Rivista

Gustavo Celedón Bórquez

Trad. di Giovanni Festa

In quest’epoca scioccante nella quale il mondo sembra cadere a pezzi nonostante l'ottimismo di vari intellettuali che credono di essere all'avanguardia di un cambiamento epistemologico, intellettuali che stanno già pensando alle proprie biografie, mi interessa pensare di più a ricomporre una biografia impossibile, una sorta di ironia controspeculativa. Qui, comunque, solo un paio di pagine. Si tratta quasi di enunciare un progetto (che non vuole essere per nessun motivo lungo).

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Ivana Peric M.

(Trad. Giovanni Festa)


«Il futuro dove ci fa piombare il passato che amiamo è l’unico futuro sul quale ha senso puntare,

l’unico futuro dove possiamo proiettarci senza tradirci,

mentre viviamo l’unico tempo che ci è dato vivere con il corpo, la mente e tutto il resto: il presente».

(Jonny Costantino)




A causa dell'urgenza di soddisfare necessità ordinarie (dar da mangiare ai figli o pagare l'affitto), ed esigenze creative (realizzare esperimenti visuali o scrivere sull'arte della visione), Stan Brakhage è costretto, tra il 1969 e il 1981, a tenere un corso di storia del cinema ed estetica presso l'Art Institute di Chicago. Come per ogni cineasta americano che pretendesse di sfidare, anche solo un poco, l'industria, quello che all'inizio era un modo sicuro per resistere alla precarietà di tutto ciò che è marginale, diventa occasione propizia per la sperimentazione interna a quel territorio aperto che è il cinema.

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Alessandro Focareta


«La vita non è un gioco, amico. La vita è l’arte dell’incontro».

(Vinicious de Moraes, Sergio Bardotti, Samba delle benedizioni)



C’è una scena nel documentario La vita è un raccolto (Les Glaneurs et la glaneuse, 2001)) dove Agnès Varda attraversa un campo coltivato e raccoglie delle patate a forma di cuore. Esclusi dagli standard delle leggi di mercato, quei tuberi deformi recuperano una dignità grazie allo sguardo della regista che li converte in metafora di una umanità sopravvissuta a un capitalismo spietato e ossessionato dalle forme “lisce e pulite” (1). Qualche anno più tardi le patate-cuore abiteranno il mondo utopico di Patatutopia da cui prende il titolo la video  –  installazione presentata alla Biennale di Venezia del 2003. L’opera concentra su tre canali di grandi dimensioni le immagini di «patate abbandonate, raggrinzite e germogliate di nuovo».

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Alessandra Merlo

A sinistra della foto rifilata con le forbici e ormai un po’ ingiallita, un uomo si concentra nell’azione di prendere la mira (in realtà già di sparare): chino su sé stesso, il corpo e le mani che abbracciano il fucile, l’occhio sinistro chiuso, la bocca tesa nello sforzo (foto nº1a). Non è un cacciatore, né un soldato e neppure un sicario. È un uomo del dopoguerra (sul retro leggiamo: Milano, 24-2-1948; foto nº1b) avvolto in un cappotto un po’ grande, i capelli ben pettinati con la riga di lato, una sciarpa bianca che spunta dal colletto.

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Rodrigo Sebastián

(Trad. Giovanni Festa)

La pittrice Celia Paul ha scritto che «nessun oggetto posto al centro di una stanza o di una galleria, per quanto potente, può catturare l'attenzione con la stessa intensità di un quadro appeso al muro» (1). Le sue parole si riferiscono a uno spazio espositivo d'arte e a oggetti artistici o opere d'arte. Adesso consideriamo le circostanze suggerite dalla scenografia di Laura (Otto Preminger, 1944): in una stanza presieduta da un ritratto, un soggetto/oggetto di desiderio può certamente catturare lo sguardo con maggior forza della pittura.

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Eduardo A. Russo

(Trad. Giovanni Festa)

La figura di Helen Keller (1880-1968), scrittrice, oratrice e attivista che seppe svolgere un'intensa vita pubblica nonostante fosse sorda, cieca e muta dalla primissima infanzia, ha attraversato le generazioni come un caso eccezionale. Fin da piccola ha vissuto le traversie di una vita mediatica. La stampa e l'industria editoriale, poi il cinema, la radio e le presentazioni pubbliche furono incessanti durante una lunga vita divenuta un esempio di superamento di una situazione che sembrava senza via d'uscita. Per più di un secolo il cinema ha illustrato questa presenza attraverso il documento audiovisivo e di finzione.

