Ad arginare il vuoto delle sale, sospese e spoglie, aride, come solo sanno esserlo durante i mesi estivi, ad agosto specialmente, c'è il Concorto Film Festival, che potrebbe essere definito l'oasi-indie italiana del cortometraggio: realtà culturale indipendente e risonante, ed unicum nel panorama cinematografico contemporaneo in Italia, per quanto riguarda la percezione collettiva della realtà delle "piccole" storie sul grande schermo.

E ad avvalorarne l'autonomia e forza c'è una selezione notevolmente ampia e varia che spazia tra le forme e i generi, con cinquantadue film in concorso di cui diciassette prime italiane, tra cui, vale ricordarlo, il folgorante White Echo di Chloe Sevigny. In un certo senso, è come se tutto l'immaginario cinefilo e cinematografico della Sevigny - orrorifico, tendente alla ripetizione, di situazioni e sonori martellanti - al rifluisse in questo suo corto, la storia di Carla e del rapporto controverso con la sua interiorità e con la sua dirompenza, potremmo dire, mistica, fortemente spirituale. Il film si apre con un campo lungo su due giovani donne discutere dell'esperienza che avrebbero di lì a poco vissuto, vale a dire l'incontro con uno spirito (Carla è una medium) che non sembra essere spaventoso né malvagio nei loro confronti, simboleggiando, piuttosto la materializzazione di un istinto. L'altro istinto femmineo, forse. L'istinto che poi verrà liberato e schiuso nella danza macabra allucinogena successiva.

Se c'è una caratteristica, un comune denominatore estetico, formale che contraddistingue alcuni dei cortometraggi presentati in concorso è la presenza dell'elemento naturale, di una flagranza, tuttavia, agghiacciante e fredda e lo dimostrano prodotti come Héctor di Victoria Giesen Carvajal e Prendre Feu di Michael Soyez. Se, da una parte, la natura fa da sfondo alla graduale e lenta decifrazione di un sentimento controverso, sconosciuto, cioé l'estrema e vibrante attrazione di un ragazzo nei confronti di una donna (Héctor) dalle fattezze mascoline circondata, per la maggior parte delle volte in cui la vediamo, da paesaggi inquietanti e ombrosi, nel secondo corto questa componente diventa ancora più radicale. In un villaggio, due fratelli provano in tutti i modi a lenire il dolore e la malinconia del loro amico Lou, ma la brutalità, quasi per contraltare, aumenta sempre di più all'interno delle loro case e spinto dalla medesima rabbia e violenza Loui brucia tutto ciò che tocca, in una sorta di simbiosi panica con una natura lugubre e incalzante.



C'è poi una natura diversa, placida e silente che accompagna, d'altra parte, uomini e donne alla ricerca della propria individualità e del proprio percorso di crescita, come nel caso di Suc de Sindria di Irene Moray. Due giovani decidono di andare in vacanza per qualche giorno insieme ad alcuni amici e, immersi in un contesto bucolico avvolgente, cercano di rinvigorire il proprio rapporto; lui ha paura delle profondità subacque, lei, al contrario, si sente in quegli spazi completamente a suo agio ma non riesce, tuttavia, a lasciarsi andare durante l'amplesso e soltanto in seguito si capirà il motivo di questa rigidità. La regista spagnola riesce in modo inedito ed efficace a tradurre la paura di Barbara attraverso immagini e simboli eloquenti, con una narrazione che incede per sottrazione, ritmi lenti e flemmatici e impenetrabili "non-detti", per cui ogni sentimento ha tutto il tempo di manifestarsi e consumarsi.

Il coup de foudre di quest'edizione del Concorto Film Festival, oltre al turbinoso e convulso film della Sevigny, è un altro cortometraggio di genere, La bete di Filippo Meneghetti. Ambientato in un paese fantasma e in un tempo imprecisato, è la storia di un bambino che, inseguendo una bestia in una foresta creduta infestata, cade in buca e di suo nonno che tenta di mobilitare l'intera cittadinanza per trovarlo. Sembra di essere nei luoghi spettrali evocati da Robert Eggers (The witch) con simbologie che ridisegnano le coordinate del genere inserendolo in una dimensione quasi pittorica, pervenendo a un risultato vertiginoso ed evocativo, a metà tra la fiaba e l'horror, guardando a Bergman e Borowczyk, nei confini di una natura ostile.

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