Alessandro Saturno, Piccola nuvola - 2021, acrilico e olio su tela, 30x50cm

Il testo è apparso nel catalogo della mostra monografica “Alessandro Saturno. Forme dell'Assenza”, a cura di Don Gianni Citro ed edito per le Edizioni C.R.E.A. La mostra è in corso fino al 9 settembre nel Palazzo Santa Maria, a Camerota, un borgo medioevale nel cuore del Cilento. Abbiamo pensato di aggiungerlo alla fine di un Dossier su Presenze e Morti che ritornano, come se le opere di Alessandro Saturno formassero gli ultimi frame, in dissolvenza continua, di questa nostra breve “storia di fantasmi per adulti”.


A volte, per cercare di avvicinarci a qualcosa di complesso, è utile cominciare servendosi di un'immagine semplice. A tutti noi sarà capitato di fare una gita in barca in una baia e, durante il tragitto, di sporgerci dal parapetto per scrutare il mare. All'inizio non vediamo altra cosa che il riflesso screziato dell'acqua, le venature verdi, blu scuro, gialle, che attraversano la superficie azzurra dove si deposita anche lo scuro bituminoso delle ombre. Poi, come un'immagine che si definisce nella lontananza, o nel ricordo, ecco apparire il nostro volto. Ma non come lo vediamo in uno specchio (conservando l'accezione "difettosa" della Lettera paolina): al contrario, i suoi contorni sono instabili, i tratti liquidi, i colori diversi, il volume diventa diafana trasparenza.

Se l'acqua è oleosa, il volto si sforma fino a diventare, addirittura, qualcosa di informe (vengono in mente le descrizioni del fiume malato e dei suoi riflessi in Suttree di Cormac McCarty): una rovina di volto. La superficie dell'acqua, dove tutto scorre, è uno dei luoghi dell'instabilità, del transito, del tra le cose, dove le normali coordinate vengono meno, in quello che lo scrittore tradizionalista Yukio Mishima definirebbe “il meraviglioso attimo di tensione dell'acqua agitata che ritorna all'immobilità”. Per questo i pittori ukiyo-e, i grandi ritrattisti del “mondo fluttuante”, non si stancavano di interrogarla e il vecchio Hokusai diceva che prima di morire aveva un solo desiderio: dipingere perfettamente delle alghe che si scorgono attraverso un velo d'acqua. Ma per farlo, sapeva oscuramente, come i savi maestri zen del sumi-e che lo avevano preceduto tre secoli prima, che bisognava diventare alga (viene in mente una frase meravigliosa di Florenskij, autore che incontreremo più avanti: “l'odore di sodio delle alghe testimonia il mare già da lontano”). E, quindi, tentare l'informe,  

Se esiste un purgatorio, non è da ricercare nella sublime geografia dantesca: il purgatorio è sulla terra, in tutte le zone interstiziali, i territori-limite, le zone di confine, le terre desolate, le rovine: forse, anche, negli anfratti di mare dentro le grotte. È lì che vagano le anime purganti.

Lévi-Strauss in Tristi Tropici diceva che nelle società tradizionali erano possibili due relazioni con i morti: quella che li lascia riposare e li lega a noi attraverso omaggio e contratto e quella che invece li mobilita, li assimila e consuma per assicurarsene la potenza. Il primo caso è quello di un culto ancora vivo in Campania, secondo il quale i morti non sarebbero scomparsi, ma continuano a vivere tra noi. E, se blanditi e vezzeggiati, possono interessarsi alla nostra sorte e venire in nostro soccorso. Nel Cimitero delle Fontanelle o nella Chiesa delle Anime del Purgatorio, scopriamo che essi possono vincolarsi a noi secondo la logica dell'omaggio e del contratto: in cambio della cura attraverso il ricordo e la devozione, i morti riconoscenti si occuperanno del  benessere e della felicità dei vivi.