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Marika Consoli

«Il linguaggio è la casa dell’essere. Nella sua dimora abita l’uomo. I pensatori e i poeti sono i custodi di questa dimora. Il loro vegliare è il portare a compimento la manifestatività dell’essere; essi, infatti, mediante il loro dire, la conducono al linguaggio e nel linguaggio la custodiscono» (M. Heidegger)

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Luigi Abiusi

Anche solo soffermandosi su due tra i suoi ultimi film, Bagnoli Jungle e Il buco in testa (Achille Tarallo è una cosa a parte, eppure, a suo modo, parte di questa cosa) sul loro precipitato estetico – una densità dell'immagine, proprio dell'aria che vi si respira; una tridimensionalità sfessata eppure renitente: brulicame di ioni, di nuvolaglie, cieli slavati, a cavallo di Rossellini e Pasolini; epifanie o vere e proprie ierofanie per quanto larvate, pagane – ci si chiede come mai il cinema di Antonio Capuano sia rimasto ai margini dell'apparato cinematografico italiano; per nulla distribuito, o distribuito male, quasi a malincuore (e non se ne capisce il motivo), se è vero che l'ultimo film apparso in sala, in più di una copia, fu L'amore buio nel 2010.

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Luigi Abiusi

Quando arriva il momento del numero autunnale - dopo le scorribande estive nei festival: bellissimo Locarno, tra l'altro senza l'assillo delle prenotazioni; affannosa Venezia da cui sono tornato spossato mentalmente e frustrato a furia di prenotare per proiezioni che spesso risultavano disertate (sic.): urge di ripensare a questo meccanismo (magari tornando al passato); ne va della sopravvivenza della Mostra - mi prende la solita malinconia, nel presagio delle immancabili retoriche foglie a crepitare e a ingiallire il tardo pomeriggio tra i tetti, e delle castagne la domenica a pranzo dai parenti. Ecco, dopo le scorribande, al primo soffio di vento, un istinto al ripiegamento, alla dimensione domestica: come la volontà di un appassimento mentre la congerie di cose continua «a essere la stessa, stupefacente e tetra» (Huysmans).

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Marika Consoli

«La Nature est un temple où de vivants piliers
Laissent parfois sortir de confuses paroles;
L'homme y passe à travers des forêts de symboles
Qui l'observent avec des regards familiers.

Comme de longs échos qui de loin se confondent
Dans une ténébreuse et profonde unité,
Vaste comme la nuit et comme la clarté,
Les parfums, les couleurs et les sons se répondent.

II est des parfums frais comme des chairs d'enfants,
Doux comme les hautbois, verts comme les prairies,
— Et d'autres, corrompus, riches et triomphants,

Ayant l'expansion des choses infinies,
Comme l'ambre, le musc, le benjoin et l'encens,
Qui chantent les transports de l'esprit et des sens».

(C. Baudelaire, Correspondances)


«Dall’altra parte delle acque scure», stando all’epilogo del precedente film di Hintermann su Terrence Malick, Rosy- Fingered Dawn, c’è tutta una teoresi sulla materia cinematografica, sul suo portato di luce, di ombre attraversate dalla luce: rimandare al doppio aurorale, alla sintesi, in un momento, del dì nella notte, si connota oggi, pensando al più recente The Book of Vision di cui lo stesso Malick è produttore, in un periodo storico quanto mai determinato dal criterio dell’assolutizzazione dei punti di vista (dell’intransigenza del proprio modo di vedere le cose senza apertura alcuna al confronto), si caratterizza proprio come idea creante, spazio cinetico, estetico, di attuazione di un progetto, che è prospettiva, visione, rêverie di un mondo possibile. Così il dualismo tra orizzonte del «visibile» e del «visto» (Roberto De Gaetano, Il visibile cinematografico) è trasposto da Hintermann dal campo più propriamente percettivo a quello teorico, filosofico, toccando per certi versi degli aspetti focali, attuali, sui quali si ritiene debba concentrarsi l’interesse della critica.

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Luigi Abiusi

*Una prima versione di questo articolo è apparso su «Il Manifesto» del 15 settembre 2022.

