Il 27 febbraio 2025, il divo del cinema Leo Di Caprio ha visitato il Vittoriale di Gabriele D’Annunzio, recando seco la fidanzata del momento, italiana. Di Caprio non ha rilasciato dichiarazioni ai giornali; ci ha pensato Giordano Bruno Guerri, intellettuale per mancanza di prove, direttore del Museo, a parlare senza risparmio di colpi. Ha raccontato al CorSera della meraviglia di Leo innanzi a tutte quelle strambe memorabilia, sottolineando la sua curiosità per quella prora precipitata sui monti, vista lago.

La prua della nave da guerra Puglia, gli ha illustrato Guerri, ricevuta in dono dalla Marina Militare, messa lì a struggente, dolente ricordo dell’eroica impresa di Fiume. Parole in libertà non vigilata, narrazione tendenziosa, manipolazione della memoria, revisionismo. Non risulta infatti che D’Annunzio abbia mai posto piede su quella nave durante la Prima Guerra Mondiale. La nave non ha nemmeno attinenza con l’impresa di Fiume, se non per le due giornate di rappresaglia, ordinate da D’Annunzio contro la popolazione slava, in risposta al fallito blitz della Puglia e della Marina italiana nel porto di Spalato. A proposito dell’eroica impresa di Fiume, è bene chiamarla per quello che è stata: un’occupazione militare, un’oppressione, una violazione dei trattati internazionali.

La figura di Gabriele D’Annunzio è in effetti una delle più polarizzanti nella storia e nella cultura italiana: se ne sottolineano, di qua del confine, i grandi meriti letterari, con dovizia di monumenti, strade, scuole dedicate. Se ne tacciono le brutture, i demeriti, i crimini politici. Il consenso per questa lettura coartante è bipartisan, ed ha tanto a che fare con il famigerato rimosso italiano, quel compromesso ideologico per il quale non si è mai estirpato alla radice il cancro dell’italico nazionalismo, quindi del fascismo. D’Annunzio sarebbe, a detta di molti, una sorta di ur-fascista ma colto, romantico, sognatore, avulso dalle atrocità e dalle vergogne di Mussolini e dei suoi accoliti. Anzi, per meglio dire, D’Annunzio nemmeno sarebbe ur-fascista, ma, cito Guerri, un intellettuale che «ha costruito il mito di sé stesso».

Il cinema ha supportato questo nostalgismo da grandeur nostrana. Il Cattivo Poeta, film di Gianluca Iodice, tratteggia il dolente crepuscolo del vate – un azzeccato, spontaneamente ideologico Sergio Castellitto – negli anni del suo ritiro al Vittoriale. Ne evidenzia lo iato con Mussolini, fa coincidere i suoi deliri visionari da cocaina con l’eroico – ancora, sempre eroico per lui – tentativo di fermare l’alleanza con Hitler. D’Annunzio, il titano, solo contro lo sprofondo bellico ordito dalle forze dell’Asse. Ancora una visione coartata quindi, ancora il dandy ultracolto ultrasensibile che colpe non ne ha. Ci prova poi un grande regista britannico ad illuminare meglio la penombra della disinformazione, con M – Il Figlio del Secolo.

Nell’acclamata serie, tratta dal romanzo di Antonio Scurati, Wright tratteggia alcuni cenni dell’occupazione di Fiume. Sull’auto di D’Annunzio, che capeggia la colonna del suo reggimento, Wright colloca un cameraman con tanto di macchina da presa dell’epoca, una sorta di giornalista embedded ante litteram. Chiara l’intenzione di svelare il carattere propagandistico della missione. Di svelare, o di semplificare? Successivamente, Wright mette in scena l’incontro, a Fiume, tra l’autoproclamatosi comandante e il Benito rising star. Mussolini Luca Marinelli subisce la prosopopea di D’Annunzio, poi, mellifluamente, la volge in suo favore, cogliendo nella vanità il punto debole dell’interlocutore. Anche qui una visione in fin dei conti bonaria, la vanità di un eccentrico come peccato veniale rispetto alla hybris del duce. Conta certamente il materiale letterario di provenienza, le pagine grondanti ammirazione che Scurati dedica a D’Annunzio nel suo romanzo: presagio, non captato, della improvvida chiamata alle armi in funzione anti Putin, che lo scrittore affida al quotidiano Repubblica all’inizio di marzo 2025, buttando intellettuali e gente comune nello sconforto.

Poi, repentina e squassante come una folgore, giunge una notizia dal prestigioso International Film Festival di Rotterdam. Il film Fiume o Morte! vince il Tiger Award come miglior film nella competizione principale, e si aggiudica anche il premio FIPRESCI. Questa la motivazione della giuria: «un film in cui le persone e gli spazi pubblici vengono usati per esplorare il passato attraverso il prisma dell'Europa contemporanea. In tempi di ascesa dell’ultranazionalismo nel contesto europeo contemporaneo, il film si confronta giocosamente con il passato non come un capitolo chiuso, ma come una realtà viva». In queste parole, chirurgiche, il senso, la forza sovversiva di un’opera destinata a diventare un classico.

Il regista è Igor Bezinović, non italiano ma croato di Rijeka, la città che prima si chiamava Fiume. Come osservano acutamente i Wu Ming, Bezinović ha due grandi intuizioni. La prima è di rappresentare un evento storico non più con gli occhi di chi lo ha agito, ma dal punto di vista di chi lo ha subito (le etnie slave) e quindi è stato precipitato nel rimosso. La seconda è di realizzare una rappresentazione collettiva: chiama infatti alla partecipazione l’intera popolazione di Rijeka attraverso annunci in radio e tv, incontrando un entusiasmo diffuso ed una sola, prevedibile difficoltà. La maggior parte della popolazione, infatti, non ha ricordo o informazione sulla famigerata eroica impresa di Fiume.

