C’è una scena in Berlino, Sinfonia di una grande città di Walter Ruttmann (1927) dove una ragazzina, gli occhi color ametista, spaurita e epifanica come il coyote di Collateral di Michael Mann, attraversa, di notte, la strada striata dalla luce dei lampioni e dei cartelloni pubblicitari: un momento prima di sparire si volta verso la macchina da presa (come facevano i borghesi delle vue Lumière, inconsapevoli figuranti e spettatori di cinema che guardavano davanti al vetro dell’obbiettivo, senza saperlo, se stessi). Nei film di questo tipo, il momento epifanico è proprio dato dalla sospensione repentina del montaggio come principio onnicomprensivo di costruzione ritmico-musicale e assimilazione di frammenti di realtà e, per un attimo (come in certe immagini della prima kinopravda di Vertov, altrettanto inesorabilmente ritmica – e «ritmo ritmo ritmo» era la didascalia che Moholy-Nagy inseriva nella sua sceneggiatura per immagini e parole Dinamica di una grande città) abbandonarsi a rievocare il braille aptico della vecchia prosa del cinematografo e dello specchio stendhaliano trascinato lungo il cammino. Non è un caso che proprio in un momento di deriva come questo, dove l’ «intelligenza di una macchina» si opacizza e la narrazione si apre ad un istante di silenzio, la ragazzina con gli occhi di ametista di Ruttmann finisca per ricordare l’Alice di Wenders, altra bambina abbandonata che, in un movimento così simile e così diverso, e preda dell’imperativo di un altro fuoricampo, osserva, dal finestrino di un’auto a nolo, il paesaggio cittadino che scorre davanti a lei cercando di riconoscere la facciata della casa dei nonni.

La sovraimpressione fra i due film non è casuale: Wenders con Alice nelle città (1974) filma la prima «sinfonia di città» del nuovo cinema tedesco, e non poteva non essere lui a farlo, già che fin dal suo primo corto puntava la cinepresa davanti ad angoli vuoti di città (e in un’altra madeleine, parte del film collettaneo Lumière and Company utilizza proprio il polveroso cinematografo dei Fratelli Luce e la loro implacabile unità di spazio-tempo per filmare un pezzo di Berlino sventrata, osservata dai due angeli Damiel e Cassiel). La «Sinfonia di città» è un sottogenere nato nella seconda metà degli anni ‘20 che cerca di restituire, soprattutto attraverso il montaggio, il dinamismo, la musica del grande scenario urbano, mettendo in luce nello stesso tempo il movimento unanime della vita metropolitana e i dettagli che passano inosservati.

Benjamin, in quegli stessi anni, utilizzando anch’egli il principio del montaggio, scriveva i suoi ritratti di città (Cronaca Berlinese è del ‘32), e tre decadi prima, sempre a Berlino, Georg Simmel scriveva La metropoli e la vita dello spirito (che sempre Benjamin citerà nel suo libro sui Passages, altra, se si vuole, sterminata e enciclopedica sinfonia di città dedicata a Parigi). Se aggiungiamo a questi testi i film di città più importanti di area tedesca come, appunto, il Berlin di Ruttmann, People on Sunday (1930) primo tentativo di narrativizzazione del genere – di Ulmer, Wilder etc. – e Berlin Stilleben (1931) di Moholy-Nagy, ecco trovato il terreno comune del film wendersiano, non a caso dedicato a Lotte Eisner, autrice de Lo Schermo Diabolico, il grande libro sul cinema tedesco della prima parte del secolo (lapsus, che lascio così: il film che Wenders dedica alla Eisner è Paris-Texas, di cui parleremo alla fine). Sinfonie di città, com’è noto, in un elenco rapidissimo e assolutamente parziale, sono anche L’uomo con la macchina da presa (1929) di Vertov, A proposito di Nizza (Vigo, 1930), Rien que les heures di Cavalcanti e gli altri film “parigini” come Les Halles di Golitzine e Kaufman (1927) Montparnasse di Deslow (1929) dedicati a un settore della città, Marsiglia Vecchio porto (1929) di Mohly Nagy e Manoel de Oliveira con Douro, Faina Fluvial (1931) oltre ai film di Joris Ivens che zoomavano ancor di più fissando un singolo elemento della vita urbana (un ponte, un giorno di pioggia).