Alcuni di voi diranno che i morti non li abbiamo mai visti. E forse è vero. Ma non è imputabile al fatto che l'occhio che permetteva di vederli e commerciare con loro, nell'epoca dell'ipertrofia della riproducibilità tecnica, si è per sempre chiuso? Benjamin non a caso diceva che avevamo perso l'aura, la manifestazione di una lontananza per quanto vicina possa essere: si riferiva alla capacità cultuale, e quindi fantasmale, delle opere che, da guardate, ci guardano. Ci rivolgono lo sguardo. E sorge quella che Merleau-Ponty chiamava coscienza metafisica, che riscopre nel mondo “una estraneità fondamentale per me e il miracolo della loro comparsa” dove si tratta di prendere coscienza di quel rapporto segreto che fa si che i morti siano ancora vivi tra noi. Essi, vivono.

Chi è capace, allora, di raccogliere non solo lo sguardo ma, con esso, l'eredità del fantasma? Non è rimasto, forse, che l'artista. E, crediamo, un tipo di artista particolare: il pittore. E un particolare tipo di pittore: colui che dipinge su tela, quel reticolato antico che funziona come il retino con la farfalla, che i greci chiamavano psiché, anima, respiro vitale e permette di catturare la più fuggevole fra le forme. L'artista sembra muoversi in mezzo ai due tipi di relazione possibile con il morto-fantasma descritti da Lévi-Strauss, essendo la tela, insieme, lo strumento che lo cattura violentemente, lo assimila, per farlo poi, riposare (c'è un film di Dieterle, Il ritratto di Jeannie, che ci parla esattamente di questa doppia operazione-relazione).

Alessandro Saturno, in questo, è un maestro. Da quindici anni almeno, con una dedizione commovente, si dedica a raccontare quella che Aby Warburg chiamerebbe una “storia di fantasmi per adulti” e, affinando uno strumento insieme di osservazione e ricerca (una specie di analogon teorico-artistico di quello artigianale utilizzato dai cercatori per incontrare pagliuzze d'oro) cerca di visualizzare i fantasmi. Che, e mi viene in mente per la prima volta, nonostante abbia visto e rivisto i suoi quadri, sono, in realtà, anime purganti: “Canterò di quel secondo regno / dove l'umano spirito si purga / e di salire al ciel diventa degno” recita Dante nel primo Canto del Purgatorio.

Dipingerle non è facile. Forse non c'è nulla di più difficile. Bisogna, infatti, imparare a riprodurre l'assenza. E per farlo, è necessario compiere lo stesso tragitto dell'Orfeo di Cocteau: passare oltre lo specchio, in un territorio in rovina, instabile e metamorfico, dove si procede al contrario.

In nessun altro artista è forse meno utile separare i ritratti dai paesaggi. Perché, in Saturno, mostrano la stessa cosa: territori-limite dove, in un movimento di migrazione continua, il volto si sposta e si apre diventando paesaggio, e il paesaggio, condensandosi (i due termini relativi al lavoro onirico non sono casuali), diventa volto. Come il volto che si affaccia dal parapetto della barca incontrando il suo riflesso diventa un tutt'uno con l'acqua che scorre, così fra volto e paesaggio non c'è frontiera o limite, ma una conversazione e una mutazione infinita.

Cominciamo, allora, ad osservarli, questi volti. Alcuni di essi, ce ne accorgiamo subito, sembrano antichi. Cerchiamo di capire perché. Non appena ci avviciniamo a quello che Saturno ha chiamato Disarmare lo sguardo dobbiamo, però, aprire subito una parentesi: l'artista non chiama la figura con un nome proprio (come fanno a Napoli con il teschio che si è deciso di “adottare”) ma con la descrizione di una esperienza interiore.