Cosa ci lascia Jean Luc Godard? Quale eredità tratta direttamente dal bacino straripante e straziante del Novecento? Tra le tante cose, io direi la consapevolezza che non si possa fare cinema se non attingendo al cinema stesso – e assecondando la natura cinetica, cinematografica del mondo –, alla congerie di linguaggi che nel cinema s'intrecciano, si scontrano, si contrappuntano per alludere, attraverso questa materia immaginale spuria, all'esistenza, a stadi di esistenza, gradi di segnificato sia pure fugace. È proprio la neutralizzazione del significato, del significato univoco in favore della coesistenza di senso, di sensi di marcia dei segni, il fulcro di questo cinema, di questa filosofia.

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Giovanni Festa

L’altra notte (mi verrebbe da aggiungere, automaticamente, la data, zelo inevitabile in un testo sulla memoria e la sua scrittura, ma non la ricordo), quasi in dormiveglia, cercando di capire come iniziare queste riflessioni, mi è venuto in mente all’improvviso William Hurt-Sam Farber quando, in Fino alla fine del mondo (1991) di Wim Wenders, registra ricordi per la madre cieca Jeanne Moreau-Edith. Registra immagini in soggettiva. Cioè, al cinema, in prima persona.

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Rodrigo Sebastián

(Traduzione di Giovanni Festa)

Nel 2009, dopo una lunga carriera come regista, Alain Cavalier ha presentato uno strano prodotto audiovisivo, vicino – per il suo stile minore, l'enunciazione estremamente personale e ciò che registra –  al diario e al saggio. Irène appartiene in questo senso ad un certo spirito d'epoca, che si definisce, a partire dal passaggio del secolo, per un rinnovato e crescente interesse per forme intergeneriche simili, realizzabili grazie alla tecnologia video e alle sue caratteristiche, come la rapidità tecnica, la riduzione dei costi economici durante la registrazione e la modifica di suoni e immagini in movimento.

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Domenico Saracino

«Credo di non fare niente di male annotando qui, di giorno in giorno, con estrema franchezza, gli umilissimi, insulsi segreti di una vita peraltro priva di mistero». Scrive così il prete protagonista di Diario di un parroco di campagna di Georges Bernanos, nella traduzione di Stefania Ricciardi per i tascabili Bompiani. E così, con queste esatte parole, vergate su un quaderno e inquadrate con uno zoom-in subito dopo i titoli di testa, ma allo stesso tempo anche pronunciate dalla voce over del parroco di Ambricourt, comincia il film di Robert Bresson che ne è la trasposizione cinematografica.

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Alessandro Cappabianca

Ero in debito col Martin Eden di Pietro Marcello, che altrove definii uno splendido mezzo film, avanzando qualche riserva sulla seconda parte (pur ricca di cose interessanti). Nel rivederlo, faccio ammenda.

Giovanni Festa

È più lenta la vita o la sua scrittura? Ma non si potrebbe dire anche il contrario? È più rapida la vita o la sua scrittura? La seconda, almeno, scorre per restare. La scrittura come carta moschicida sulla quale lasciare aderire la vita.

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Marika Consoli

«[…] Girati, e non importa quanto lontano andrai, tornerò qui […]»

Amir Eid, Cairokee, Ya Abyad Ya Eswed

La tensione alla conoscenza che il processo interno alla memoria genera, inserendosi in quella che si potrebbe definire un’ontogenesi dell’immagine – e da lì diventa traccia, principio: ἀρχή, fondamento di tutte le cose – percorre tutta la poliedrica produzione di Mario Martone da molto tempo, quando già opere teatrali come I Persiani di Eschilo, rappresentata al Teatro Greco di Siracusa con musiche di Franco Battiato, erano in qualche modo il segno di una ricerca che si sarebbe fatta via via più evidente; che già allora conduceva uno studio finalizzato a restituire la forma originaria dell’oggetto rappresentato attraverso la distinzione dei tre cori, innestati sui tre pilastri espressivi del «gesto», della «parola» e della «musica» (come si evince da un’intervista del 10 aprile 1990 su Il Mattino), coerentemente con l’intento etnografico di acquisire il quadro di un popolo, per mezzo dell’arte; e che ora, con Nostalgia, unendo gli estremi di quella triade antropologica che è linguaggio, storia, dimora, contraddistingue il perpetuarsi di un ritorno, del suo dolore.

