Mariella Lazzarin

Holy maskMotore. Azione. Potere. Tre definizioni o forse sarebbe più appropriato definirli lemmi che si sedimentano tra le pieghe di Holy Motors: un film che dichiara un’esigenza di accumulo imponente interiorizzando da una parte tutto il cinema precedente e, dall’altra, mostrando il rapporto effettivo e complesso tra l’individuo, la società e gli oggetti che abitano la realtà circostante. «Essere e oggetti sono legati» dice Baudrillard «e gli oggetti assumono in questa collusione una densità, un valore affettivo che si accetta di chiamare presenza» (2003, p. 20). Presenze che nel film di Carax diventano esistenze manifeste, oggetti liberati dalla loro funzione primaria in grado di alimentare il loro metabolismo attraverso una nuova soggettività senza limiti ovviamente inversa e contraria dal funzionamento del Reale.


Sono i soggetti però a cambiare radicalmente sostanza: si pensi alla prima sequenza di Holy Motors in cui Leos Carax interpreta sé stesso, alzandosi dal letto e fumando una sigaretta guardando una Parigi lontana e piena di luce. Il regista propone una demistificazione radicale dell’oggetto-cinema: l’invenzione in grado di costruire una realtà parallela attraverso trucchi – l’arazzo a muro destinato ad aprirsi verso un passaggio segreto – e inganni – la camera da letto è collegata a una sala cinematografica affollata – è destinata a svanire; il soggetto diventa testimone di una realtà che non è più in grado di controllare e, pertanto, l’impressione di verosimiglianza non è più la sola prerogativa di un’autenticità cinematografica attendibile. Leos Carax solca il pavimento di un teatro e, da demagogo, diventa osservatore costretto e paralizzato di uno spettacolo che si svolge davanti ai suoi occhi: non più mondo fantastico incarnato in celluloide, ma realtà pulsante e deforme.

La possibilità di intervenire sul testo, negata e preclusa all’auteur, viene consegnata a Oscar (Denis Lavant), corpo in perpetua trasformazione. La rifigurazione del visibile viene affidata a un personaggio che cambia continuamente sembianze: prima una mendicante, poi uomo pronto alla morte, figura digitale di pura corporeità nell’involucro motion capture e, di nuovo, padre alle prese con l’educazione di una figlia adolescente. Carax ritorna sui suoi passi riprende le fisionomie di Monsieur Merde e le amplia all’estremo: Denis Lavant diventa il detentore delle possibilità straordinarie del mezzo cinematografico capace di creare e ricreare sogni individuali.

Se Baudrillard, ancora, sostiene che la realtà non si mostra più nello specchio bensì solamente nello schermo, Carax a sua volta, evoca il fallimento dell’immagine al cinema, lasciando spazio solo al suo riflesso molesto, alla caduta dei quattro margini dell’inquadratura, alla rinuncia ineluttabile dell’immedesimazione. Cosa rimane della «beauté du geste»? Holy Motors sembra assumere continuamente le sembianze dell’oratoria funebre in grado di ripercorrere i momenti fondamentali della storia del dispositivo cinematografico. Nell’orizzonte dell’evento parcellizzato Carax occupa uno spazio vuoto, perde il potere artificioso del regista ponendosi allo stesso livello dello spettatore, proprio perché il cinema «non ha né oggetto né soggetto, è fatto di materie diversamente formate di date e di velocità molto differenti» (Deleuze – Guttari 2003, p. 35). Pertanto, la costruzione filmica di Holy Motors non procede per mezzo della citazione post-moderna, semmai per linee di articolazione, «segmenti di deterritorializzazione e di destratificazione» (ibidem)  che intensificano il lutto per la morte del cinema rendendolo incandescente. Se in un primo momento la narrazione episodica può sembrare statica e ripetitiva (i nove appuntamenti nella giornata di Monsieur Oscar, il travestimento, la costruzione di una situazione), poi ci si renderà conto che è esclusivamente lo scheletro, la mappa per misurare un territorio cartografando piani di consistenze differenti.

1) Paris s'éveille

Una limousine solca le strade di Parigi, dischiude gli spazi misteriosi degli abissi (le fognature) e dei cieli (La Samaritaine) permettendo a Monsieur Oscar di raggiungere i luoghi dei suoi appuntamenti. Come in Cosmopolis, il microcosmo all’interno dell’auto erige una distanza dal mondo reale assolta dai pasti pronti, da un camino high-tech e dal silenzio eccessivo sfatato dalle catastrofi che colmano l’ordinario. La limo attraversa un reticolato urbano e, simultaneamente, una mappa identificativa che scavalca i confini del tempo: il presente non ha passato né futuro se non nella forma del camuffamento scenico (il sangue che cola, le rughe false su un volto); al contempo, la finitezza dell’uomo ha smesso di essere assioma universale per divenire solamente una eco di un tempo precedente dove esistevano ancora le telecamere ed erano in grado di pesare, di legittimare l’autenticità di un’immagine. L’ambiente dell’auto diventa per Oscar la protesi tecnologica per il suo corpo azzerato e rimosso dalla Storia, detentore di infinite possibilità capaci di conferirgli nuove esistenze. L’inesorabile collasso dell’identità sociale di Eric Packer, sineddoche dello slittamento in una dimensione altra, è parte integrante dell’universo virtuale sovrasensibile di Holy Motors popolato solamente da apparizioni fantasmatiche: è proprio Oscar a ricordare a Michel Piccoli durante il dialogo in auto che «[le telecamere] ora sono diventate più piccole delle nostre teste. Adesso non si vedono proprio. Così a volte anch’io trovo difficile credere a tutto questo». «La realtà virtuale non imita la realtà, la simula generando la sua parvenza» (Žižek 2011, p. 280); denaturalizzata la natura vivente, soppresso il legame col corpo, il percorso della limousine sui viali parigini non può essere nient’altro che l’interfaccia impenetrabile di un videogame misterioso a cui tutti stanno giocando.

