Mosaico di esistenze, di resistenze, al passaggio elettrico della vita, dell'aria, il tempo, questa corrente elettrica che prende gli esseri, le cose, e li tiene in stato di vertigine, di spasimo continuo, boccheggianti, a occhi sgranati di fronte al catastrofico persistere del cosmo; che si fa prisma cinematografico, centone di forme, con preminenza del piano-sequenza, i Dieci capodanni di Rodrigo Sorogoyen si sgranano in dieci episodi (da vedere nella versione in lingua originale sottotitolata) di una storia d'amore rutilante, ritornante, da qualche tempo disponibile su Rai Play.

Sguardo trepidante sui corpi avviluppati, compenetrati: Oscar s'insinua con la bocca tra le natiche di Ana, che nel frattempo sembrano come riempirsi di fibra, di derma; rassodarsi per suzione, moto linguesco direbbe Sanguineti, come se prendessero a esistere solo ora, nella materia dello sguardo (che custodisce il desiderio), nell'attimo della ripresa; e un dildo, regalo di compleanno, si perde in uno o due anfratti, sotto, che sono il fuoricampo, il baratro in cui germina l'invisibile; riempirsi non tanto di carne, le natiche in sentore di lieve, magnetica cellulite, quanto di cellulosa, di sostanza puramente cinematografica. Questo, nel migliore dei casi, è il cinema di Sorogoyen, anche al di là della tenuta narrativa e della «tensione» di film come Che dio ci perdoni, Madre, As Bestas: cioè il risultato, variabile, della resistenza dei corpi, misurabile nella durata, negli ohm del piano-sequenza.

In questa scena i resistori (i colpi che resistono), il corpo di Ana soprattutto, sono ad alta impedenza, sono gomma che resiste all'elettricità vagolante fuori dall'alcova. Così l'immagine, l'immagine dell'amore, si fa solida attraverso la tensione che si instaura tra i corpi, si fa durata soda (Sorogoyen indugia sull'amplesso: non lo liquida come semplice snodo narrativo), prima di franare, di frangersi sotto le scosse della vita, del caos elettrico al di là delle finestre. Del resto la legge di Ohm recita: la resistenza (R) è il risultato della tensione (V) fratta la corrente (I), e nei Dieci capodanni di Sorogoyen si consustanzia agli interni, si solidifica in immagini «interne» – appartamenti angusti: letti, divani –, dov'è possibile ripararsi dal divenire impensabile, scorazzante sulla crosta terrestre, tra cui anche il virus del Covid-19.

Una volta fuori dai nidi, la vita incalza, insidia gli amanti (non più saturati, suturati dalla tensione erotica): li rende fragili, in preda alla malinconia, al tedio più cupo, sottoposti all'elettricità sbalestrante, trabalzante dell'atmosfera, al fervore del tempo, che corrode gli animi, le psicologie; in balia della separazione; nella malia di un sibilante senso di solitudine. La serie segue questa anatomia sentimentale: l'ondivago, sismico esprimersi (scomporsi, ricomporsi, mutarsi, smisurarsi) di un amore, mentre la mente va ad alcuni modelli del cinema recente, tra cui Prima dell'alba di Linklater; i film di Valerio Mieli, Dieci inverni e Ricordi? e quel film bellissimo, dimenticato, che è Un amore di Gianluca Maria Tavarelli, intriso fino all'ultima fibra, delle musiche trascendenti, trasparenti di Ezio Bosso, come nello strazio del piano-sequenza in cui Sara e Marco si ritrovano su una spiaggia invernale mentre lei dice «in fondo che senso ha vivere se non si è in due?», e risuona Tango Triste (A Muchy).

È una storia d'amore colta in dieci, diversi, consecutivi capodanni quella di Sorogoyen e dei suoi coautori, dal 2014 al 2024, variando i registri e le musiche, tratte dal repertorio della musica leggera spagnola, tra cui uno dei brani più belli di Nacho Vegas, La noche más larga del año. Ed ecco allora, in un contrappunto di esistenze e resistente, assenze e ritorni, stanze in penombra e l'aria aperta delle città frenetiche, episodi carnei, all'insegna dell'amplesso protratto, arrivando fino all'unico, stupefacente piano-sequenza dell'ultima puntata (vero e proprio, uggioso, livido capolavoro cinematografico), passando per dialoghi serrati, ultradensi (à la Kechiche); allucinazioni, deliqui da techno berlinese in cui compare un barista diafano, esangue, intima coscienza di un'Ana stanca, disamorata; a variazioni sul tema del road-movie, nel mezzo della contenzione per il covid: un viaggio in auto verso il mare, come fosse un viaggio verso l'ignoto, oltre i confini regionali, dentro orizzonti d'asfalto, svanenti campi di viole a fianco, verso l'anno, l'amore, che verrà, se ne andrà.

Una prima versione di questo articolo è uscito sul Manifesto del 5 marzo 2025.

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