«La vita umana è breve.
Io però vorrei vivere per sempre».
(Ultimo messaggio di Yukio Mishima)

«Nel tentativo di salvarci è andata perduta la verità  
di quello da cui avevamo il diritto di stare al sicuro.
Abbiamo perduto la morte».
(M. Blanchot)

Ci sono due stampe shunga1(più una), della serie Libro illustrato specchio tascabile di Utagawa Toyokuni, che fanno pensare, in un compiacimento insieme morboso e trionfante per le cose segrete del corpo scosso e dell’anima ferita a morte (come la veste dell’Angelo nell’ultimo tomo della sua tetralogia Il Mare della Fertilità) a Yukio Mishima.
La prima immagine, parte sinistra di un dittico di amore e morte che si svolge in un interno ammobiliato con gusto raffinato, fra stoffe e oggetti di grande bellezza (un paravento con un volo di gru; un repossoir ricoperto di lacca nera) mostra una coppia che fa l’amore. Il dettaglio è che la donna, seduta sull’uomo, e mostrando la schiena composta da una sola linea ondulata come una odalisca di Ingres, piange coprendosi il viso con un fazzoletto: è quella componente ardente e triste dell’atto amoroso presente in molte sequenze analoghe di Mishima.

La seconda immagine mostra la coppia in un lago di sangue dopo aver fatto seppuku: la donna in una simmetria fatale si trova in basso mentre l’uomo è riverso sopra di lei con la lunga spada a lacerargli il collo. Della giovane possiamo stavolta vedere il volto, che nella prima immagine era parzialmente coperto, con impresso il sorriso osceno congelato nel rictus ottuso della morte. Il riferimento è, qui, a Patriottismo, storia di amore e morte che Mishima scrisse per il cinema per poi dirigere e interpretare egli stesso, forse pensando anche a queste due magnifiche stampe. La terza immagine mostra un uomo che fa l’amore con lo scheletro di una donna infilando il membro nel vuoto dell’impalcatura delle ossa. In Mishima l’atto sessuale è sempre saturo di morte, come il fodero che si riempie della nuda lama.  

Mishima (1985) di Schrader è tutto così: un film scisso in due “sezioni” come le ante di un paravento o una lettera giapponese, la cui scrittura ideografica procede dall’alto verso il basso. Vertiginosità del basso, fascinazione per la morte: bassofondo dove la costruzione del film, fatalmente, precipita. La parte di sinistra, in questo dittico immaginario, è occupata dall’Arte, dalla ricostruzione, in set astratti e teatrali, di tre opere dello scrittore giapponese, dove centrale é l’ossessione per la bellezza esteriore che culmina prima con il tempio in fiamme (Il Padiglione d’oro), poi con il suicidio degli amanti (La casa di Kyoko), e infine con la morte rituale in una spiaggia al tramonto dopo una azione sovversiva (Cavalli Selvaggi).

La parte di destra di questo dittico pellicolare è invece occupato dalla cronaca, le vicende biografiche dello scrittore giapponese, che Schrader, contraddicendo la sfrenata policromía della parte opposta, riduce ad una gamma di grigi (come le riproduzioni dei classici dell’arte occidentale amati da Mishima) o, nella sequenza che riproduce l’ultimo giorno dello scrittore, in una casta gamma di colori che sembrano rimandare al documento d’epoca.
Fra uno e due, arte e vita, tempo omogeneo e vuoto, “profano” della cronaca e tempo pieno e “sacro” dell’arte, Schrader costruisce una “macchina rituale”.

