«Vedere un corpo significa proprio non afferrarlo in una visione: la vita stessa vi si distende, vi si spazia».
(Jacques Derrida)

La rovina si mostra da sempre in atto come forma data e mai pienamente compiuta. Se c’è una connessione tra il cinema e il teatro non è tanto nell’inventare la rappresentazione quanto nell’esorcizzare, attraverso la rappresentazione, l’inesorabile deriva della visione dentro i luoghi di un abbandono che sembrerebbe irreversibile. Se il cinema è la forma più riuscita di “teatro fotografato” perché ha riprodotto infinitamente la disgregazione naturale degli elementi (della finzione)1, il teatro rende impossibile la ripetizione fissa di un crollo a venire, ma ne inscena la caduta nella durata di un’azione finita e mai uguale.


Negli spazi che risentono della mancanza di politiche di sostegno – che ne sostengano proprio le fondamenta strutturali –, il dire incespica e l’immagine manifesta la sua autocorrosione mimando l’esaurimento delle potenzialità del canto per estendere questa spettacolare permanente catastrofe e ricominciare di nuovo dai brandelli. Perché, se pure la struttura dovesse crollare, i fantasmi resterebbero a fare rumore come nelle «costruzioni cubiche sul litorale di San Sebastian dove un tempo sorgeva il Gran Kursaal, imponente casinò della belle époque, in seguito ridotto a sala cinematografica – per poi regredire, protendersi sul sé virtuale, su quella stessa infanzia mormorata dal mare» (Abiusi 2011).
Il cambio di forma si dà nella conversione strutturale del cinema in teatro o viceversa, oltre che nella distinzione insita nella materia stessa tra l’azione dei corpi, che divengono immutabili icone cinematografiche, dall’azione sui corpi, che semplicemente divengono, simulacri di una resa al tempo attuale, cioè teatrale. In entrambi i casi ciò che resta è la scomparsa o la permanenza in ricordi che si sfaldano.

Lo sbriciolamento inesorabile dell’impalcatura della visione e la messa in mostra delle meccaniche della finzione2, con il ricorso a tutti gli strumenti che moltiplicano un iperreale non impressionabile e falsamente narratologico, non a caso aprono e chiudono The Canyons di Paul Schrader3 in cui, come scrive Roberti, l’avvenire è «l’atto del rovinare, del precipitare, dello sbriciolarsi come un canyon» (Roberti 2013) e i corpi, inespressive marionette, espongono in sé il meccanismo plastificato, alienato e coerentemente irreale della decadenza. Lo sbandamento randagio di un’altra dichiarazione di abbandono del cinema, è in quell’abbraccio immobile di Stray dogs che ci lascia tutti, residui di una Storia che fagocita, persi nell’ultimo cinema (o nell’ultimo teatro) rimasto al mondo durante il crollo finale; mentre il corpo arde insieme al resto di niente e lampeggiano ricordi che sfaldano, corrosi da ipnotici abbandoni.
Lo slittamento di significato – dal cinema al teatro; dalle strutture ai corpi; dall’insieme luccicante e  spettacolare ai ruderi che segnano la presenza di un tempo irripetibile – è l’inevitabile rischio di una vista in differita (tentativo di recensire un ricordo che appunto si sbriciola) che non vede nulla del mondo, se non la sua possibilità inespressa, vista un tempo e ora scomparsa.

Attraverso tre tragedie andate in scena al Teatro Kismet di Bari (Hamlice di A. Punzo, Lo stupro di Lucrezia di V. Malosti e La Merda di C. Ceresoli) la costruzione e la distruzione del senso procederà, in due tempi e un controtempo, dal cinema al teatro, dalle strutture ai corpi, dallo spettacolo ai ruderi seguendo i perimetri di confine del carcere-casa e del corpo-mondo.