Wenders si relaziona con questi testi paradigmatici attraverso analogie ma soprattutto (com’è ovvio) differenze (che sono ancor più stimolanti delle prime). Analogie: fenomenologia dell’occhio metropolitano; scenario urbano; ruolo della fotografia in relazione al flusso delle immagini (e al fotogramma). Differenze: scarto dalla moltitudine anonima e collettiva a due anime (lo scrittore-fotografo Philip Winter e la piccola Alice), sostituzione della Sinfonia (astratta-mentale) con la Recherche (individuale-passionale) e passaggio da un uso del montaggio ritmico-pervasivo ad uno di tipo animico-differenziale, vincolato ai successivi close-contact operati dai “due esseri” protagonisti.

Philip Winter è l’uomo metropolitano che, simmelianamente, ha già visto tutto, è indifferente agli stimoli e la cui esistenza, priva di legami sentimentali e affettivi significativi o duraturi, è dominata dall’intelletto (facoltà logico combinatoria, superficiale e asettica, che è quella, se vogliamo, che governa il montaggio ritmico dei film della decade degli anni ‘20) e tutto appare, davanti ai suoi occhi affaticati, color grigio (che è la tonalità del film di Wenders). Per questo il viaggio che intraprende in America è innanzitutto un’occasione per stimolare lo sguardo con un “altro” paesaggio caratterizzato soprattutto da luoghi emblematici (distributore di benzina hopperiano nel mezzo del nulla), interni (un motel), cartelloni luminosi lungo la strada (Texaco; Chrisler; Surf City, Auto sales, Shea Stadium) e paesaggi sterminati e deserti.

La parte “americana” del viaggio di Philip si salda allora con un altro testo fondamentale, Americana (1971) di Don DeLillo, romanzo on the road su un cineasta-amateur (che ricorda, naturalmente, Jonas Mekas) dentro i paesaggi sterminati del nord America; anche DeLillo decide di utilizzare un montaggio di frammenti, prediligendo gli iati e concentrandosi sulla successione eterogenea di piani che registrano piccoli eventi marginali (la riflessione di Winter davanti alla televisione, quando dice che tutto ciò che si vede sul piccolo schermo è un annuncio che la società emette – mentre si vedono, senza soluzione di continuità, baluginare il primo piano di un volto in un telefilm, un disastro aereo e la sigla del Late Show – non è forse quello che, sempre DeLillo, chiama «rumore di fondo»?)

In mezzo a questo riverrun di immagini, si inserisce, nel film, l’utilizzo della macchina fotografica, una polaroid che frammenta questa (virtuale) continuità e (reale) condensazione di immagini in attimi congelati e discreti. La protesi meccanica dell’obbiettivo serve innanzitutto come schermo di difesa: quando il suo editore gli chiede perché, invece di scrivere un libro sul paesaggio americano, gli ha portato un cumulo di foto che chiama “cartoline” Winter gli risponde che, quando si attraversa il paesaggio americano, si rimane così colpiti da ciò che si vede che c’è bisogno di una immagine (godardianamente) semplice che faccia, in un certo senso da schermo, permettendo di osservare il paesaggio attraverso la riproduzione della sua autentica apparenza e consentendo di incorporare o accettare nella memoria il volto reale delle cose. Inoltre la foto è utilizzata, a posteriori, come principio organizzatore della narrazione («le fotografie sono parte della storia»). Non è un caso allora che Philip utilizzi una polaroid, dispositivo che introduce, nel clic automatico-tirannico della fotocamera portatile, un delicatissimo principio di differita che fa sorgere un sentimento che si potrebbe definire di appetito per un effetto d’attesa dato dalla comparazione imminente e differita. 

Come rivela alla sua ex-amante il giorno della partenza, Philip, ogni volta che aspetta la “rivelazione” in tempo reale della piccola immagine quadrata, viene colto da una strana inquietudine, causata dal non poter aspettare di comparare quello che lentamente, come in una sovraimpressione, appare sul rettangolo fotosensibile con la realtà. Una volta che l’immagine, letteralmente, esce dalla foschia dell’indecisione per accedere alla nitidezza, Philip si rende conto che la realtà sempre supera l’immagine, e questo aumenta solo la ghiottoneria cannibale che la foto, e l’atto compulsivo di fotografare, recano con sé. 

