altIvan, il tecnico responsabile della costruzione di un gigantesco grattacielo nella grande periferia londinese, alle otto di sera lascia il cantiere e, in macchina, si dirige non a casa, dove l’attendono euforici i due figli adolescenti e la moglie per il rito familiare di un’importante partita di calcio in TV. Il film, Locke (scritto e diretto da Steven Knight, acuto sceneggiatore tra gli altri di Frears e Cronenberg, al suo secondo lungometraggio presentato fuori concorso a Venezia nel 2013), si svolge interamente nell’ora e mezza di viaggio, e tutto dentro l’auto, tramite i dialoghi telefonici in viva voce tra Ivan e gli altri personaggi del racconto.


Ivan “non ha scelta” per la poderosa colata di cemento che l’attende all’alba dell’indomani: lui, in assoluto il migliore capocantiere che si conosca in Inghilterra, decide di farsi sostituire dal suo meno affidabile assistente irlandese, a cui, nel dargli l’incarico con tutti gli stringenti dettagli operativi, raccomanda, o meglio ordina, perché il suo piano non venga compromesso da decisioni dall’alto, di chiudere nel frattempo ogni contatto telefonico con i dirigenti e gli amministratori della grande compagnia da cui tutti dipendono. Quindi chiama il suo capo, nell’amministrazione, per comunicargli la notizia e riceverne la furiosa decisione – che s’aspetta – del licenziamento in tronco, perché, per il suo incomprensibile atteggiamento, potrebbe essere compromessa, con danni incalcolabili, la più importante colata di cemento prevista per l’edilizia civile in Europa, seconda solo a quella attivata dagli impianti militari nucleari. Lui, dal suo canto, con determinazione sofferta, ma d’acciaio, ha deciso; e si appresta a investire con le motivazioni del suo “impazzito” comportamento la sua stessa famiglia: questa sera non tornerà a casa e non sarà domani in cantiere (per cui ha meticolosamente, da vero “pignolo”, preparato tutto), perché ora è diretto verso una clinica, dove sta per nascere il bimbo concepito nove mesi prima, in una sola notte d’amore passata con una donna non più giovanissima e sola, lontani entrambi da casa, turbati dalla solitudine, dalla fatica e dal freddo, e confortati solo da una buona bevuta di vino. La famiglia, e per essa Katrina, la moglie tanto amata, ne è sconvolta, e nel tempo breve di poche più che concitate telefonate, a Ivan viene sbattuta la porta in faccia: «non tornare, questa non è più la tua casa!».

Ma, se quello commesso fu un riconosciuto sbaglio e rappresentò una caduta nel male, cos’è che lo rende insuperabile da parte del bene giacché ora l’uomo vuole con tutte le sue forze che nasca una nuova vita, e che il neonato abbia il suo nome e non affronti la triste esistenza di “bastardo” (così come avvenne proprio per lui dacché suo padre lo abbandonò), e soprattutto che ponga così un argine alla depressa infelicità di una donna appena conosciuta (la quale, proprio perché infelice aveva ceduto quella oscura notte alla tentazione, per lui quasi un’improvvida distrazione)?

Il suo gesto dagli effetti disastrosi, la liberazione dall’incubo che continua ad ossessionarlo e a prender corpo quasi come un fantasma attraverso il ricordo del padre – depravato e irresponsabile – con cui, nella notte, immagina di interloquire, ma verso il quale continua a non consentire alcun atto di pietà, sono una contraddizione soffocante per chi pensa, come Ivan, che tutto è stato messo a posto secondo la più rigorosa razionalità. L’odio di un “bastardo” si è dispiegato in orgoglio che guarda tutto e tutti dall’alto in basso (come dice la moglie), ma, nel contempo, al termine della corsa, Ivan non può che ricevere risposte aporetiche dalla realtà. Ha imparato ad usare «Fuck-off Chicago» (dure parole di contestazione dello strapotere d’oltreoceano dei padroni di un capitalismo sempre più cieco e disumano), ma ascolta anche, commosso, l’ultimo messaggio di suo figlio Eddie («torna a casa, papà, rivedremo, registrata, la partita che i nostri hanno vinto, e fingeremo di esultare per i goal insieme a te e alla mamma che preparerà le tue birre preferite e cucinerà le tue amate salsicce: ti aspetto!») e, al telefono, dopo un difficile parto cesareo, il vagito del neonato. Ivan è a un bivio, e la strada si biforca drammaticamente per tutta la sua vita: il cordone ombelicale è del resto – emblematizzante – ciò che consente la vita, ma può anche, in minuti decisivi, attorcigliarsi attorno al collo di un bimbo non ancora nato e soffocarlo.

Nonostante l’abitacolo claustrofobico il film di Knight è un perfetto congegno di spettacolo drammatico, con l’interpretazione strepitosa dell’unico attore del cast che appaia sullo schermo ininterrottamente (eccezionale Tom Hardy), tormentato e determinato, per le autostrade della megalopoli inglese, dalle mille diverse reazioni psicologiche del caso; con una macchina da presa che ha la mobilità incisiva e meticolosa di un artistico strumento chirurgico, e con una musica tesa, disperata e mai urlata (Dickon Hinchliffe).