Se questo oblio, questa amnesia è pressoché fisiologica tra le giovani generazioni di ogni parte del mondo, fa specie tuttavia che anche parecchi anziani ignorino i fatti accaduti lì un secolo fa. Fa specie soprattutto perché la narrazione italiana, torno a ripeterlo, se ne nutre impunemente ancora oggi. Preliminarmente alla definizione del suo casting di volenterosi, Bezinović si diletta nelle interviste in strada, chiedendo ai passanti chi fosse D’Annunzio. I pochi che ne hanno notizia, o reminiscenza, lo definiscono senza esitazioni fascista. Non poeta, né eroe, né soldato. Fascista. Il marchio gli è attribuito da gente croata, italiana, da chiunque, tanto che alcuni figuranti, scelti per interpretarlo a turno nelle diverse fasi del film, si fanno scrupolo di poter essere stigmatizzati come fascisti. 

Fatte queste premesse di percezione, Bezinović procede nel voler condurre una rievocazione storica nei luoghi dove gli eventi si svolsero. Si avvale del supporto documentale di filmati di repertorio, foto e illustrazioni dell’epoca. Non va a cercare i discendenti di chi ebbe ruolo o fu investito da quei fatti, e questa pare una scelta drammaturgica precisa, che lo allontana da un’opera per altri versi molto simile quale il pluripremiato The Act of Killing, di Joshua Oppenheimer. Più di cento anni sono passati dall’occupazione di Fiume, e quei luoghi hanno cambiato, prima di tutto, nome. Non c’è più una Via Roma, una palestra, una scuola o una caserma intitolata a D’Annunzio, come accadeva durante l’occupazione.

La fine di quell’esperienza e le successive peripezie della città hanno portato ad un repulisti odonomastico, che ha cancellato ab origine la possibilità di commemorazioni tendenziose. Confrontando la realtà del contesto attuale con quella che emerge dai documenti, Bezinović sembra incontrare la cifra stilistica dell’inglese Steve McQueen, premio Oscar per 12 Anni Schiavo. Nel 2023 McQueen ha distribuito Occupied City, un documentario dalla durata monumentale (36 ore la directors’ cut). in cui ricostruisce la memoria dell’occupazione nazista di Amsterdam raccontandola con la voce degli abitanti di oggi e con le immagini della Amsterdam di oggi. Una città altra da allora, ma al contempo sempre la stessa, sempre Amsterdam, lì e non altrove. L’intento comune ai due registi, ai confini della videoarte, è di rendere giustizia ai fantasmi, più o meno pacificati, più o meno dimenticati.

Il medesimo intento, a ben guardare, di Luca Guadagnino, con il suo Inconscio italiano, presentato fuori concorso al Festival del Cinema di Torino nel 2011. Inconscio italiano è un documentario diviso in due parti. Nella prima, le testimonianze di storici e studiosi in funzione antirevisionista. Nella seconda, un lavoro visuale sui filmati della colonizzazione italiana in Etiopia. Dalle note di produzione: «Negli archivi dell’Istituto Luce sono state visionate e selezionate un gran numero di ore di immagini di repertorio, concentrate nella parte finale del film – lunga 30 minuti –e montate sulle note di Harmonium di John Adams, Guadagnino e Cito Filomarino si sono avvalsi di strumenti quali il rallenti, zoom in e zoom out, immagini in negativo, e altre strategie tecnico-artistiche, per svuotare le immagini di repertorio della propaganda fascista e, così facendo, risignificarle, andare alla loro radice “Reale” come la prassi analitica vuole».

Da Inconscio italiano, a Fiume o Morte!: un altro modo di guardare alla Storia, che all’uscita fu tacciato di blasfemia e di manipolazione anche dalla critica più illuminata, mentre oggi, in un contesto internazionale di assoluto rilievo, viene compreso ed esaltato. Tornando alle motivazioni per il premio di Rotterdam, spicca in modo inedito quel «si confronta giocosamente con il passato», adoperato dalla giuria. Coglie infatti tutto il potere corrosivo – alcuni lo hanno definito punk – della rievocazione allestita da Bezinović, sempre sul filo della gag, della farsa, della commedia irriverente. Una rievocazione depurata, appunto, da ogni contaminazione propagandistica, ma pur sempre attenta ad evidenziare i soprusi e le responsabilità politiche di D’Annunzio, anche quelle meno note per mancanza di documentazioni e foto, quali le “libere” elezioni indette e poi annullate dal vate, con violenze varie, per il fondato timore che non fossero un plebiscito a suo favore.

O l’ordine di esilio ai fiumani di lingua croata, dopo 48 ore di saccheggi e devastazioni, in risposta ai fatti di Spalato. O la sua lettera di sostegno ai fascisti che devastavano le sedi delle associazioni slave di categorie a Trieste. Filo conduttore tra le scene(tte) di azioni è il racconto, anche questo a più voci, collettivo, in dialetto fiumano, il Fijumanski oramai desueto, che a quei tempi costituiva un argine, un atto di resistenza contro l’italianizzazione imposta. Il gioco di Bezinovic è pertanto molto acuto, e nella leggerezza che egli stesso trasmette ai suoi attori improvvisati si riscontra la solennità del giudizio storico, di condanna certo, ma ancor più di irrilevanza rispetto alla grande storia di una città di confine, che solo nel corso del ‘900 è appartenuta a nove Stati diversi.

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