Primo tempo: La prigione

Gli attori della Compagnia della Fortezza non sono i personaggi dell’Amleto né quelli di un ipotetico Paese delle meraviglie carrolliano, la loro condizione di detenuti rappresenta lo stato specifico di una reazione a un sistema in cui si è costretti, una possibilità di liberazione dalla contingenza che delegittima il tempo della vita a favore di un tempo della funzione. Attraverso i classici, essi mettono in scena principalmente quello che non sono: corpo del reato che trasforma sé stesso in una contaminazione sostanziale con la tradizione, il mito, la scrittura e il fuori.
Chi viene da fuori, dal mondo liberato, cade a strapiombo in un sistema capovolto di cui non è padrone; comincia a perdere tutte le sue certezze fino al sospetto che quello a cui assiste non è soltanto uno spettacolo, ma un non-essere fondativo che, non solo destruttura i classici, ma chiede allo spettatore di non essere spettatore. Quella che potrebbe sembrare una richiesta di partecipazione ludica a un’insolita messa in scena diventa una necessaria reazione originaria capace, attraverso un atto liberatorio e si direbbe spontaneo (il lancio delle lettere a fine spettacolo che sovverte la grammatica), di costruire, dopo aver distorto tutte le gabbie conoscitive, nuovi spazi attraverso l’inversione del tempo ordinario (lavoro-ricerca di lavoro/casa-chiesa/ famiglia) in uno straordinario che, mescolando gli elementi del primo, inventa nuove forme di esistenza.
Amleto è Alice, Alice è Amleto. L’attore non è il detenuto, lo spettatore non è l’uomo libero.
Il reato non consiste più nel vendicare la morte del padre, ma nel reiterare la tragedia dell’uguale in cui tutti i ruoli sono rispettati, i personaggi riconoscibili, la catarsi sicura. Quella di Armando Punzo è una precisa strategia etica e politica che abolisce il sistema di giudizio e dimentica la colpa creando un nuovo linguaggio non più comunicativo, ma letterario, di riscrittura della tradizione: invenzione cioè di un tempo non dato.
Fuori dalla Fortezza, il detenuto-attore rende visibile attraverso il suo essere corpo disarticolato tutte le prigioni invisibili che ci abitano e, negando la propria storia, ne vive un’altra nel mondo liberato e capovolto, mescolanza di un passato riscritto e un assurdo probabile: Hamlice è quello spazio possibile ancora da costruire.

Secondo tempo: la casa

Dal fuori al dentro il movimento è un processo di lenta deflagrazione interiore che lascia intatta l’apparenza. Il corpo offeso non mostra i segni della vergogna, si mostra al contrario nella sua intatta nudità al riparo nella casa-nascondiglio, luogo di delitti inscenabili e ricordi indelebili, tempo di una infanzia sottratta (La Merda) o di un futuro che non può darsi (Lo stupro di Lucrezia). Quello che attraverso il corpo si lascia vedere interamente è il nome proprio, il marchio di riconoscibilità esterno, la cosa prima che si offre alla vista dell’altro, anzi, la sola cosa che si dà nella sua interezza di pronuncia.
In suo nome, Lucrezia si espone nella parola soffocando l’atto; il rispetto della complessità della scrittura shakespeariana la  scagiona dal pericolo dell’infamia: se un uomo la uccide un altro la salva dalla vergogna eterna.
La Merda non ha nome, è tutti i nomi di un presente amorfo, di un Paese perduto, della nudità plurale di donne e uomini, precari, disoccupati e lavoratori, veline e manager, malati e sani.
La casa rappresenta lo scavo invisibile in mezzo al quale il corpo nudo si tiene in bilico tra la (sua) storia e la (sua) finzione, schiacciato da rapporti di forza che subisce nell’indistinzione di un buio selvaggio che lo inghiotte. Se da un lato c’è il tentativo di contenere il mondo circostante all’interno (il frigo spalancato e vuoto, lo specchio che deforma i contorni, il trono vacante ne Lo stupro di Lucrezia), dall’altro l’interno bulimicamente rimasticato viene rigettato fuori per annerare lo spazio intorno (ne La Merda).
La Merda di Ceresoli è un grido di mani senza presa e rossetti slabbrati, di cosce grasse e io ipertrofici; il suo gesto (magnifica l’interpretazione di Silvia Gallerano) non è mai spontaneo, ma sempre in caduta al centro di un circo di tigri e pubblico pagante.
Come una cariatide di Rodin, «non più figura eretta che sopporta con levità o fatica il peso di una pietra cui si è adeguata quando questo già si reggeva; ma un nudo femminile inginocchiato, piegato, schiacciato su se stesso e totalmente plasmato dalla mano del peso, il cui carico affonda in tutte le membra come una caduta senza fine» (Rilke 2004, p. 43).
Da una struttura sbilenca, accovacciata su uno sgabello troppo alto, lancia un grido selvaggio e inverosimile mentre la casa (l’Italia stessa) crolla.

