«Che vi sia parola e se ne veda il silenzio – e, in questo silenzio, appaia per un attimo la cosa restituita al suo anonimato, al non aver ancora o non aver più nome»: che questo silenzio prema alle fondamenta di ciò che urge d’essere nominato, di avere principio d’es-istenza, che questa essenza d’essere, o meglio dischiudersi d’essere sia contemporaneamente atto estremo nella distruzione, nella cosa che non è o non è più, come nella poesia errante di Caproni, tutto questo insistere e perdersi e resistere in ciò che merita di restare, di durare, di stare è la teoresi di Giorgio Agamben, del suo pensiero, in questo volume uscito due anni fa per «nottetempo» ma di grande in-attualità (come solo i classici sanno essere).
Non è un caso che nell’incipit si sia scelta una parola, «Soglia», per aprire le porte, appunto, e dare avvio ad un discorso su di sé come poeta, come filosofo, come uomo, a partire dalla riflessione su quella che per Agamben è stata (è) l’officina del farsi – e del disfarsi – di un autoritratto, tema caro a tutta una tradizione pittorica e non solo: ma la venuta alla luce di questo sé che si compone per scomposizione, per giustapposizione e relazione rispetto a innumerevoli incontri, di persone e di opere, di artisti, scrittori, filosofi (primo fra tutti Heidegger, e poi Benjamin, Weil, Hölderlin, Morante, e tanti altri) si frantuma pezzo per pezzo nelle immagini, siano esse fotografie, dipinti, illustrazioni, e ancora pezzi di stanza, di libri, di appunti, di vita vissuta e da vivere attraversando quel «bene» incandescente – perché arde di fiamma propria, trovando nutrimento in se stesso – che è «studio», ossia luogo reale, fisico ma pure immaginario.
Quel dove che Giorgio Agamben definisce, declinandolo in vari modi, «punto di fuga» arriva a compendiare in filosofia quello che prima è stato un dire poetico, e che ancora prima è stato una «infinita capacità di essere distrutti», corrispettivo dell’assunto «[…]Egli (l’uomo) non ha altra sostanza che questa: il poter infinitamente sopravvivere al mutamento e alla distruzione»: ed è questa umana fragilità, che passa attraverso la distruzione, la sola e unica possibilità di espressione – intesa come verità esistenziale, che tuttavia l’autore pone come al di fuori di sé – creativa, «creazione» tout court individuata nel processo aristotelico che dalla potenza conduce all’atto, e che tradotto in prassi diremo fisicità dei muri scardinati, traccia del mondo che dal disordine del caos informe diventa logos, parola, mito. Il bene che va intuendosi piano, poco a poco togliendo il velo ai quaderni, ai libri e alle foto sparsi, accumulati sulla scrivania degli studi del filosofo, è «l’idea dell’impersonale» che consegue la scrittura, quando «studio» assume anche i contorni dell’attesa, di un’impaziente attesa che affonda alle radici stesse del linguaggio, prima che anche questo si sgretoli di fronte agli urti della storia.
Ed è «bene» che questo accada: che la lingua, emersa dal pullulare di ciò che attende d’essere creato si spezzi, infinitamente, e scompaia, meritando però di lasciare traccia nel ricordo che dura ancora, e che perciò «è», sia il segno originario, maturo nella barbarie estrema del «gesto», Pulcinella che mima ciò che resta, appunto, della parola, di se stesso, del mondo intero in sé. E questo bene, rincorso, riemerso, tracciato mediante riferimenti multiformi non solo a porte reali, realmente aperte su un fiorire di fogli, ma anche a porte mentali – ché queste pure, soprattutto, sono reali, anzi sur-reali – diventa, in questo che non è un libro ma un «preludio» piuttosto, oppure un «epilogo», la forza che dà ragione di ogni dimenticanza, di tutte le occasioni che verranno, di tutta la gioia che prenderà il posto della sua assenza. Il «vivrò» in chiusura di Agamben è il sigillo di questa volontà di prendere parte ininterrottamente, non finitamente, ad una visione intradiegetica dell’esistenza che «dimora» in quella stessa lingua che si disgrega, che si perde, e nonostante la perdita, resta.