Filmare l’epos, portare sullo schermo la storia, la leggenda del mito fondativo di Roma non è cosa semplice, si rischia di avventurarsi in una strada impervia, non priva di ostacoli, eppure Matteo Rovere, regista e produttore, con la sua nuova opera, Il primo Re, tenta una nuova dialettica filmica, arricchendo il panorama del cinema italiano e definendo una nuova mappatura cinematografica, non solo tra i generi e i nostri ristretti confini, ma nella sua intera e globale dimensione.

Una sperimentazione visiva che poggia la sua architettura su un approfondito studio delle fonti storiche, un raccordo visivo tra mito e reale; la ferocia primordiale portata in scena è la base su cui poggia la società attuale, il fango, la lotta dei corpi, la legge divina e la legge umana, il sovvertimento della religione per lasciare spazio all’amore viscerale e profondo, quello fraterno, quello del sangue che difende il suo stesso sangue, sono i cardini di questa matassa filmica. La tracotanza degli uomini è punita nel compiersi di un destino ineluttabile, letto nelle viscere animali, topos in cui si annida il dolore, la sofferenza e i sentimenti uterini, e dove l’aruspice apre il suo sguardo al futuro; nella divinazione, attraverso le mani e gli occhi la sorte spiega le sue coordinate.

Risalire alle origini, scavare fino alle radici costitutive della civiltà con un baluginio cristallino fedele il più possibile al reale, è l’intento perseguito dall’opera; così la scelta linguistica del protolatino svela l’urgenza di attenersi al vero, creando una ritmica perturbante di suoni misterici e lirici che contribuisce, da un lato, a un processo di identificazione totalizzante, e dall’altro svela l’antica verità del siamo ciò che siamo, perché siamo ciò che eravamo. La leggenda e il suo mito sono noti, ma Rovere si sposta ben oltre la semplice narrazione, cerca nuovi luoghi, sperimenta linguaggi e lavora una materia filmica del tutto inedita, o quasi, per il nostro cinema. Seguendo il flusso della leggenda narrata, è necessario valicare il limite estremo per poter (ri)nascere, addentrandosi tra le ombre più fitte; se il luogo fisico è la foresta spaventosa e cupa per il manipolo di soldati guidati dal primo re, il non luogo è la sperimentazione filmica, combattere per liberarsi dal giogo della schiavitù, come Romolo e Remo, incamminandosi verso un oltre sconosciuto, sporcarsi le mani con fango e sangue, per creare qualcosa di luminoso e illuminato, la città eterna, ma anche una nuova geografia del cinema.

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