Disarmare lo sguardo - 2014, acrilico e olio su tela, 35x35cm

Questo innanzitutto perché Saturno sa bene (come lo sapeva Proust) che le superfici e i volumi sono indipendenti dai nomi d'oggetti che la nostra memoria impone loro dopo che li abbiamo riconosciuti. E poi perché, se il volto è un paesaggio, quello che vediamo non è una figura, ma un territorio dove compiere un'esperienza. E dato che si tratta di un luogo che, con un termine forse sbagliato, possiamo chiamare ectoplasmico (dall'etimo “struttura del fuori”) e cultuale (cioè auratico), l'azione non può che riguardare lo sguardo, impegnato in una sfida continua di reversione. Il termine viene dalla  genetica, e significa “mutazione inversa”, o atavismo, cioè la comparsa di un individuo dotato di inaspettate caratteristiche non possedute dagli immediati ascendenti.

Gli ascendenti delle figure di Saturno sono da ricercarsi nel sublime patrimonio della pittura occidentale: le opere di Rothko (il grande biografo del nulla, l'asceta che ha passato la vita a scrutare il punto d'illimite tra mare e cielo); De Stael (l'autore di Porte san porte passa dalla “gabbia” di Ressentiment ai colori degli ultimi paesaggi marini, fra presenza e inverosimiglianza); Cézanne (i suoi paesaggi spogliati e ridotti alle loro masse essenziali, le sue figure ridotte a statue viventi mal squadrate ma depurate da ogni accidente superfluo); Monet (il mondo divenuto uno stagno di ninfee appesantito da riflessi infuocati, luogo dove la materia non smette di distruggersi e crearsi); Boldini (il cinematismo delle sue figure eleganti viste come attraverso un brusco movimento di cinepresa); Courbet (le sue marine oleose e dense, scosse sempre da un brivido di diluvio); Leonardo (i sorrisi enigmatici delle sue figure femminili, idoli eterocliti). La storia della pittura, una volta assimilata, diventa in Saturno storia di fantasmi, e le immagini dei maestri del passato vengono “purgate”, cioè purificate:  dall'ascesi verso il “mistico” e il nulla di pronunciabile (Rothko); dalla tensione verso l'annichilimento (De Stael); dalla struttura permanente (Cézanne); dallo scivolamento dentro un occhio sovrano che rifiuta ogni precondizione del visibile (Monet); dalla sensualità cupa (Courbet); dal sentimento auratico della distanza (Leonardo).

Ma forse, gli artisti più simili a Saturno sono altri. Il primo è l'invenzione di uno scrittore: l'Eltsir di Proust, colui che penetrava alle radici stesse dell'impressione. Ricordiamo un attimo il primo incontro fra il giovane Narratore e il grande artista, che lo riceve nel suo atelier: Eltsir stava finendo di dipingere un sole al tramonto e nello studio ci sono solo quadri di marina. Lì Marcel subisce il fascino della metamorfosi continua del visibile, dove l'impressione si sostituisce alla nozione dell'intelligenza per spingerla lontano attraverso (Proust dice proprio così), il conferimento di un'aura. Ecco ritornare il luccichio benjaminiano (brezza, soffio, alito in greco) che si impadronisce di noi.

Davanti a uno dei “ritratti fantasma” di Saturno viene in mente questa frase sterminatamente malinconica, che segnala lo scacco che si nasconde dietro ogni operazione artistica: “eppure qualche volta avveniva come se un raggio celeste gli cadesse sull'anima cosicché la vedeva davanti a sé, con i lineamenti chiari, come avrebbe voluto fissarla; ma era solo un attimo e non era mai riuscito a tenerla ferma, quell'immagine, dentro di sé”. Sembra Proust, è, invece, padre Florenski, il filosofo fucilato in un gulag e gettato in una fossa comune. Teniamo a mente queste parole mentre osserviamo le opere di Saturno come se fossero disposte una di fianco all'altra, fino a formare, in una giustapposizione liquida, un'iconostasi profana: in entrambi i casi, la raffigurazione non può essere compresa altrimenti se non come prodotta dalla luce. La pittura di Saturno è un cinemascope di corpi luminosi. Osserviamoli. Repose è forse l'unico ritratto somigliante di Albertine, la fanciulla della piccola banda proustiana che il Narratore, geloso, rinchiude in una stanza affinché non fugga via. Una separazione ancora più estrema è suggerita dal poeta Ibn Hazm, quando descrive il divieto da parte dell'amante di vedere l'amata, anche se lei abita nella stessa casa: “così chi sta nel sepolcro è sottratto alla mia vista, pur non essendovi che una pietra a separarci”.