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Luigi Abiusi

Era molto tempo che, evidentemente a causa delle restrizioni e contenzioni, non uscivano tanti film interessanti uno dopo l'altro o uno insieme all'altro. Il che è una fortuna, lo sarebbe anche a prescindere dalla qualità dei film, perché significa comunque tornare in quei santuari che sono le sale cinematografiche, il cui decor vellutato, buio, con il quadro che fa lampeggiare in ogni momento fantasmi forforici, non è qualcosa di passivo, un contenitore, ma rientra nel film, lo penetra, condiziona la visione, le dà spessore, suggestione: sono le forme, le condizioni di luce (penombre) di un luogo, le tende, il silenzio denso che interagiscono con le immagini sullo schermo, con i luoghi, gli spazi dentro lo schermo.

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Eduardo A. Russo

Buenos Aires a partire dal cinema. Visioni, derive e agguati

(Traduzione di Giovanni Festa)

«Non ci siano dubbi: filmare le città scopre il loro mistero»

(J.-L. Comolli La città filmata)

 

Filmare una città impone una doppia dinamica. L'esaltazione del visibile, che organizza la città come spettacolo e avventura conoscitiva: il cinema dispone le sue cartografie di meraviglia e desiderio, esplora spazi abitabili e percorribili, registra il movimento delle folle e le mutevoli relazioni tra pubblico e privato, confronta i dissimili tempi di riposo e di accelerazione. Fornisce così nuovi punti di partenza per il cinema del reale e nuove piattaforme per le più diverse possibilità immaginarie che si aprono in quegli spazi, attraverso quella danza di corpi a velocità multipla, di luci e ombre che interagiscono sullo schermo. E queste stesse ombre aprono il passo sia alle luci della città sia al lato oscuro della vita urbana, che il cinema ha messo a fuoco con altrettanta cura, perché non è solo questione di rivelazione. Ciò che viene mostrato e ciò che viene narrato, nel gioco del campo e del fuori campo, rivela, e nello stesso tempo sostiene e alimenta, nel cinema un indissimulabile resto d’ombra, molto più intensa di quella proiettata dai suoi edifici alla luce del giorno o del buio che popola le sue notti. Ciò che il cinema rivela quando filma la città è, come afferma Comolli nell’epigrafe di questo scritto, né più né meno che il suo mistero.

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Alejandra Bottinelli Wolleter

La città furiosa degli Ultimi Giorni

(Traduzione di Giovanni Festa)

«I grandi viali si fanno strada e non smettono di venire»

Nicola Pino (1)

Denominare escatologicamente una città, come se fosse una città nei suoi ultimi giorni, alla quale è stata rivelata la fine dei tempi; o che, appesa a un filo, si avvicina al precipizio e si equilibra nella sua stessa caducità, su un asse debole; ma, anche, una città che ha appena subito un cataclisma e sta definendo, a tentoni, cosa ne sarà di lei in questo tempo post-apocalittico. Ecco di cosa parla questo testo. Gli Ultimi Giorni vogliono qui denominare quell’ambiguo statuto, quel momento critico tra la profezia – che alcuni, con entusiasmo mistagogico (2), si affrettano a marcare a fuoco sul proprio corpo: «sarai punita» – e il tempo post, quando la rivelazione è già avvenuta. Vale la pena notare che questi Ultimi Giorni non segnano solo una città, ma si riferiscono all’epoca intera in cui si inscrive la sua contemporaneità, perché sono gli ultimi (ultimi e recentemente giunti) giorni non solo di Santiago del Cile, ma di un mondo che cade e nel quale oscilliamo tutti (questa e le altre città) in equilibrio instabile, su basi logore, che non bastano più. Perché le nostre città invecchiano e non invecchiano bene; le finzioni ultramoderne sono diventate la loro versione peggiore, scenari altisonanti del consumo che alimentano povertà e umiliazione.

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Rodrigo Sebastián

Immaginario minimo della città trascritta, allucinata, politicizzata

(Traduzione di Giovanni Festa)

Questo testo è stato scritto lontano da La Plata, senza poter disporre di una parte fondamentale dell'archivio esistente sugli argomenti trattati. Le seguenti note preliminari sono rivolte ad alcune opere di grande rilevanza da/su questa città di formazione. Per vari motivi, altre opere di pari interesse non verranno approfondite. In fondo si tratta di uno scritto che mescola il gusto personale con l'avvio di un'indagine storica. Il suo principio costruttivo si ispira vagamente a una frase dello storico Carlo Ginzburg: «L'artificio, che si concentra su certi elementi e non su altri, permette di cogliere la ricchezza della realtà» (Serna & Pons, 2019, p.100 ). Tuttavia, il saggio, in procinto di disintegrarsi, sembra articolare insieme una serie incostante di analisi e immagini; come scrive Jean-Luc Nancy (2013, p. 130):

