altNel cinema di Bellocchio la temporalità si contrae, più che nella successione di prima e dopo, nella dialettica ambigua di dentro e fuori, al di qua e al di là di tempi e spazi che ininterrottamente si piegano l’uno sull’altro. Sangue del mio sangue si sviluppa attraverso moltiplicazioni e sdoppiamenti che sfuggono alla definizione di un tempo specifico e di uno spazio preciso: nel paesaggio familiare e perturbante, un passato inesauribile si contorce su l’ipotesi di un futuro che svela tracce d'anteriore, come testimonia, del resto, la severa somiglianza tra Pier Giorgio e Alberto, rispettivamente figlio e fratello, ambedue doppi obliqui, del regista.


Nel film interpretano entrambi Federico Mai (il primo, quando questo si presenta come uomo d'armi, e il secondo nel momento in cui riappare, a distanza di trent'anni, indossando la talare cardinalizia), arrivato nelle prigioni del convento di Bobbio per riscattare la memoria del fratello gemello Fabrizio, sacerdote suicida per un amore senza fortuna. Un ritorno per rimorso sulla scena del delitto che crea cortocircuiti tra autobiografia (Camillo, gemello di Marco, morì per circostanze simili a quelle di Fabrizio) e autocitazioni (Gli occhi, la bocca), dando alla luce immagini speculari che s’incontrano sulle sponde del fiume, in limine di una veduta: il mondo si confonde con Bobbio, Bobbio con la prigione, la prigione col mondo.

Nello spazio concentrazionario e martirizzante, sotto la cui apparenza e buona reputazione si covano inestirpabili nevrosi, un microcosmo grottesco ed esasperato è tenuto in stallo, oggi come ieri, da grinzose marionette del potere, senilmente conservatrici, mosse, quando il film passa al presente, da un misterioso conte (un vampiro?), maiestas indegna nel suo modo di essere, ridicola nelle sue fantasticherie, nei suoi gesti, nel suo corpo, tragicomica nelle sue idiosincrasie, ma subdolamente feroce nella difesa dello status quo; la cui ingerenza si riassume nella massima quieta non movere, in un astuto immobilismo elevato a sistema politico e a criterio culturale. Un paese incapace di mandare definitivamente, radicalmente, affanculo i padri e le madri, come si augurava Ernesto Picciafuoco ne L’ora di religione, che continua ad aver bisogno, pur disprezzandolo, di un padrino, di un protettore, di un patrono, colui che ha tessuto quel garbuglio consociativo di ruberie di cui tutti hanno approfittato e a cui nessuno vuole rinunciare.

Il paradosso basilare del sistema “vampiresco isolazionista” che si fondava sull’invalidità immaginaria e sulla difesa ostinata dell’imperfezione, se in un tempo anteriore era stato garanzia per la serena sopravvivenza di presunti matti, santi e vergini, con l'arrivo dello straniero (falso come tutto il resto) lentamente deflagra. La necessità di aderire alle leggi del vasto mondo mette in crisi un certo senso dell’eterno che era garanzia di una riconosciuta e meritoria non-esistenza. Nel grottesco e pervicace divieto alla moltiplicazione di immagini e informazioni, la comunità si pensava al sicuro dal rischio della tracciabilità, dal rilascio di ricevute, dal resoconto di una mappatura.

Ma l'ombra della caduta incombente diventa a poco a poco sempre più spettrale: la navigazione in rete è la peggiore delle minacce per la conservazione di questa fantasmagorica fortezza proprio in quanto la perfeziona, elevando a potenza la finzione e dotandola di un credito di realtà (“la cazzata di sentirsi liberi e sinceri”).
E l'impalcatura scricchiola a cominciare dai denti.

Bellocchio filma inquieto, con gesto rapsodico, realizza un film libero, vitale, accorato come la musica liquida della colonna sonora: si immerge nell’acqua del tempo, raccontando una storia d’amore che si permuta tra le epoche e gli spazi di Bobbio; che non è solo storia d’amore tra suore, preti e zitelle in preda ad amore folle, ma anche, appunto, amore per la propria terra, quel “sangue del mio sangue”, rifluito nella bellezza femminile, che fulmina alla fine il conte Basta e il cardinale Federico, proprio come accadeva a Davide il protagonista de La visione del sabba travolto dall'inconcepibile che abbaglia.

Tutto il resto sono occhi ciechi e la notte scivola luminosa per liberare fantasmi così come in Buongiorno, notte liberava Aldo Moro dalle strette dei suoi carnefici, come un voler divincolarsi dal sonno profondo (Bella Addormentata) in cui siamo caduti perché, nel cinema di Bellocchio, tutto è eseguito con il tentativo di annunciare il manifestarsi di qualcos’altro che possa cambiare destini, che possa creare altre immagini: in ogni caso si assiste sempre a questo (in)finire nel sogno che è un librarsi altrove, in un al di là che non trova costrizioni, che non impone inquisizioni.


Filmografia delle opere citate di Marco Bellocchio

Buongiorno, notte (2003)

Gli occhi, la bocca (1982)

L’ora di religione (Il sorriso di mia madre) (2002)

La Bella Addormentata (2012)

La visione del sabba (1988)

Sangue del mio sangue (2015)