Repose

Repose - 2016, acrilico e olio su tela, 80x80cm

Non resta allora, vista l'impossibilità della visione diretta, che lasciar lavorare il ricordo: Repose è la figura dell'amata che, irrimediabilmente distante e insieme vicinissima, sorge davanti a noi come allucinazione del desiderio. Come se fosse, appunto, morta. Risveglio è una figura che sembra di argilla, il riflesso su uno stagno mosso di una statua di Gemito pregna di una carattere impersonale e generale dove lo spirito minuzioso è sostituito da una specie di primitivismo, di arcaismo: i fantasmi non si somigliano un po' tutti perché la loro individualità indimenticabile è ritornata nel gorgo, del grande ritmo collettivo?

Risveglio - 2017, acrilico e olio su tela, 71x61cm

Immemore è un dolcissimo fantasma di efebo morto, dove osserviamo il piegarsi dell'elemento passivo nell'attivo, che scopre dentro di sé un'attività profonda e dove la passività diventa un istante immortale, il tempo dell'eternità. Grembo, è, invece, una figura accovacciata che scioglie il manierismo della linea in un'eco che si espande come quando, su un specchio d'acqua immoto e trasparente, cade un uccello morto.

Immemore - 2017, acrilico e olio su tela, 40x40cm/Grembo - 2014, acrilico e olio su tela, 91x56cm

Forse è per questo, mi viene in mente adesso, che le figure di Saturno non hanno nome. Sono tutte figure anonime, come lo sono i morti nella grande fossa comune della storia. Essi non parlano. Solo, ci guardano. A tutte queste figure, Saturno ha infatti cancellato gli occhi: in realtà gli occhi sono divenuti cavità simili a pozze, a buchi neri, che alludono ad un altro vedere, che è quello del fantasma. Se il fantasma, dall'abisso della tela, ci guarda, cosa vedono queste cavità spalancate? Vedono, forse, noi vivi, a nostra volta, come se fossimo fantasmi: “Quanto più ci penso, tanto più mi sembra che noi che siamo ancora in vita, assumiamo agli occhi dei morti l'aspetto di esseri irreali e visibili solo in particolari condizioni di luce”, scrive Sabald.

Ma i morti, allora, se Sebald ha ragione, ci vedrebbero forse, alonati da una nebbiolina, mentre formiamo un territorio impalpabile, incorporeo. Curioso: è, questa, la definizione che Virginia Woolf fa dell'amore ne Le onde. I morti  possono vederci, allora, solo quando siamo innamorati? Già: perché solo quando si è innamorati è possibile “disarmare lo sguardo”, colpiti dal più occasionale dei moventi: una ciocca di capelli, uno sguardo che si posa su di noi, una mano che ci sfiora. Allora, “dentro di noi, per alcuni istanti, si squarcia il velo del visibile e attraverso il suo squarcio, ancora percepibile, soffia l'alito di altri luoghi. I due mondi si sciolgono l'uno nell'altro e la nostra vita diventa una corrente continua”. 

