«Ognuno, in fondo, è al centro del suo universo», scriveva Niccolò Cusano ne La Dotta Ignoranza. E non c’è forse figura migliore di quella del regista, dell’autore di cinema, per raccontare questo x-centrismo che è frutto di un’illusione prospettica, di una visione che causa, in molti casi, un errore epistemologico. Michel Gondry, esempio massimo di un cinema eternamente in lotta tra egodistonia ed egosintonia, in cui il solipsismo collide costantemente con la sua volontà di aprirsi al mondo, si immagina al centro del pianeta nel suo ultimo film in stop-motion: Maya, donne-moi un titre.
L’autore si disegna – o, sarebbe meglio dire, si “ritaglia” – come un batterista che abita nel nucleo della Terra e che suona forsennatamente, per il piacere esclusivo di se stesso, provocando però un terremoto in superficie che alla fine coinvolge tutta l’umanità. Un ritratto dell’artista come di un uomo solitario, iperattivo e un po’ egocentrico, che si percepisce letteralmente al centro del mondo, ma le cui scelte, in ogni caso, finiscono sempre per avere una conseguenza nel mondo reale. Un ritratto che fa venire in mente il personaggio di Marc Becker nel precedente Le Livre des solutions e la sua folle pantomima di direttore d’orchestra in quell’ennesimo auto-ritratto di regista in crisi fatto da Gondry dopo il “trauma” che ha segnato la sua carriera, ovvero la travagliata e dolorosa lavorazione di Mood Indigo.
La batteria è lo strumento musicale che il poliedrico regista francese suona fin da ragazzo nella band Oui-Oui, per la quale cominciò a creare i suoi primi videoclip animati: uno strumento che si suona da soli, ma che produce un suono plurale, quello di una piccola orchestra in solitaria. Un piede aziona una grancassa, una mano colpisce un piatto, un’altra batte sul rullante. E non è un caso se nel cinema di Gondry si ritrovi sempre, espressa attraverso il montaggio e la regia, quest’arte della scansione, questo piacere della narrazione sincopata, nei suoi film d’animazione come in quelli in live action e nei video musicali.
Maya, donne-moi un titre, opera solo apparentemente minore, esaspera questi elementi e diventa un commovente manifesto della poetica del “do it yourself” che da sempre anima la filmografia di Gondry. Un film che punta a produrne altri, come dichiarava di voler fare Dziga Vertov nella sua auto-intervista del 1940. Un’opera che nasce dalla necessità di condividere: per relazionarsi, confrontarsi, ispirarsi, indagarsi, comprendere se stessi. E che si pone l’obiettivo di stimolare la creatività nel pubblico, soprattutto quello giovanissimo, fornendo anche una breve panoramica su come poter realizzare autonomamente a casa qualcosa di simile a ciò che si sta vedendo su schermo.
L’estetica del film è quella “da lockdown” che Gondry ha prima messo a punto con dei piccoli esperimenti sui social e poi successivamente perfezionata nei videoclip realizzati per La Chanson de Prévert di Serge Gainsbourg e per il brano Chain Reactionary di Adanowsky e Beck. Un cinema di papier découpé che comincia negli anni Venti del Novecento con Lotte Reiniger e Les Aventures du Prince Ahmed e arriva fino alla contemporaneità con Michel Ocelot, che Gondry “semplifica”, riducendolo alla sua componente più ludica ed essenziale. Nel caso dell’omaggio a Gainsbourg – uno degli idoli in famiglia Gondry insieme a Duke Ellington – il regista utilizza come protagonista prévertiano una «feuille morte» che vola nel mondo e toccandolo lo fa deperire, lo fa invecchiare precocemente, lo fa morire.
Un oggetto “grazioso”, nostalgicamente poetico, che però conduce all’estinzione della vita nel momento in cui la sfiora, come se, di per sé, il sentimento d’amore facesse perire le cose costringendole ad avanzare inesorabilmente nel tempo. Nel secondo caso, quello di Chain Reactionary, protagoniste del videoclip sono le lettere, le parole: la scrittura diventa un oggetto estetico, la materia stessa del film. Un’idea che viene ripresa e ampliata in Maya, donne-moi un titre, definibile quasi come un film-calligramma che rimanda direttamente a Basquiat e a opere come Hollywood Africans, Notary, La Colomba. La parola come immagine, d’altronde, è sempre stata una passione di Gondry fin dai tempi de La tour de Pise (1993), a sua volta in scia con la sperimentazione di Hollis Frampton su Zorns Lemma (1970). In questo senso, la stop-motion, con la sua possibilità di porre sullo stesso piano, nel ruolo di protagonisti di un film, animali, esseri umani, oggetti e persino lettere dell’alfabeto, si rivela l’antidoto migliore alle inevitabili tendenze antropocentriche, o “autorocentriche”: assai lontano dalla perfezione, l’uomo-artista si accorge di essere estremamente vicino alle altre creature terrestri e che un’irrisoria distanza lo separa dagli animali e dalle foglie che svolazzano al vento.