Il cinesta-teorico sa bene che la semplice  scissione duale non è possibile in una modernità  desacralizzata e povera di quelle che Benjamin chiamava “esperienze della soglia”: si serve quindi di un congegno di regolamentazione che complica la scissione duale arte-vita trasformandola in una struttura complessa, polimorfica e rizomatica. La macchina rituale è il dispositivo che, nell’operazione schraderiana, deve distribuire le aperture e le chiuse fra arte e vita, fra sacro e profano, trasformando la dicotomia in conversazione infinita, e “montare insieme” la divisione trasformandola in cartografia di porte, ponti levatoi, punti di accesso, zone (erogene-endogene) di contatto e sutura. Si tratta di una macchina impersonale e trasparente il cui fine è produrre immagini. Il risultato è la frammentazione infinita e rizomatica dei due concetti di partenza, che, implicati e imbricati in un interscambio constante fino a sfinirsi, diventano simili, alla fine, a un sedimento o a un pulviscolo.

Passa qualcosa di simile a quanto accade nell’opera di un altro grande scrittore tradizionalista come W.B Yeats (che con Mishima - e con il maestro e mentore di lui, Kawabata, che fu anche l’oratore della ceremonia funebre - possiede segrete affinità) quando parla del conflitto fra “Potenza” e “Bellezza”, fra una spada giapponese di Sayo (la stessa che Mishima mostra nel film al generale prima di suicidarsi? Quella dello scrittore era una antica spada del 1620) “specchio immutabile nei secoli e ancora affilata” e il fodero, ricoperto da un velo di seta antica, ricamato a fiori e strappato dall’abito di una magnifica cortigiana, lacero e sbiadito, in una lotta fra Forma (o ricostruzione intellettuale del mondo, a sua volta scissa, in Giappone, fra struttura - keishiki e aspetto – sugata) e Verità (propria di colui che perde la vista per eccesso di vicinanza con un principio superiore e ardente).

Ecco come funziona la macchina rituale: introduce nell’alternanza impeccabile delle serie dicotomiche il grano di sabbia che inceppa, trasformando la chiarezza della trasposizione in qualcosa di simile a un resto sinuoso, che assomiglia a un pezzo di stoffa consunta o a una macchia di sangue rappresa. Si tratta di una specie di blocco repentino delle alternanze, che in giappone si chiama “Omou”, ovvero una specie di continuare a fissitá ostinata dello sguardo e della mente, como quando ci si addolora per qualcuno o qualcosa.

La “parte della vita” è per Mishima e Schrader, essenzialmente il risultato implacabile di una serie di interdetti e proibizioni che regolamentano l’eccesso. Mishima ha sempre opposto  alle miserie della vita, con le sue incongruenze e i suoi “equivoci sconcertanti” la perfezione dell’arte, che invece rappresentava l’unica attività umana capace di raggiungere il fondo delle cose.
L’arte appare in Mishima batallianamente caratterizzata da un duplice impulso: morte e erotismo, purezza e impurezza, passività  e sovranità, forza di coesione che contiene e preserva e forza di dissoluzione che agisce come Parca o Destino: gioco di antitesi che  trova il suo punto di conciliazione o sintesi nell’Uno dell’Assoluto, ovvero la “carta del Joker dell’Imperatore”.

Già, Georges Bataille. Il filosofo del “gioco delle trasposizioni” e del montaggio, crudele che Mishima considerava l’autore occidentale da cui era stato maggiormente influenzato, insieme al Nietzsche apollineo e dionisiaco della Nascita della Tragedia (come accade anche all’Oshima dell’Impero dei Sensi). Montaggio crudele delle immagini e rituale delle trasposizioni che Mishima adoperò lungo tutta la sua traiettoria artistica. Pensiamo al montaggio di immagini della parte iniziale di Confessioni di una Maschera, che Schrader, seguendo la macchina rituale che apre varchi e procede per sovraimpressioni, inserisce nella parte in bianco e nero riservata alla biografia (ma il libro non era in fondo una biografia romanzata dell’autore? E dove inizia, in Mishima, la vita e comincia l’arte?).