Ritorniamo adesso proprio a Disarmare lo sguardo. Figure che sembrano antiche, si diceva. Questo volto sembra avere sul capo un mazzocchio, il copricapo maschile usato dalla borghesia fiorentina, la cui forma geometrica stimola per esempio Paolo Uccello ad una complessa veduta di scorcio. Inoltre si tratta di una figura frontale, com'era tipico per esempio, delle icone sacre. Da un lato il contingente, dall'altro l'eterno. Però qualcosa, in questi volti, sembra pendere dal lato della vertigine dell'icona. Florenskij, in un libro che Saturno conosce benissimo, scrive che le icone sono fatte di luce e riescono a risvegliare una vaga sensazione della realtà dell'altro mondo. Immagini, anch'esse, purgate, purificate, fino a mostrare “l'essere pieno dei sembianti stessi”.

Davanti a queste figure di anime erranti, è impossibile, allora, non pensare ad una vera e propria metafisica in atto, dove si tratta di diventare luce, operazione che i teologi bizantini così descrivevano: “Diventa luce, illuminato in modo ineffabile, glorificato, sembra sempre più povero, intimo, è come uno straniero, Oh meraviglia straordinaria e inesprimibile”. Sono le parole di Simeone il Nuovo Teologo eppure sembrano le sensazioni della signora Ramsay davanti al faro: “Vide nuovamente la luce (…) Guardò la luce immobile, spietata senza rimorso, così simile a lei eppure così poco simile a lei, che faceva di lei quello che voleva. Ma ciononostante pensava guardandola incantata, ipnotizzata, che l'avrebbe riempita di felicità”. E illuminate sono le figure di Saturno, che sembrano emergere da una plaga luminosa, “quando l'idea del diluvio si era seduta”.

Sfogliamo ancora, brevemente, le pagine di Al Faro di Virgina Woolf: ci aiuteranno, forse, a dire qualche altra cosa sulla pittura di Saturno. Il romanzo si sa, gira attorno a Mrs Ramsay, accerchiata dalle varie coscienze monologanti convergenti su di lei e illuminata dalla luce del faro. Ma ad interessarci ancora di più, in queste righe dedicate ad un “artista dell'assenza”, è Lily Briscoe, una pittrice amateur che sta tentando un ritratto della Signora (dopo Eltsir, un'altra artista che appartiene alla letteratura invece che alla storia dell'arte). All'inizio, quando la signora è ancora viva, Lily non riesce ad afferrare l'immagine che osservava da una posizione precisa, nel giardino, attraverso la finestra aperta della casa in riva al mare: eppure si trattava di una delle più pure immagini dell'iconografia occidentale, una Madre con un bambino, “oggetto di universale venerazione”. Ci riuscirà solo anni dopo, posizionandosi nello stesso punto. Il perché è molto semplice: nel frattempo, la magnifica effigiata è morta. È scomparsa. È diventata un fantasma.

Inoltre, dice Virginia Woolf, Lily era riuscita a mantenersi allo stesso livello dell'esperienza. Curioso. Il romanzo, in questa terza parte, si scinde. Da un lato c'è il tentativo di riprodurre un'assenza, di farne un quadro. Dall'altra, la barca con i membri superstiti della famiglia Ramsay (il padre, i due figli) compiono finalmente la loro gita al faro: da un lato una tela, dall'altra, una marina. Entrambe, tela e marina, le avrebbe potute dipingere Saturno. La tela, infatti, “era una macchia confusa. Con improvvisa intensità, come se per un istante lo vedesse con chiarezza, tracciò una linea al centro. Era finito. Era completo. Ho avuto la mia visione”. E la marina? Durante il tragitto verso il faro, torre magica e centro emanatore di luce, si scopre essere un deposito di fantasmi. La piccola barca attraversa infatti il punto esatto dove un'altra barca, in un giorno di mare grosso, è affondata: “tre uomini sono annegati qui dove siamo adesso. Preda della tempesta”. Poi la Woolf aggiunge: “le profondità del mare non sono che acqua”. Ma non è quello che accade nella tela di Saturno Ai margini del mare, dove la marina diventa, vista dai margini, mostra il suo abistto, simile a quelle foto subacquee fatte da un sommozzatore: dei ciottoli, gorghi, e una piccola croce di legno, allusione ad altri morti, quelli inghiottiti, nell'indifferenza, nel Mediterraneo.

