Nel 1994, una proposta della rivista «Cahiers du cinéma» ‒ scrivere di una pellicola a scelta per un libro che intendeva commemorare il centenario della nascita del cinema ‒ portò per la prima volta Jean-Luc Nancy a riflettere sull’opera di Abbas Kiarostami. Il libro non venne mai pubblicato, ma il testo, dedicato a E la vita continua (Zendegi va digar hich, 1992) ‒ unica pellicola di Kiarostami vista a quei tempi dal filosofo francese ‒, fu divulgato grazie alla rivista «Cinémathèque».

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