Ma è davvero così? Il film inizia su una spiaggia deserta, con Philip che, davanti al molo e alla superficie piatta del mare, di un grigio granuloso, scatta una foto: la foto, e il controcampo del mare sono assolutamente identici, solo che nella prima il mare ha smesso di muoversi: fotografare è uccidere con un colpo di luce il vivente. E fotografo è anche l’anonimo operatore che in People on Sunday scatta una serie di foto alle anonime famiglie di impiegati tedeschi accorsi sulla spiaggia: i bagnanti si avvicinano al dispositivo e all’improvviso la continuità del film si arresta mostrando (esibendo) l’ottusità umana di questa marea di piccoli borghesi: il flash restituisce uno stato di cose alienato e di paralisi. Si tratta di una interruzione di tipo assai diverso da altre, paradigmatiche, di quegli stessi anni. Nell’impressionismo francese l’esposizione o messa a nudo del fotogramma (come in Parigi che dorme di Clair), permetteva l’esibizione, deleuzianamente, dell’elemento genetico dell’immagine: il fotogramma non mette fine al movimento, ma è il principio della sua accelerazione e rallentamento, in una vibrazione continua e infinita che si ricompone in ogni istante. In Vertov l’ostensione repentina del fotogramma è un’operazione già brechtiana che riconduce il falso movimento alle sue radici: quando l’immagine catturata dall’operatore si blocca sulla tavola di montaggio è perché tutte le persecuzioni, i movimenti, i punti inediti e pericolosi e più in generale, la realtà osservata con tutto il suo caos multiforme, dimostrano essere il risultato di una continuità artificiosa che il montaggio dissolve; sorgono, allora, immagini-fatto organizzate lasciando libero uno spazio vuoto per l’inclusione di materiale espressivo insperato e l’attivismo, critico, dello spettatore. 

La conversazione di Philip Winter con la sua ex-amante svela anche qualcos’altro: la foto costituirebbe la prova di cui l’uomo ha bisogno per sapere di essere ancora vivo: la piccola immagine rettangolare, in una particolare genealogia dell’immagine fotografica, non sarebbe assimilabile allora né al valore artistico (le foto, per esempio, di Stiegltiz accusate da Moholy-Nagy di «pittoricismo»), né è connessa al referente e alla sua aderenza viscosa, in una cristallizzazione dell’affetto (Barthes e la foto della madre nel giardino d’inverno), né ad un aspetto periferico dell’immagine che spunta all’azzardo, causando un effetto-satori (il punctum, sempre di Barthes) né viene associata ad un contenuto particolare che provoca una specie di improvvisa eiaculazione mentale (il declic di Bataille, indissolubilmente legato ad un elemento violento, vicino al sacrificio cruento o al delitto) e neppure alla fotogenia negativa della foto che, nel Castello di Kafka, la locandiera mostra all’agrimensore, producendo l’ostensione di un elemento occulto che inganna e confonde invece di rivelare qualcosa: la piccola foto polaroid è, in Wenders, la prova a carico che, ricordiamolo, tarda ad apparire, capace di dimostrare che l’uomo “ha visto” ed è capace, ancora, di vedere (cioè di vivere). Se Winter è l’uomo chiuso in uno stato che si autodefinisce e non si questiona, che si affida ad una costellazione di immagini bloccate, sarà Alice, piccola sorellina minore ceduta in prestito, a problematizzare il suo vissuto permettendogli finalmente di muoversi in un territorio inteso come insieme mobile del quale sentirsi parte. Per consentire a quest’uomo solo di aprirsi alla virtualità dell’esistenza, sarà necessario compiere un balzo capace di condurre dalla sinfonia di istanti mobili (che la macchina fotografica, ontologicamente, cattura e fissa), alla recherche, movimento di deriva che sempre, nel fondo, cova una particella di tempo perduto. Ed è per questo che Wenders, invece di produrre una canonica alternanza di momenti paradigmatici del corpo-città (in Berlino di Ruttmann, la città che dorme, si sveglia, pranza, lavora e si getta nella vita notturna, scandita dalla musica minimale e “concreta” di Edmund Meisel, che aveva lavorato con Eisenstein al Potemkin) preferisce, ruizianamente, le “scene miste” dove i personaggi tardano ad agire (se lo fanno), si accumulano eventi svuotati senza punto di decisione e si segue la logica della frammentazione che però assume, dopo il vagabondaggio iniziale senza meta apparente del protagonista maschile, una meta (che, come vedremo, sarà l’homecoming, il ritorno a casa).