Già nel fumetto Ajdar di Marjane Satrapi, citato anche dallo stesso Gondry nel dossier pedagogico che accompagna il suo film, un terremoto sconvolgeva l’ordine delle cose: le pecore si ritrovavano le ali al posto delle orecchie, alle giraffe spuntava la testa da pesce, le mucche cominciavano a camminare sulle zampe di gatto. Ma se la causa di questo terremoto è l’artista stesso, allora è chiaro che, nella mente di Gondry, l’arte e il cinema possono avere un effetto dirompente sulla realtà, magari anche stravolgendola. Lo capiamo quando, in Maya, donne-moi un titre, all’improvviso appare una bambina: quella piccola e dolce Maya, ovvero la figlia dello stesso Gondry, che fino a quel momento avevamo conosciuto solo come un personaggio di carta ritagliata, si rivela a noi in carne e ossa, guardandoci negli occhi.
Quello che il regista ci aveva raccontato attraverso la stop-motion diventa realtà: la finzione diventa qualcosa di tangibile. Nel momento in cui ciò accade, però, Gondry prepara anche un movimento esattamente opposto e Maya, quella in carne e ossa, comincia via via ad assomigliare sempre più al personaggio immaginario che avevamo conosciuto inizialmente, indossando abiti di scena e muovendosi in ambienti sempre più “scenografati” con il gusto dell’artificio. La realtà diventa irrealistica e quando su schermo compaiono persino gli esseri fantastici che vivono nella mente della bambina, come BoumBoum e Pampa, la sovrapposizione tra il mondo immaginato e quello reale diventa tale che ci si chiede: sono davvero i disegni di papà Gondry a imitare le sembianze reali di Maya e dei suoi nonni o non sono, dopo tutto, loro che iniziano ad assomigliare ai disegni del regista?
Questa possibilità di incidere sul mondo reale attraverso il cinema è forse la vera grande ossessione di Michel Gondry: da Be Kind Rewind – che ha poi dato vita a un esperimento di comunità con gli abitanti della piccola città di Passaic nel New Jersey – all’ambizioso progetto de “L’usine de films amateurs”, la principale missione del regista francese è stata quella di far fiorire la creatività in quei contesti in cui è più difficile che ciò accada, per ragioni economiche, sociali e culturali. Dal 2007, “L’usine de films amateurs” ha permesso, in ventidue città e in quattordici nazioni differenti, di creare gratuitamente oltre cinquemila film, seguendo un semplice protocollo, immaginato dallo stesso Gondry, in set costruiti per l’occasione. Alla maniera di Jack Black e Mos Def, viene data a tutti la possibilità di realizzare un film dalla A alla Z in sole tre ore.
Non è necessaria alcuna formazione e tutta l’attrezzatura viene messa a disposizione degli aspiranti “registi” in modo che ognuno possa essere autonomo e libero di immaginare un numero infinito di storie differenti. I film realizzati vengono conservati, proiettati sullo schermo di un cinema e persino stampati su dvd. Ed è proprio a quella esperienza che sembra guardare, in piccolo, Maya, donne-moi un titre, immaginando una possibilità di “attivazione” del pubblico attraverso la visione di un film che invogli a liberare la propria creatività e a metterla a frutto seguendo le indicazioni fornite dallo stesso regista attraverso la mise en abyme dell’artista che realizza un film sulla realizzazione del film stesso.
Quello di Gondry è un cinema quasi ancestrale, in cui al piacere del taglio, si aggiunge il piacere del montaggio, del riavvolgimento temporale come strumento per riparare ai danni fatti: ricostruire Parigi dopo il disastro, riportare indietro “Maman” dal suo viaggio a Stoccolma. Sono gli strumenti del cinema a sistemare le cose quando queste deragliano, spesso a causa dello stesso autore e delle sue manie di controllo. Il cinema, ci dice Gondry, possiede una sua intrinseca capacità di guarigione: corregge quello che non va, riscrive la storia quando questa non piace più. Tale potere di autoguarigione funziona al meglio nel momento in cui il cinema diventa democratico e più mani possono lavorarci sopra.
Gli strumenti sono tutti lì, sul tavolo di lavoro: carta, matite, forbici e un cellulare. Questa katharsis, questa morte dell’ego dell’autore, non ha però nulla a che fare con il processo oblativo e sacrificale del proprio sé che culmina nell’amor mortis ma è il primo passo fondamentale verso un processo di contaminazione con l’altro. La morte dell’ego diventa allora il punto di partenza etico del cinema come superamento del mito prometeico dell’autore inteso come monade autosufficiente e contemporaneamente scoperta della sua incompiutezza. Facendosi pratica collettiva, lo sguardo finisce per coprire un ambito di realtà sempre meno ristretto e sempre più complesso, in modo da rappresentare un incremento del grado d’apertura e di sintonia col mondo.