 

Città tutta istantanea

senza visione panoramica

senza paesaggio, senza geografia

istanti bloccati

luoghi spalmati

articolazioni incerte

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Marika Consoli

«Dentro il crepuscolo d’oro la bruna terra celando
Come una melodia:
D’ignota scena fanciulla sola
Come una melodia
Blu, su la riva dei colli ancora tremare una viola…
Illanguidiva la sera celeste sul mare:
Pure i dorati silenzii ad ora ad ora dell’ale
Varcaron lentamente in un azzurreggiare:…
Lontani tinti dei varii colori
Dai più lontani silenzii
Ne la celeste sera varcaron gli uccelli d’oro: la nave
Già cieca varcando battendo la tenebra
Coi nostri naufraghi cuori
Battendo la tenebra l’ale celeste sul mare».

 (D. Campana)

Si vedeva una barca. In fondo era un rosso-blu che si fondeva nell’acqua, scene di Martin Eden tra gli occhi e le labbra, come un sipario di luce capovolta. Arrivava il Tempo lungo dell’Immagine, di deleuziana memoria, a “memoria” del ricordo, dello spettro del ricordo: cartina al tornasole di quello che resta, ancora; dinamica dell’iride che si svuota, si slabbra a (non) contenere quel tramonto, la sua fuga verso il fuoricampo, verso partenze che poi sono sempre stati ritorni: lì dove tutto sembra avere inizio, dove si attende che qualcuno parta, o arrivi. Nel mezzo di una pandemia globale fatta di virus e di armi, mentre arrivano da qualche parte, da terre violentate dall’altro lato di quel mare immagini vere di vite divelte, distrutte, – e mi domando a che valga questa resistenza di carta e di inchiostro, il virtuale di questo tentativo che faccio di scrivere di cinema, di scrivere, nonostante il sangue che si sparge – la sovrimpressione di quel tramonto d’acqua mi porta a Valerio Mieli, a quel suo film che sarebbe disperato se non fosse per il ritrovarsi, “alla fine”, dei due amanti distanti; ai bagagli di Camilla, avvolta nella sciarpa colorata a righe, prima di prendere il vaporetto per Venezia; ai riflessi in basso, nello specchio ridondante degli occhi.

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Domenico Saracino

Paterson, New Jersey. Le vecchie filande in mattoni rossi di Paterson; la Union Works, tra Spruce Street e Market Street, di Paterson; le Grandi Cascate del fiume Passaic di Paterson; il deposito degli autobus di Paterson; gli incroci delle strade di Paterson; Paterson di Paterson.

Ci aiuta, l’epifora, che potrebbe essere anafora o simploche, poco importa, a restituire in forma scritta quello che Jarmusch fa con l’audiovisivo in Paterson: litaniare la città. Evocare con la litania della parola (o, in questo caso, del visivo) con la ripetizione e l’evocazione diretta, disintermediata, la materia dietro lo spirito, l’immagine dietro l’idea, il referente oltre il segno, la città dietro il panorama. La Paterson di Jarmusch è l’opposto della Tamara di Calvino: non è qualcosa che resta sepolta sotto un “involucro di segni”, da cui uscire senza averla conosciuta. Non esiste in funzione di, nella vaga sembianza di un’altra qualunque città. É fatta di Paterson stessa.

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Giovanni Festa

Per parlare di una città il semplice sorvolo non è un’attività dello sguardo sufficiente. Certo, possiede il prestigio quasi numinoso della weltlandschaft, che i grandi paesaggisti nordici rivelarono sollevando lo sguardo e il corpo dell’uomo occidentale verso regioni inedite, ampliando nello stesso tempo la sua capacità di sintesi e sfidando le leggi, svigorite e centripete, del regime prospettico; inoltre, non possiede, questo gesto che gode nell’abbracciare tutto, l’entusiasmo del bambino che, durante il primo viaggio in aereo, fissa a bocca aperta la città distesa sotto di lui al di là dei residui onirici della cortina sfilacciata delle nubi? E «poeta di sette anni» non era forse Nadar, che, stanco di stropicciarsi gli occhi per avere visioni, e dotato di un avveniristico apparecchio dell’era della riproducibilità tecnica, a bordo del suo pallone Le Geant fotografò per la prima volta la città dall’alto, ispirando un altro grande autore-bambino, Jules Verne, a compiere i suoi giri del mondo in ottanta giorni?

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