2) Les yeux sans visage

… o forse anche un viso senza occhi.
Oscar perde l’individualità per diventare «residuo escrementizio» (ibidem)  non più sostituto virtuale, ma testimone tangibile di un cyberspazio dove il movimento si manifesta per vuoti e fratture: instabilità della macchina (il piccione che si scaglia sull’auto) che testimonia l’imperfezione del meccanismo; discontinuità causate dallo scombussolamento del personaggio che cerca ancora radici nel mondo concreto. La virtualizzazione non prevede memoria, il superuomo iperattivo (e su questo punto, l’interpretazione eccessiva di Lavant si fa magistrale) coincide con l’invalido castrato privo di esperienza e desiderio: il corpo di Oscar si fa portatore di un movimento inarrestabile e impossibile da scomporre che gli preclude la capacità di agire attivamente sulla sua vita. Occhi ciechi a cui il ricordo è negato, occhi bionici in grado di essere scambiati (Oscar chiede a Jean: «sono tuoi gli occhi?»).
Se «soltanto l’immobilità permette un’esistenza visibile e salda» (ivi, p. 322) il corpo di Lavant diventa orrore de-soggettivato, prova evidente di una pura pulsione meccanica che ricerca il passato – la bellezza del gesto –,  e riesce a trovare solo le cose danneggiate che l’hanno popolato (le bambole ammaccate sul pavimento). Oscar è una sostanza vitale in grado di esprimersi solo attraverso il caos del movimento portato all’estremo nell’ordine simbolico mediante il sistema di controllo fotogrammetrico della motion capture.

3) The Big Parade

a) Se, come è stato sostenuto all’inizio, Holy Motors è da considerarsi come molteplicità variabile, sarebbe inutile pensare che Carax abbia fatto del suo universo una struttura, semmai un complesso orizzontale rizomatico, che procede per lacune, in cui ogni linea di fuga viene assorbita e integrata in nuove zone d’interpretazione. Tutti i percorsi messi in forma dal suo cinema trovano nuovo spazio nel suo ultimo film: Oscar si confonde a Monsieur Merde e all’Alex di Les amants du Pont-Neuf di cui ritorna l’atmosfera sognante e favolistica nell’episodio finale con Kylie Minogue; il melodramma si ripresenta, ma non cade nel happy end bensì ancora una volta, nel rimosso di un destino condiviso, in una domanda senza risposta («che cosa eravamo allora?»),  nella tragedia di un corpo che si schianta sul marciapiede; un rimosso depauperato che trova le sue origini dal passato di Pierre di Pola X, impossibile da riportare alla luce perché solamente residuo onirico, porzione morale del senso di colpa borghese.

b) A garantire il significato di Holy Motors vi rimane solamente il potere indistruttibile di ciò che è già morto, del fantasma che riappare sotto forma di riverbero. La rappresentazione cinematografica più che canto del cigno è alito vitale,  sostegno imponente; il cinema, oggetto e cardine del discorso nonché impeto destinato a scomparire, rappresenta il carattere accidentale di un universo in cui la catastrofe è dietro l’angolo e la paranoia si sostituisce al trauma. Intelaiatura che si origina dai vuoti, da corpi privi di organi, dalle lapidi che piangono entità informatiche, Holy Motors scardina il tempo, il soggetto e la presenza per costruire spazialità inaspettate del paradosso che dà al cinema una nuova individuazione, la forma assoluta dell’evento. L’evento anomalo dell’eterno ritorno agisce con il dovere di consegnare le esistenze impoverite a una forma universale creando una regione di continuità che combatte contro la realtà virtuale attraverso la macchina ormai divenuta umana.


Bibliografia

Baudrillard J. (2003): Il sistema degli oggetti, Bompiani, Milano.

Deleuze G. – Guattari F. (2003): Millepiani: capitalismo e schizofrenia, Castelvecchi, Roma.

Žižek S. (2011): Lacrimae rerum: saggi sul cinema e sul cyberspazio, Libri Scheiwiller, Milano.


Filmografia

Cosmopolis (David Cronenberg 2012)

Les amants du Pont-Neuf (Leos Carax 1991)

Les yeux sans visage (Georges Franju 1960)

Paris s'éveille (Olivier Assayas 1991)

Pola X (Leos Carax 1999)

The Big Parade (King Vidor 1925)

Tokyo! (Leos Carax – Michel Gondry – Bong Joon-ho 2008)