L’esistenza, per Mishima è inseparabile dalla contemplazione di, come scrive, “cose tragiche”, come: i pantaloni azzurri e stretti di un giovane “addetto notturno alla raccolta delle immondizie” (montaggio fra organi sessuali, notte e scarto, resto sensuoso); un libro illustrato con storie edificanti, fra cui quella di Giovanna d’Arco (lo scrittore è affascinato da una immagine della giovane morente, che credeva fosse un cavaliere); e poi Cleopatra morsa dai serpenti, Eliogabalo, l’immagine di un cavaliere divorato da un drago dannato al ricominciamento della vita e alla integrità  del corpo sempre successiva, e infine, come in Schrader, il martirio di san Sebastiano di Guido Reni dove il dolore estenuato si mescola, come il cristianesimo al paganesimo, con una “fiamma di piacere melanconico”, in una compresenza di dolore e estasi, bellezza esteriore e intenerimento religioso, erotismo e morte. Senza Dio, cioè senza Assoluto per Mishima infatti non esiste erotismo, perchè l’Assoluto si raggiunge solo atrraverso proibizioni e rimorso. L’Assoluto, per lo scrittore, in una equazione abbastanza semplice, è l’Imperatore, símbolo della Realtà.

La differenza fondamentale con Bataille non è quindi nel montaggio nè nella compresenza di figure oppositive, ma in un altro aspetto, più radicale ancora, quello della conciliazione dialettica degli opposti: il filosofo invece della figura astratta e intellettuale del Potere imperiale pone quella dell’Acephale con il labirinto di viscere aperto all’altezza dello stomaco; alla Tradizione (Mishima era sposato con la figlia di un importante pittore di stile tradizionale) la Distruzione fertile, alla sintesi la sosta nel Negativo, all’Imperatore in trono l’immagine del Colpevole mutilato, regicida affisso a un pezzo di legno: il suppliziato cinese  in estasi, “bello come una vespa”.

Mishima ripenserà al Martirio di Sebastiano una seconda volta (come Bataille ripensò più e più volte, intenerito fino al parossismo, al suo suppliziato cinese). Come mostra Schrader, l’immagine di Guido Reni viene rielaborata in una delle foto in bianco e nero con Mishima protagonista. Se si guarda con attenzione la foto, vediamo che l’originale è riprodotto con scrupolo, ma a trafiggere il corpo dello scrittore martire c´è una freccia in più, proprio all’altezza del ventre: è la parte di carne eletta per il Seppuku, rituale di morte dove l’aspirazione alla purezza si mescola con l’orrore del sangue e il caos è dominato dall’autocontrollo. In un aforisma Mishima scrive: «L’apice della bellezza virile si raggiunge quando si incontra esaltata dall’autocontrollo, ovvero nell’accettazione di un codice di comportamento»: codice che era quello dei samurai, replicati in vitro dalla sua milizia privata chiamata “Scudo”.  

Nella sua ultima intervista (rilasciata a Furubayashi, critico di ispirazione marxista), Mishima rivela che «l’essere umano di oggi può salvarsi solo se recupera la totalità  della vita attraverso atti di questo tipo» (Mishima, Kobayashi, Furubayashi 2015, p. 62 [trad. mia]). È la via della spada e della penna, che “devono convergere” e che costituisce l’ultima sezione del film dove, programmaticamente, vita e arte si mescolano senza poter più distinguere l’uno dal due, nel raggiungimento di una realtà  viva e nuda che funziona come un elettroshock.

Nel film di Schrader vediamo la replica della scena di Patriottismo (il cui titolo più correttamente avrebbe dovuto essere “Lealtà”, come recita il monogramma che orna la parete nuda e che verrà  raddoppiato dalla scrittura di sangue della seconda parte) con la prova della punta retrattile della spada sul ventre che precede quella dalla morte rituale dell’autore; nello spoglio dispaccio di un generale d’armata, i giornalisti troveranno due corpi acefali e il tessuto di viscere sparso a terra dopo il sacrificio.