Al montaggio “intensivo” è allora necessario sostituirne un altro, che zooma dalla sterminata folla metropolitana e dal taglio dei punti di “presa” di una realtà schizofrenica e collettiva, a frammenti privati della vita di due anime perdute e migranti che si spostano da una città all’altra (dagli Stati Uniti ad Amsterdam e da lì in Germania), giocano insieme (all’impiccato: la parola scelta da Alice è Traum, sogno, che non vale perché non esiste) osservano le foto (una è particolarmente bella perché, come dice la bambina, è vuota), recitano storie (il racconto della buonanotte di Philip parla di una bambina che, dopo essersi perduta nel bosco per aver inseguito qualcosa intravisto nel folto, raggiunge una strada d’asfalto, sale su un camion e raggiunge il mare: davanti al mare si ricorda di sua madre – e con il mare si apriva il film), scherzano dentro una cabina fotografica (come poi i protagonisti di Fino alla fine del mondo). Due anime, queste, “così vicine e così lontane”: Alice durante la ricerca sbadiglia, si annoia, si addormenta, Philip invece vuole a tutti i costi, in un movimento opposto a quello dell’inizio, la trasformazione della foto (la facciata della casa dei nonni) in realtà (invece che la realtà in foto). L’ultima parte del film non mostra che questo: il paesaggio cittadino che si snoda davanti agli occhi sonnolenti della bambina. Ed è a questo punto che il film, proprio nel momento di maggior tangenza, se vogliamo, “archeologica” con il genere precedente (gli angoli urbani, il parco con la gente distesa, la piscina, il bambino che scappa sulla bici, le facciate anonime delle case), svuota tutta la sinfonia di città precedente e sintonizza il cinema tedesco verso il futuro attraverso tre grandi snodi.

In primis il montaggio di angoli urbani che segna non (solo) la fenomenologia ritmica di un corpo-città ma un lento approssimarsi, da parte di entrambi, Alice e Philip, all’Heimat (non parlavamo di ricerca, che è sempre del tempo perduto, di questo sfilacciato e perdurante movimento à rebours verso la casa-madre) che forse è l’unica cifra comune del nuovo cinema tedesco, fra fabbriche, vialoni, un parco e casette con facciata di mattoni e giardino destinate ad essere distrutte, elementi di una mappa “benjaminiana” di città. 

Poi, la musica di Chuck Berry (ma anche quella dei Deep Purple, degli Stones e dei Canned Heat che da un juke-box, con On the road again, suggeriscono la traiettoria dell’intero cinema di Wenders), Chuck che introietta nel corpo del film, come un virus, l’altra musica, quella del rock americano, tipica di tanto cinema wendersiano. La registrazione-documento, sgranatissima, del concerto, il volto meravigliosamente affaticato di Berry in primo piano, sudaticcio mentre maltratta gli standard blues trasformandoli in rock and roll, flaming creature visiva e sonora, permette l’emersione di un’altra forma (vicino a certe cose del New American Cinema) all’interno del film e di un altro sound dentro la colonna sonora, più diretto, estatico, iconoclasta e bruciante e meno legato allo sperimentalismo, ai pattern ripetitivi e all’intellettualismo avant-garde della colonna sonora (è dei Can, il gruppo krautrock fondato da due allievi di Stockhausen, Czukay e Schmidt). 

Infine (“terzo snodo” e sequenza che “chiude” il film), questo ritorno al futuro si consuma attraverso la lettura, in treno, di un articolo di giornale che si chiama Il mondo perduto e parla della morte di John Ford, deceduto proprio durante le riprese del film di Wenders, a Palm Desert: Ford, il regista degli eroi decisi dotati di un vasto raggio d’azione e di un destino potente (o di una potenza di destino), fa capire quale sia il cinema che va messo accanto al’ipotesi costruttiva e documentaria di cui sopra: il cinema hollywoodiano, che sostituisce alle forme miste e al montaggio intensivo e analitico un’arte irruente, costruttrice di mondi che, illuminati da una corrotta luce di splendore, aprono al vasto mondo, ai paesaggi del desiderio e al miraggio di una vita, illusione maggioritaria che Ernst Bloch definirebbe «corposamente colorata» e «loquacemente mossa». 

