«Che ne è dell’io, che ne è di un io, se nel suo petto batte il cuore di un altro? Che cos’è un corpo, che cos’è il mio corpo, se la continuità della sua esistenza, se la sua sopravvivenza è affidata a uno straniero irriducibile e inassimilabile, a un intruso?»
L’intruso, Jean-Luc Nancy
Destinato a trasformarsi in un potente, intenso dispositivo di apertura, a un divenire sfolgorante, mai cauto o fermo, anzi meravigliato, tuttora innamorato delle cose del mondo, degli oggetti, delle sensazioni, di immagini e parole rubate, il cinema-sguardo di Claire Denis, fuori da coordinate spaziotemporali e di genere, autentico e vergine, in un certo senso, non esiste in altri luoghi che non siano i varchi lasciati aperti da ogni inquadratura, suono e immagine: quest’ultima intesa come travolgimento, valico di ciò che accade nell’istante. Di ricerca del significato intimo e dell’essenzialità delle cose.
E ne captiamo l’intuizione, il presagio, fin dai primi movimenti di ogni suo film; si pensi a Trouble every day o, ancora prima, a Nenette et Boni, dove tutto incede per baluginii, istantanee di simboli e colpi diretti ai nostri sensi, essendo il suo un cinema di percezioni e di contatto, tattile: il primato è del corpo. In un saggio dedicato alla cineasta francese, Jean-Michel Frodon parla non per caso di arte medianica, come di un voler scandagliare questo corpo, sondandone e “scorticandone” l’epidermide per indagarne la sostanza, l’òntos di un discorso che non pretende di conquistare una verità ultima, di esiliare poi il percorso all’interno di confini rassicuranti, chiusi: sono invece la ricerca e specialmente il dubbio e mistero che ne conseguono, risultanti, come detto pocanzi, di un atteggiamento curioso e appassionato, di un entusiasmo pronto a ridefinirsi di continuo rispetto a ciò che le si mostra, i catalizzatori dell’approccio della Denis sulla realtà, e lo vitalizzano, incontro dopo incontro, costituendone l’essenza. L’effetto è spesso opaco, obnubilato, e sta allo spettatore scegliere se penetrare questi arcani, cosiddetti «sortilegi del fuori-campo», riconoscendone risorse e potenzialità o se fuggirne, lamentandone l’estraneità, quel non voler farsi congelare dalle convenzioni (o costrizioni) di genere e scrittura che tanto disturba, o ammalia.
Ci sono il mistero, l’impenetrabilità di certe coordinate, di un entusiasmo teso ad abbracciare ogni aspetto della vita, anche l’orrore, come ad esempio nell’amour fou totale, assoluto e cannibalistico di Trouble every day, conturbante oltre che per la sua complessità meandrica anche per una sorta di pathos e commozione, di una vicinanza emotiva e di sensi alla vicenda e con il suo ultimo High Life la Denis ritorna a una simile rabdomanzia. Di nuovo l’immersione, il “gettarsi a corpo perduto” in un territorio, si potrebbe dire, non propriamente suo, quello del genere fantascientifico ora decostruito e iniettato di quel suo particolare "sentire" le cose del mondo, i ricordi, la pelle, le ferite: una prassi stregonesca come la stessa dottoressa Dibs ossessionata dagli esperimenti di riproduzione, divenendo «il tecnico più terribile e inquietante [...] colui che snatura e rifà la natura, colui che ricrea la creazione, che la fa uscire dal niente e che, forse la riconduce al niente. Colui che è capace dell’origine e della fine». Si ritrova poi l’esperienza di ciò che è altro da sé (costante del suo cinema) e della devianza dalla norma, vale a dire le condizioni in cui si trovano i galeotti-astronauti, senza neanche la speranza di poter ritornare alla vita, avvolti e travolti dalla rarefazione cosmica; il modo in cui l’essere umano vive il desiderio e la propria sessualità in un ecosistema difforme, primigenio e ancestrale e infine come questo nuovo ambiente condizioni i prigionieri, determinando nuove forme d’esistenza.
Se si analizza il cinema di Claire Denis, e nel caso di High Life, soffermandosi sul rapporto che si instaura tra i personaggi e i “paesaggi”, i luoghi dove sono posti – (s)confinati nello spazio e nell’astronave, zone grigie, di sospensione di categorie e prassi e norme etiche – ci si rende conto della poetica determinista della regista, mutuata dal pensiero del filosofo francese Jean-Luc Nancy e dichiaratamente esposta nel cortometraggio Vers Nancy: c’è l’uomo che con le sue qualità, esperienze e i suoi stati d’animo plasma l’ambiente e il mondo circostanti, in un rapporto di interazione reciproco che parte dal suo bisogno di sentirsi libero, e lo spazio diventa quindi un prolungamento, un’estensione del suo patrimonio intimo. Magnetica e febbricitante in High Life è, in questo senso, la scena della fucking box, stanza adattata in base ai desideri sessuali degli uomini e delle donne presenti sull’astronave e teatro di una delle sequenze di autoerotismo più forti e impietose mai avute sul grande schermo, vicine solo Borowczyk: una monumentale Juliette Binoche dà sfogo a ogni sua pulsione ed energia, pervenendo all’orgasmo in maniera solipsistica, come se lo spazio si modellasse sul corpo stesso, e la fuoriuscita di tutti quei fluidi e liquidi caliginosi dalla stanza ne rappresenti la concretizzazione, la resa plastica e organica, assistendo di conseguenza allo svuotamento di significato dell’atto sessuale, senza alcuna possibilità né intenzionalità di contatto tra i membri dell’equipaggio.
E se nel precedente L’amore secondo Isabelle il rapporto sessuale e godimento che dovrebbe esserne parte congiunta divengono impossibili, nel senso di un’impossibilità di «fare Uno con l’Altro» - il personaggio di Isabelle è perennemente ondivago, mai compiuto o un tutt’uno con l’altro, in cerca di un amore che “dovrebbe” compensare questa lacerazione – in High Life la Denis radicalizza questa riflessione: ci sono piuttosto freddezza e indifferenza sostanziali e l’incontro sul piano fisico e intimo non viene mai cercato. Immagini che permangono in un ricordo vivido, flagrante nonostante il sovrapporsi di altre visioni e ancora altre immagini: e graffianti, quelle della regista parigina, incidono la cute per restarvici, stabilendo un contatto che passando attraverso le superfici, fendendole, e quindi tramite un percorso conoscitivo che trae dai sensi e dalle capacità percettive la sua linfa, va poi a insinuarsi nei cortocircuiti emotivi di chi osserva.