Ai margini del mare - 2022, acrilico e olio su tela, 50x35cm

In Are you there, il pittore si rivolge proprio ai fantasmi chiamandoli: “Siete lì?”: in questa terra senza approdi, caratterizzata dalla spaventose pressione elementare di strie poste una sull'altra,  solo un fantasma può incontrare una sponda, un porto sepolto, un ricovero. Si tratta, in ogni caso, di mettere a fuoco qualcosa di Above and Deep, altra marina che mostra il mare divenuto territorio alluvionale, divenuto carne che si solleva lasciando i solchi di una ferita esposta. Another river è, poi, uno spazio anfibio dove ogni differenza fra cielo e mare è bandita e ci inoltriamo in una terra di mezzo  divisa in bande e dove una piccola striscia di colore azzurro sembra uno sbuffo di fumo solidificatosi in segno pittorico: è come se Saturno ci dicesse di stare attenti a trasformare automaticamente la pittura in una figura del mondo, perché la pittura è pittura e basta.

Another river - 2020, acrilico e olio su tela, 61x71cm

In Marea scopriamo dapprima che, come dice Artaud “l'acqua è blu, ma non di un blu d'acqua ma di un blu di pittura liquida rianimata, divenuta acqua naturale, attraente come un elisir di stregoneria”, e poi che fra mare e cielo non esiste la linea dell'orizzonte (che, nietzschianamente, allude al sentimento del limite e dell'illimite) ma solo un percorso di gradazioni successive che esplodono secondo il movimento sovrano dell'estasi del paesaggio e della natura non indifferente; fino alla piccola nuvola, fotogramma che sembra quello con cui si conclude Il disprezzo di Godard, il film dove Fritz Lang sta girando un film sull'Odissea di Omero e all'improvviso, dalla casa di Malaparte a Capri, punta la macchina da presa sul confine fra mare e cielo come aveva Rossellini in Stromboli, Terra di Dio.

Marea - 2021, acrilico e olio su tela, 30x50cm

Eltsir, Lily Briscoe, Saturno, il pittore di icone, il Lang di Godard, sono tutti artisti che hanno “spostato la cortina”. Davanti a territori come quelli che abbiamo intravisto sperimentiamo di nuovo il brivido del Narratore proustiano quando si affaccia all'improvviso dalla finestra dell'albergo di Balbec e, complice la cameriera Francoise che scioglie la cortina che impediva alla luce di entrare, scambia, in una sorta di comunione assoluta e vertiginosa di tutte le cose visibili, e a causa di un “effetto di luce”, un tratto di mare più scuro per una costa lontana, e contempla con gioia una zona azzurra e fluida senza sapere se appartiene al mare o al cielo. Mostrandoci il punto dove tutte le immagini vengono meno e diventano fantasma. Che è, anche, “l'angolo di presa” dal quale Arthur Rimbaud, poeta di sette anni, esclama: “È ritrovata. Che? L'Eternità. È il mare andato via. Col sole". L'eternità, che nelle icone bizantine era rappresentata dall'oro. Chioserebbe Florenskij (ma sembra proprio Rimbaud): “è il cielo che si addensa vicino al sole. Non è l'azzurro. È la luminosità. Il riversarsi della luce nello spazio”.

Luce che, come quella del faro, colpendo gli occhi stupiti, ci permette, finalmente, di guardare i fantasmi. Riapriamo, adesso, questi nostri occhi doloranti. Lo abbiamo finalmente capito. Queste piccole anime vaganti sono ovunque, intorno a noi. Non più assenze, ma presenze benigne e amorevoli fissate per sempre su tela, in un sogno incantevole, fatto di colori tenui.

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