Riprendendo il filo del discorso, anche se sarebbe bella una fuga dal discorso, una pura gestica, meccanica, la flagranza dell'immagine, del suono, come auspicava Derrida, osservata e goduta finora, la fuga, solo in Ema di Larrain, torno a Baumbach, al suo Marriage Story, discorso molto competente sulla coppia e le sue (in)congruità (di chi conosce bene la materia) e per certi versi straziante nel momento della coscienza dello iato (in)eluttabile, con corollario d'amore; ripensando magari all'epigrafe truffautiana della Signora della porta accanto: «né con te, né senza di te», e non escludendo il ritorno sulla base del Bez Konca.

In effetti mi capita spesso di pensare al capolavoro kieslowskiano quando mi trovo di fronte a un film d'amore o all'amore per il film, che sono la stessa cosa: e allora mistificando, tolgo o aggiungo cose ai meri dati della visione, lavorando d'immaginazione (che non è mai invenzione di sana pianta, ma inferenza, conseguenza, rimuginazione degli indizi), in modo che tutto collimi con la regola universale del Bez Konca o tuttalpiù con il Piccolo film sull'amore.

Questa volta ho aggiunto un filnale: insomma, dicevo, non escludo il ritorno. Fatto sta che Baumbach una volta tanto sfrondandosi della solita messe di vezzi giovanilistici o pseudointellettualistici, bada al sodo, e lo mostra, rassodando la sua scrittura e arrivando a mostrare l'alterco, la violenza verbale, anche fisica nella coppia, nel momento della separazione e della gestione del figlio (testimone un muro sfondato da un pugno); e poi il crollo, il pianto impudico di Charlie inginocchiato davanti a Nicole (Scarlett Johansson), esausto, sconfitto.

Mentre Gastòn e tutti gli altri increduli coprotagonisti di Ema non restano neppure sconfitti: semplicemente attoniti, impotenti di fronte all'ottusa, instupidita esuberanza di Ema (una magnifica Mariana Di Girolamo, forse il volto e il corpo più attraenti visti finora), che attraverso la sua spietata, endemica vitalità, mentre si immerge nel caos e nella cacofonia del mondo (il reggaetton), e li riproduce a forza di coiti e mosse di ballo, raggiunge i suoi obiettivi, come il Forrest Gump di Zizek (il mondo è di chi è inconsapevole: in lui e attraverso lui l'ideologia, io lo chiamo il soffio del tempo, attecchisce e si esprime al meglio): cioè la distruzione della famiglia o, se si vuole, la ricontestualizzazione (imbarazzante) della famiglia, con due padri, due madri e corollario di amanti.

Ema è il frutto del contemporaneo: sfacciato, tutto selfie e balli latino-americani in ostensione stradale: un esibizionismo idiota ed estremamente vitale, eppure produttivo, che convive con un'idea resistente e impotente di kultur, quella di Gastòn, regista intelligente ma sterile (il fisico non tiene, ma qui, oggi, è tutta questione di fisico, di "immagine"), un «profilattico vivente» lo definisce con impassibilità divertita Ema, al quale non resta che la prerogativa di parlare, con grande arguzia, come quando fa un discorso (già divenuto di culto) contro il raeggaeton, restando inascoltato, che già Ema serpeggia per la città.

Infatti lei, creatura ineffabile e animale, preferisce scodinzolare sui banconi dei bar, omaggiarne il vile legno, con la carne soda (e sorda) delle natiche, piuttosto che esibirsi su un palcoscenico al ritmo delle musiche di Nicolas Jaar e con uno sfoggio quasi trascendente di colori, luci, atmosfere create dal coreografo. Un linguaggio che scintilla, e dal teatro passa al cinema per divenire lo strumento di Larrain, dopo la moria, la marcescenza dei film precedenti coi picchi, anzi le catabasi, di El Club e Neruda: ora è un liberarsi degli schemi, delle stretture narrative che ad esempio erano di Neruda (specie di incubo narrativo, anzi incubo della narrazione), così il film procede per salti, ellissi, lacune di sceneggiatura, dialoghi improbabili, affilati e monchi, che ne fanno un impasto d'aria, di vuoti sonanti, di albe e tramonti infuocati. E forse l'agnizione finale, la riconduzione di tutta questa follia cinematografica (lo Spring Breakers cileno) a una conclusione, è l'unico difetto di questo film furente e demente, inno e ghigno del contemporaneo.

 

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