«Che vi sia parola e se ne veda il silenzio – e, in questo silenzio, appaia per un attimo la cosa restituita al suo anonimato, al non aver ancora o non aver più nome»: che questo silenzio prema alle fondamenta di ciò che urge d’essere nominato, di avere principio d’es-istenza, che questa essenza d’essere, o meglio dischiudersi d’essere sia contemporaneamente atto estremo nella distruzione, nella cosa che non è o non è più, come nella poesia errante di Caproni, tutto questo insistere e perdersi e resistere in ciò che merita di restare, di durare, di stare è la teoresi di Giorgio Agamben, del suo pensiero, in questo volume uscito due anni fa per «nottetempo» ma di grande in-attualità (come solo i classici sanno essere).