Cronofobia è la storia di Anna e Michael, i due protagonisti dalla temporalità sospesa, ai quali è dato incontrarsi in una Svizzera cinerea, dove la luce appare silenziosa, nascosta tra tessuti ipertrofici di un cielo che sta lì a serrare le coscienze.
Esiste tutto un cinema di buona fattura, di sostanza dialettica, circolante in Europa, che spesso non riusciamo a vedere nel serraglio del nostro paese. In questo senso mi pare che il Festival del cinema europeo assolva al compito di mostrare queste opere, magari facendo una ricognizione dei festival maggiori, da Berlino a Toronto, scandagliando le sezioni parallele e dando voce e rilievo ad autori e "scritture" spesso niente affatto risaputi.
Lévinas scriveva che nell’epifania del volto altrui, nell’approssimarsi dell’«Io» all’altro, al volto «d’Altri» la cui realtà e vera natura non stanno nella contemplazione fisionomica, del dato, bensì altrove, si scopre che il mondo ci appartiene nella misura in cui lo si può condividere con l’altro.
Nel giorno in cui aleggia nell'aria l'Arca russa, del resto dopo una masterclass intensa di Sokurov ieri mattina, è apparso in concorso al Festival del cinema europeo un film che guarda in qualche modo a quel capolavoro, a quel tipo di esperienza oltranzista, ponendosi però in una prospettiva umile, quotidiana, di ruvido espletamento del giorno, anzi della sera.
Gli occhi deragliano tra le nuvole in lento movimento, ne seguono gli spostamenti, con un ritmo ipnotico, come in una danza arcaica, si perdono negli spazi sconfinati, si elevano al di sopra di ciò che è terreno, spingendosi oltre, verso approdi mitologici. La visione della mdp è rapita da una natura arsa dal sole, in un bianco e nero tagliente e lancinante, echi poetici in cui il vento canta la sua canzone tra i rami degli alberi. Un incipit di una bellezza straziante, una sinfonia, armonica e sontuosa, in cui il tempo è dettato dalla natura e dalle sue sonorità.
La recente monografia sul regista di Pozzolengo, edita sull’ultimo numero del Quaderno del Cinemareale (novembre 2018, anno III, N. 3), accoglie visioni screziate su un’opera che si presenta unica, originalissima, assolutamente costitutiva di un modo di fare cinema che è modo di guardare, di esistere e di stare al mondo. La prassi della creazione, che passa per la scrittura, per l’esperienza sensoriale delle riprese e poi anche per il costituirsi progressivo delle scene, porta alla luce tutto un dispositivo in divenire che si mostra attraverso le ri-costruzioni critiche e di poetica sia degli autori che dello stesso Piavoli.
All’esterno della modesta abitazione di Earl Stone, in Illinois, sventola appesa una bandiera a stelle e strisce, nobile vessillo d’America. È il primo dettaglio a risaltare nell’inquadratura con la quale si apre il film di Clint Eastwood – non avrebbe potuto essere altrimenti – , che poco dopo non manca di rimarcare con irriverenza un veloce scambio verbale con i dipendenti messicani della sua attività di floricoltura.
Filmare l’epos, portare sullo schermo la storia, la leggenda del mito fondativo di Roma non è cosa semplice, si rischia di avventurarsi in una strada impervia, non priva di ostacoli, eppure Matteo Rovere, regista e produttore, con la sua nuova opera, Il primo Re, tenta una nuova dialettica filmica, arricchendo il panorama del cinema italiano e definendo una nuova mappatura cinematografica, non solo tra i generi e i nostri ristretti confini, ma nella sua intera e globale dimensione.
Provando a decriptare l’Angelus Novus di Paul Klee, incuneandosi nel ghigno misterico, quasi leonardesco del volto sgomento, tremante davanti al marasma, Benjamin esplica la sua visione della storia: nel fatuo attendere la rigenerazione, scongiurando il dovere della testimonianza – unica redenzione possibile verso la contemplazione delle cose che ci circondano – e quindi della ricerca, acuminata e soprattutto controversa, nell’ambito delle “possibilità non date”, l’uomo-angelo viene trascinato via, sospinto dal vento e dal tempo di quegli orrori che, invece, vorrebbe stare a guardare, contemplare.
«...siamo oggetti del desiderio solo in quanto corpi. Il desiderio resta sempre, in ultima istanza, desiderio del corpo, desiderio del corpo dell'Altro, e nient'altro che desiderio del suo corpo.»
(J. Lacan - Seminario X - L'angoscia)