Breve nota a margine. Un sogno lungo un giorno a Paris, Texas

Alice nelle città è un dittico. Se è vero, in un certo senso, che il film finisce a Palm Desert, nel ranch di John Ford morto, la sua altra metà inizia con un’immagine, bruciata, di deserto, e si intitola iniettando una particella di Europa (Paris) dentro il territorio del cinema (western) americano (Texas) e in questo spazio di attesa si consuma tutta la differenza fra il lado de acá e lado de allá, fra America e Europa. Il film parla di un'altra coppia smarrita (un padre e un figlio) impegnata in una recherche fra frammenti perduti di America. Travis-Harry Dean Stanton è l’uomo che ha attraversato la frontiera, e vederlo perduto, a piedi, nel deserto, con in testa un cappellino rosso, fa la stessa impressione incongrua di Marty McFly quando, in quello straordinario film “teorico” che è Ritorno al Futuro III, “buca” con la DeLorean un manifesto in mezzo al deserto e, raggiunte le 88 miglia orarie, si ritrova inseguito dagli indiani, in pieno selvaggio west. Travis, invece, cammina, (come il protagonista di un altro film di Zemeckis, Forrest Gump: «volare», gli suggerisce il fratello, «è più rapido che camminare» ma più avanti il figlio rettificherà dicendogli che se un padre e suo figlio si separano, e il primo viaggia a velocità della luce, quando, dopo anni, fa ritorno è invecchiato solo di un’ora mentre il bambino è un vecchio), perduto in questa frontiera che, più che fra Messico e Stati Uniti è già fra l’inglobante desertico e il suo respiro e la costellazione di cartelloni pubblicitari della società dei consumi nordamericana, che affiorano ovunque. 

Questa seconda ricerca è infatti saturata da brandelli di paesaggio americano (un silos rosso e bianco, le insegne al neon «TV Hotel Vacancy», e quelle dei rivenditori di auto), che circondano come monoliti la cronaca familiare, archeologia intima di polaroid, filmini in super 8 (che William Hurt registrerà poi per la madre cieca in Fino alla fine del mondo, e che restituiscono negli anni ‘80, quel senso di scorrere del tempo e di malinconia di finestra rigata di pioggia dei Panorami un secolo prima) e album di fotografie (Bressane farà un film solo su questo) dove appare, all’improvviso, la moglie fuggita, Jane-Nastassja Kinski,, immagine-lampo perduta in chissà quale giunta fra un’immagine e l’altra («ma quella non è lei, è solo lei in un film, come in una galassia lontana lontana»).

Paris-Texas culmina non con l’apertura verso un campo e controcampo sfinito attraverso uno spazio-città dietro il vetro di un’auto, ma nello spazio ermeticamente chiuso di un peep show che replica piccoli interieur americani “alla Wesselmann” (una stanza anonima, una cucina) davanti ad uno specchio semiriflettente che mescola arcaico (la visione del kinematoscopio di Edison) e futuro (il porno via internet) con lo strip e l’happening erotico. Jane appare con un pulloverino di cachemire rosso e non può vedere il suo interlocutore, ma solo la propria immagine riflessa e una voce (che, dice, «voglio solo parlare») attraverso il telefono, un incongruo apparecchio rosso, bello come gli oggetti a funzione onirica di Dalí. Lui riassume una vicenda cifrata e anonima come in un racconto di Carver, fino a zoomare nei dettagli, che fanno affiorare, dentro una storia d’amore qualsiasi, le tracce di un’appartenenza comune: ed è allora che Jane si avvicina allo specchio, che diventa finalmente boccaporto e finestra. 

Come in uno specchio, il film rilancia, disattivandolo o procrastinandolo (come una polaroid che lentamente sfuma rivelando solo dopo un po’ un’immagine occulta) il meccanismo di reciprocità del campo e controcampo: da un lato, chiudendolo in uno spazio serrato e insonorizzato che riduce il labirinto di specchi wellesiano-chapliniano nella parete schermata di una lastra di vetro scuro (come quella degli interrogatori, ma da dove, come in un sogno, può fuoriuscire un’immagine di donna o una «donna del ritratto»), dall’altro permette di lavorare sul meccanismo spesso inane-meccanico-automatico del campo e contro campo (quando, a farlo, non sono Rossellini, che in Stromboli aveva utilizzato, come frontiera fra i due amanti e luogo dove, letteralmente, si consuma lo sguardo, non uno specchio, ma una rete di filo spinato e Soderbergh che trasformerà il peep show in una scena di strip-club che si conclude davanti ad un desco semplicissimo, con una colazione imbandita per la persona amata) per sospenderlo e farlo migrare dentro un orizzonte d’attesa. Il risultato è un ammaccato e sfinito trascinamento, che fa dell’inattingibile prossimità fra gli esseri lo spazio per serbare e custodire un tesoro di vita comune. 

