Esiste tutto un cinema di buona fattura, di sostanza dialettica, circolante in Europa, che spesso non riusciamo a vedere nel serraglio del nostro paese. In questo senso mi pare che il Festival del cinema europeo assolva al compito di mostrare queste opere, magari facendo una ricognizione dei festival maggiori, da Berlino a Toronto, scandagliando le sezioni parallele e dando voce e rilievo ad autori e "scritture" spesso niente affatto risaputi.
È il caso di Oray del tedesco Mehmet Akif Büyükatalay che incentra il suo discorso sulla questione del "verbo", della sua malleabilità o rigidità, tanto più all'interno del dogma musulmano. La parola è "talaq", che diventa il fulcro di una spazializzazione e di un deambulare claustrofobico del protagonista Oray, da Hagen a Colonia, tra mercatini, moschee, appartamenti in cui passare la notte dopo la separazione momentanea con sua moglie. Un repertorio di luoghi scialbi, adattati; un'urbanità fatta di telefoni usati raccattati sulle bancherelle, banconote da venti e cinquanta euro che frusciano, sfrigolano tra le mani (referto della Germania economicista), patate fritte nei fast food turchi, locali foschi che però non riescono a cancellare il nome di Burcu che risuona più volte proprio dal telefono cercando di contrastare la massa granitica di quell'altro nome: talaq.
È tutto un equilibrio di nomi allora: il riconoscersi room e musulmano con gli altri "fratelli", dovendo però assolvere a quel talaq ripetuto tre volte, gridato in faccia alla moglie, che nella religione islamica sancisce la separazione definitiva con sua moglie; e d'altro canto Burcu intorno a cui si concentra la promessa dell'amore che nel frattempo non si è sopito. E a spalleggiare l'essenza, la sostanza del Burcu, l'amore che resiste contro la rigidità e aridità del dogma c'è una frangia di amici musulmani che, mentre fumano spinelli, bevono, hanno amplessi con donne sposate, non si attiene all'ingiunzione del verbo, piuttosto alla sostanza del fatto, malleabile ma non per questo meno nominabile.