In un metaverso dell’immaginario orrido e perturbante, che va da Lo cunto de li cunti di Gianbattista Basile sino ai Crimini del (ritorno al) futuro di David Cronenberg, irrompe tra il citazionismo dilagante e la rivoluzione MeToo, The Substance, secondo film della regista francese Coralie Fargeat (miglior sceneggiatura a Cannes 2024 e in corsa agli Oscar 2025 - una sferzata per le sempre poche cineaste in nomination – passando per il Golden Globe all’interpretazione di Demi Moore).

In principio era La morte ti fa bella di Zemeckis (1982), ma anche il videoclip Physical di Olivia Newton-Jhon (1981). The Substance ricalca lo story concept della conquista occulta dell’eterna giovinezza di una star di celluloide in declino, catapultata nella guerra generazionale per il potere d’attrazione erotica (di cui, ormai assodato, ogni ragazza-immagine è solo il significante), ma priva lo spettatore dell’esorcismo del puro divertimento, che pure il genere splatter suscita.

Nel raccapricciante La vecchia scorticata di Basile, trasposta al cinema da Matteo Garrone, le risate impietose, ma riconscenti delle fate (idealizzazione femminile, antitesi della strega-archetipo Junghiano del rimosso inconscio dalla società) conferiscono la giovinezza ad una sola delle due mostruose vecchie sorelle: a colei che aveva osato oltraggiare col suo corpo decrepito il morboso monopolio sessuale del giovane principe.

Per certi versi, Coralie Fargeat, tiene ben saldi i codici della commedia macabra, proprio nei poli di incipit ed epilogo del suo sfrenato body horror, per dirci gli antipodi ideologici con il precedente Zemeckisiano: tra i corpi in frantumi delle co-protagoniste (insuperabili Maryl Streep e Goldie Hawn) sodali-rivali di bellezza estetica, le teste dai volti sgocciolanti rotolano per strada verso l’inesorabile disfacimento estremo, quando solo poltiglia oculare, perfettamente in linea con la morfologia simbolica di The Substance, squaglieranno proprio come la faccia del Mostro Elisabeth-Sue (Margaret Qualley) sull’asfalto della eugenetica-Hollywood Walk of fame.

Peccato che a darci le istruzioni d’uso dell’elisir non ci sia una sexissima Isabella Rossellini nel suo maniero sadomaso, ma uno speaker telefonico stile Saw-L’enigmista, una usb-spot promozionale e un angar fatiscente come punto di ritiro delle iniezioni. Il testimonial umano del prodotto è totalmente irrilevante, perché la garanzia si dimostra manipolando una pallina gialla di plastilina, riproduzione sintetica di un tuorlo d’uovo clonabile in vitro. Ecco trasmessa la deumanizzazione del corpo (n)uovo e di chi lo azionerà. La sua congenita oggettivizzazione voyeuristico-narcisistico-paranoica.

Pertanto, esclusa la sorellanza, ancora meno calza lo stereotipo della matrigna, che agogna la sua versione giovane, da cui è vampirizzata a sua volta. Lo conferma il riferimento ai sette giorni della Genesi, per pregiudicare il supposto equilibrio della convivenza alternata tra creata/creatrice, anzichè ai nove mesi gestazionali, durante i quali si può fronteggiare il proprio monster interiore, mentre il corpo si corrompe e il Dna rifiorisce.

La sostanza attiva la mitosi di una matrice-character design, il «è che mi disegnano così!» di Jessica Rabbit, destinata a medesima sorte, per restare a Zemeckis. Nessuna filiazione, ma un upgrade della riproduzione in serie. È la Marilyn Monroe di Andy Warhol, tanto possibile perché, per sorte crudele, consacrata post mortem giovane sex symbol nella dittatura dell’industria culturale. Ma Elisabeth è una sopravvivenza archiviata e risponde prontamente all’annuncio dell’emittente televisiva in cerca di una sua sostituta, perché, proprio come le serigrafie di Warhol, non contempla altro sviluppo se non le infinite varianti della inquadratura selezionata (portata alle estreme conseguenze nelle acrobatiche riprese vaginali) della propria immagine esposta, giganteggiante ovunque e non c’è complesso della mummia baziniana che tenga! Elisabeth-Sue è diametralmente opposta a Barbie, icona commericiale, transfert generazionale asessuato, con infinite versioni di sè, nelle mani di Greta Gerwig, a cui è dato di esplorare il mondo oltre se stessa e soprattutto la folgorazione mistica dello sguardo su una donna anziana (...sulle orme di Kieslowski?).