Mi sono sempre chiesto dove fosse diretto Travis alla fine del film e mi sono venute alla mente due ipotesi, la prima più filologica e quindi banale, la seconda che tiene in conto dello spazio di fuori campo che ogni film produce e lascia davanti a sé, come un dono per la posterità più grande delle stesse immagini che ha generato, perché è li che il cineasta-poeta fa sedere la bellezza sulle sue ginocchia: luogo dove fermenta un altro film, più segreto e grande, tutto nella mente dello spettatore, che, chiusi gli occhi, può finalmente sognare l’immagine e non più, semplicemente, vederla. 

Potrebbe, da un lato, dirigersi verso, appunto, Paris, Texas, il misero angolo ritratto nella foto sgranata, piccolo pezzo di waste land comprato da Travis perché era il luogo dove la madre gli disse che lei e il padre fecero l’amore per la prima volta, ed è li che, dice, «cominciai ad essere», «il mio punto di partenza»: proprietà risibile che ricorda con precisione il lotto di deserto acquistato dal personaggio cortazariano de Las buenas inversiones, spazio vuoto che occupa con una sedia e un ombrellone per dedicarsi alla lettura lontano dal caos urbano, e dove si scoprirà poi, un pozzo di petrolio. 

La risposta, però, non mi soddisfa del tutto: non si consumano così tanto le suole delle scarpe solo per ritornare, metaforicamente, nel grembo materno; il colore bruciante del film, inoltre, ed è bene non dimenticarlo, nasce dalla cenere in bianco e nero della wendersiana Trilogia della strada, di cui Alice era solo il primo capitolo. Ed è qui che entra in scena la seconda ipotesi. È suggestivo pensare a Travis, l’auto in panne, perduto dentro un altro margine di deserto, non quello californiano al confine col Messico, ma il bordo di sabbia che circonda la vicina Las Vegas, in quel limite estremo e arenoso della città delle finzioni, adatto, come sa bene Ellroy, al seppellimento dei cadaveri, e dove la città gemella, Hollywood, lascia marcire tutti i suoi sogni di Venere Bionda, le sue luci al neon e la sua paccottiglia di impalcature luccicanti. Lì qualcuno, per riparargli l’auto, l’avrebbe trovato, dato che fuori Vegas si trova il garage di sfasciacarrozze di Hank, protagonista di Un sogno lungo un giorno di Coppola (che fu produttore del Wenders “americano”), luogo misto dove, da un lato, il deserto sembra affermare la sua qualità di scena originaria, di potenza naturale che con la sua estensione-secchezza-sterilità circonda come una barriera in espansione il piccolo ruscello di luci della città lontana e dall’altro è il luogo dove la città scarica senza sosta la sua merce scaduta e artificiale dilatando il suo spazio di finzione, la sua vocazione all’effetto speciale e il suo potere di fantasmagoria nel cuore stesso del nulla. 

Alla fine del film di Coppola c’è un travelling impossibile che unisce il piccolo pezzo di strada fiammeggiante di luci blu della avenue e l’inizio di deserto e che si interrompe all’improvviso perché c’è un cartello che lo dice, come in un quadro di Magritte (o l’inizio di Citizen Kane): Dead end. No trespassing mostrando, ironicamente, un paesaggio ameno (il fratello di Travis in Paris Texas non dipingeva cartelli come questo? Piccole Twin Peaks crescono ovunque, costellando gli States profondi). Una scritta simile si trova anche, come racconta Baudrillard in America, alla fine del molo di Santa Monica, nella stessa spiaggia di Inherent Vice di Pynchon. 

È, forse, questo spazio arenoso lambito dall’oceano, il luogo dove Travis ha finalmente trovato la sua Heimat, la sua piccola patria? Lo immagino rallentare e posteggiare finalmente la sua auto vicino al mare, in quel luogo dove la città delle freeways e dell’assenza di centro si scarica di tutta la sua, rutilante, sinfonia minimalista e dove il paradiso del tardo capitalismo iperreale e senza sostanza precipita in un «mondo quasi di piccolo pueblo di pescatori», una seconda Empordà daliniana. La scritta, dicevamo, è un murales che recita Live or Die, tautologia implacabile tatuata giusto sopra il margine estremo dove si smagnetizzano e eclissano tutte le finzioni e i simulacri d’Occidente, aut aut che Travis ha già superato di slancio mentre sta per sedersi, come un Philip Winter finalmente redento, davanti alla spiaggia deserta che dà sull’oceano con, in testa, il suo incongruo cappello rosso. Primo piano. Sorride. Nero.

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