La sequenza finale del film ci fa venire alla mente Yourcenar, che nella sua biografia romanzata dello scrittore scrive: «Come nel Vangelo secondo Matteo di Pasolini, dove Giuda che corre verso la morte non è più un uomo, ma un ciclone, da questi ultimi momenti della vita di Mishima si sparge l’odore di ozono della energia pura» (Yourcenar 2003, p. 131 [trad. mia]). Odore di ozono, macchia di sangue, pan che nell’accezione di Didi-Huberman fa macchia, saturando la porzione di mondo regolamentata dalle leggi prospettiche.
La macchina rituale, procedendo a scossoni, a balzi, come la scrematrice di Eisenstein, compie il suo lavoro, spargendo immagini come si sparge il latte, o il sangue che «è più dolce del miele», come dice Dalí citato da Bataille in Documents. La dicotomía di partenza fra arte e vita, fra sacro e profano, si annulla nel vortice schiumoso del sacrificio cruento, dove ogni contraddizione si scioglie nella contemplazione.  

Una larga parte del Sutra L’insegnamento di Vimalakirti è dedicata alla meravigliosa descrizione del Buddha Tathagata, colui che «Trascende ogni legame. Egli è fresco e liberato […] egli ha ottenuto la non dualità  di tutti gli esseri e raggiunto l’indifferenziazione di tutte le cose. Dapperutto egli è senza biasimo, senza eccesso, senza corruzione, senza difetto, senza otruzione. Egli è senza concezione e senza immaginazione. Egli è senza attività , senza crescita, senza apparizione, senza produzione e senza non produzione. Egli è senza timore e senza rifugio; senza dolore, senza gioia e senza agitazione. Egli non può essere espresso in alcun linguaggio» (La Rivelazione del Buddha, 2011, p. 530).

Buddha illuminato in un sermone del fuoco sembra l’immagine aurea e divampante fulgore del Padiglione d’Oro. In uno dei momenti più toccanti del libro, in una sovraimpressione che è anche macerazione e consumazione finale di ogni distanza fra oggetto e soggetto, il monaco incendiario si domanda:
«Ero io a possederlo o era lui a possedere me? Non avremmo forse raggiunto un momento di raro equilibrio dove io sarei diventato il Padiglione d’Oro e il Padiglione d’Oro sarebbe diventato me stesso?» (Mishima 2004, p. 157).

Dove inizi tu? E dove finisco io? Era anche la domanda dei due amanti de La Casa di Kyoko, dove l’uno era lo “specchio” dell’altra che formava, montando insieme il corpo nudo del giovane con il suo, una figura multipla di dettagli sensuali; e anche quello di Cavalli selvaggi, dove il giovane rivoltoso si specchia nel tramonto sanguinoso facendo harakiri; e, forse, quella della coppia suicida nel dittico di Toyokuni. E, finalmente, la domanda di Mishima.
Dove inizia l’arte e finisce la vita? O non sono entrambe, per un uomo che volle fare di sè stesso un’opera d’arte, la medesima cosa?


Nota

1. Si tratta di stampe giapponesi di argomento erotico caratterizzate da una sfrenata policromia. Letteralmente, “Immagini della primavera”.


Bibliografia

(2011): L’insegnamento di Vimalakirti, in La Rivelazione del Buddha, vol. II, Mondadori, Milano

Mishima Y. (2004): Il padiglione d’oro, in Romanzi e racconti, vol. I, Mondadori, Milano

Mishima Y. (2004): La casa di Kyoko, in Romanzi e racconti, vol. I, Mondadori, Milano

Mishima Y. (2006): A briglia sciolta, in Romanzi e racconti, vol. II, Mondadori, Milano

Mishima Y. (2012): La decomposizione dell'angelo, Feltrinelli, Milano

Mishima Y. (2013): Confessioni di una Maschera, Feltrinelli, Milano

Mishima Y., Kobayashi H., Furubayashi T. (2015): Ùltimas palabras de Yukio Mishima, Alianza Editorial

Yourcenar M. (2003): Mishima o la visiòn del vacío, Seix barral, Madrid


Filmografia

Mishima: una vita in quattro capitoli (Mishima: A Life in Four Chapters) (Paul Schrader 1985)

Patriottismo (Yûkoku) (Yukio Mishima 1966)