Chissà se Coralie Fargeat ha considerato nel suo script tutta la letteratura critica sull’incisività atavica della iconografia di Maria, determinante nella rimozione della vecchiaia femminile dalla cultura occidentale patriarcale! Maria è sì madre contrita e dolorosa di Cristo, ma assurge al cielo, senza passare dal disfacimento corporeo e dalla morte, cosa che tentò invano di conferirle Caravaggio, ma invalidò per sempre Michelangelo nella sua Pietà, mostrando la salma di un uomo maturo tra le braccia di una madre-fanciulla: eterno ideale ultrattereno, cui si aggiunge oggi il terrorismo estetico digitale. Lo stesso prologo del film, come già appurato altrove, esplicita che Elisabeth non è già più l’ultima spiaggia di un product placement, incarnazione del format Tv di fitness costruito a tavolino, perchè già ridotta a souvenir vintage, statuina in una sfera di neve (Orson Welles docet).   

Elisabeth-Sue sono cortocircuito del regime VideoDrome Cronenberghiano, “la video parola che si fa carne”, disfattasi delle vecchie debordanti viscere nel sacrificio catodico, l’allucinazione ipnotica che coicide con la scopofilia narrativa feticista-masochista, ça va san dir maschilista, che non ha altro interlocutore che se stessa, immagine castrata autoreferenziale. Licenziata dal programma che l’ha mantenuta in auge per innumerevoli stagioni, scandite nella galleria di locandine, Elisabeth perde la voce, perde il potere ammaliante delle sirene. Questo il quid alla base del benservito che il manager dell’emittente non le sa ben spiegare, nel suo truculento e maialesco ingurgitare a tavola, metafora del Moloch-Star system. Non le sa spiegare che ha perso l’aura seduttiva che emana il suo pronunciare a fine puntata «… e abbiate cura di voi!» che, proferito da una cinquantenne, per quanto in gran forma, si traduce come monito anti-età, mentre trent’anni prima risuonava solo fonema ammiccante, prodromo di piacere. «Gloria e vita al .. Matrix» e alla profetica A.I. tra noi. E così a seguire.

La rielaborazione certosina del citazionismo letterario e cinefilo è la vera linfa che impregna The Substance e che fa il paio con la sovversione dell’epica del villain del Joker di Todd Philips (altro epigono, saccheggiatore di cult) la maschera anonima-specchio catalizzatore della psicosi collettiva, che rinnega il proprio corpo martorizzato dalla medesima collettività, cui davvero non si può evitare di alludere, se si pensa alle volte in cui Elisabeth finisce per deturparsi aggressivamente la bocca col rossetto, quando deve inscenare una se stessa contro se stessa, nonché nel truculento e sanguinario epilogo sotto i riflettori. Nel disgusto generale, non solo per le viscide controparti maschili, a loro volta deformate dai filtri diegetici e percettivi introiettati dalla protagonista, cova il programmatico contro-cinema femminista, che vuol sabotare e negare l’ontologica fascinazione della visione cinematografica, la macchina antropologica dei sogni proibiti, il doppio fotogenico, che tra identificazione e alienazione di obiettivo/personaggio/spettatore, corrobora  la disparità sessuale, sguardo attivo maschile/oggettivazione femminile (Hitchcock da manuale). In definitiva la rivalsa di un cinema-strega, che brama la reintegrazione di narrazioni catartiche rimosse dai generi, più che di genere, come l’esemplare Revenge, opera prima di Fargeat, per riscrivere un nuovo linguaggio del godimento visivo eterodiretto.

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