Controtempo: il corpo

Il movimento tracciato in due tempi procedeva “dal” carcere (verso un fuori da costruire) “dentro” la casa (luogo di uno scavo interiore non più segreto); il controtempo è quello di un ritorno “al” corpo come spazio di uno spossessamento e di una estensione epidermica del mondo.
Casa-prigione e nessuna delle due a un tempo: i segni dell’abbandono lo svelano come una sala scheletrica in cui sono trascorse immagini. Il corpo vive di ciò che lo circonda aggiungendo sconfinatezza al suo accadere, inafferrabile a una visione sola, il tempo lo costruisce e ne scava i solchi. Corpo del reato in azione corale (Hamlice) o corpo nel teatro – manichino steso al centro della scena (Lo stupro di Lucrezia), nudità sgualcita dagli eventi (La Merda) – è nel disordine dei gesti il significato della sua esistenza, nel tentativo di trasformare ogni visibile in invisibile è l’incessante processo di un’interiorizzazione di mondo.


Note

1. Scrive Balázs  nella sua ricostruzione sulle origini del cinema: «Per quanto non fosse che “teatro fotografato”, cominciò a riprendere qualche scena che sarebbe stato impossibile far vivere tra le quinte o rappresentare nei teatri all’aperto. La natura divenne il palcoscenico del cinema, e lo divenne con una incredibile rapidità. Fu così che sin dagli inizi, l’arte teatrale in senso stretto si arricchì attraverso il teatro fotografato di nuovi elementi spettacolari. Non solo, ma si giovò anche di temi e di azioni che discendevano unicamente dalla nuova possibilità di rappresentare e di organizzare “drammaticamente” gli avvenimenti naturali». (Balázs 2002, p. 13).

2. Nell’ultimo film di Soderbergh, Dietro i candelabri, dichiarazione di una volontà testamentaria che è pura dissipazione organica, le cose cedono a una metafisica putrefazione che si evolve in spettacolo e, dietro la luccicanza opulenta della finzione, manifestano quel ricordo pacificatore che abbaglia.

3. Il film si apre con una panoramica su teatri e cinema abbandonati, consunti dal vuoto che li occupa. Come negli interni domestici dell’ultimo Tsai Ming Liang, Stray dogs, il ricordo basta appena a rianimarne le rovine.


Bibliografia

Balázs B. (2002): Il film, Einaudi, Torino.

Derrida J. (2007): Toccare, Jean-Luc Nancy, Marietti 1820, Genova-Milano.

Rilke R. M. (2004): Rodin, SE, Milano.

Roberti B. (2013): Il sogno del nome, il nome dei sogni, «Filmcritica», 637/638, settembre-ottobre, pp. 294-300.


Filmografia

Dietro i candelabri (Behind the candelabra) (Steven Soderbergh 2013)

La morte rouge (Victor Erice 2006)

Stray dogs (Jiaoyou) (Tsai Ming-liang 2013)

The Canyons (Paul Schrader 2012)


Sitografia

Abiusi L. (2011): La morte rouge, UZAK.it