La recente monografia sul regista di Pozzolengo, edita sull’ultimo numero del Quaderno del Cinemareale (novembre 2018, anno III, N. 3), accoglie visioni screziate su un’opera che si presenta unica, originalissima, assolutamente costitutiva di un modo di fare cinema che è modo di guardare, di esistere e di stare al mondo. La prassi della creazione, che passa per la scrittura, per l’esperienza sensoriale delle riprese e poi anche per il costituirsi progressivo delle scene, porta alla luce tutto un dispositivo in divenire che si mostra attraverso le ri-costruzioni critiche e di poetica sia degli autori che dello stesso Piavoli.


Voci differenti ripercorrono la storia delle opere del cineasta: da quelle di Francesco Andreotti insieme a Livia Giunti e a Pinangelo Marino (autore, quest’ultimo, anche di uno studio su Nostos, identificando nell’«attesa» il suo specifico) sulla nascita dell’idea, la scelta del soggetto e la dialettica delle inquadrature – il loro soffermarsi sull’analisi delle scene de Il paradiso terrestre si intreccia alla questione del ricordo della nostra «origine organica, animale» nel binomio sensi-immaginazione, ed è il regista a rispondere «dove» si collochi il suo «sguardo», da Nostos, a Voci nel tempo, a Festa con incursioni nelle vicende autobiografiche –  ad un’altra «conversazione», ad opera dello stesso Marino, con Luigi Mezzanotte intorno a quell’«iper-realismo metaforico» che è Nostos, nella duplice forza del ritorno e della seduzione, nonché al lavoro dell’attore a quel «sottotesto» contrapposto al testo della sceneggiatura e che è fatto di suoni, di immagini, di tempo naturale e soggettivo.

La «prospettiva evoluzionista» con la quale Andreotti chiude il cerchio «cosmogonico», fondatore di senso, di mondi è tipica di questa modalità consapevole e avanguardistica di fare cinema; ricorrendo nei contributi di Alessandro Faccioli su Il pianeta azzurro, intriso di citazioni leonardesche, corrispondenze naturali nella ciclicità del tempo ma anche letterarie, pittoriche e musicali alle quali Piavoli introduce il lettore tramite un’operazione di destrutturazione delle immagini e dei suoni, fondata su teorie filosofiche che richiamano Bergson e Teilhard de Chardin per il loro porsi a metà strada tra evoluzionismo e creazionismo. E ancora Marco Bellocchio e Silvano Agosti conversano con Antonio Capellupo di quel particolare modo «[…] di vedere, così come di creare, la realtà con il cinema» e come Il pianeta azzurro fosse approdato alla 50a edizione della Mostra del Cinema di Venezia.

Della persistenza dell’arcaico, soprattutto nei primi testi di Piavoli, scrive anche Marco Bertozzi «[…] per suggerire aggressività biologiche appartenenti alla “bestia umana” […]» ossia ciò che attiene alla bestialità della vita, del corpo e delle emozioni; Augusto Sainati colloca invece la «[…] storia del riconoscerci attraverso il mutare dell’esperienza […]» nella «sofferenza» della scrittura, che in Piavoli diventa racconto, ricerca dell’idea, immagine che nasce dal buio, dal caos dell’informe che necessita di essere «trattato», creato.

Non una sceneggiatura ma un «trattamento» è infatti Il paradiso terrestre, con cui si apre la monografia: dettagli sui campi e particolari naturali sono dal manoscritto svelati allo stesso modo che gli oggetti in primo piano, in una dinamica di attualizzazione delle immagini che si innesta su un substrato teorico ed empirico che molto attiene alla filosofia poiché la vicinanza dei piani, tanto accentuata da restituire agli occhi la geometria delle linee, decodifica, fino al campo fermo della luna nell’assenza di vita, uno stare dell’autore sempre in una condizione di provvisorietà del girare (del guardare) con un’intenzione esplorativa del reale – affondando quest’ultimo le proprie radici in un tempo e in un luogo immemori, perché coerenti con il proprio essere parte costitutivo della natura e dell’uomo.

Cosicché identificare protagonisti «gli occhi, le orecchie, la bocca, il naso, la pelle, la pera, la mosca, le foglie» (Il paradiso terrestre) oppure «fili di ragno. Capelli fuggenti […] Farfalle. Api. Libellule […] La luce trascolora: dall’alba al meriggio alla sera alla notte e di nuovo all’alba…Piove sui loro corpi nudi…» (Nostos -Il ritorno) – e il tratto intensivo delle fotografie del 1953: gli occhi sfocati nel riflesso della finestra, il caschetto bagnato nella luce fioca del sole, le espressioni ficcanti degli uomini sotto i cappelli, i piedi scalzi, terrosi, puntuti come le stoppie in campo lungo del bambino imbronciato nei calzoni corti, e le corse infantili con la ruota di un carro antico sullo sfondo; le ombre randagie sul selciato del Meriggio, dietro i muri scalfiti, scalcinati, le imposte chiuse; la luminosità filtrata e diffusa dall’alto sui corpi danzanti, il particolare degli sguardi isolati dalla folla in primo piano; poi, all’opposto, la desolazione del lenzuolo sgualcito su cui s’apre il cielo del comignolo, del tetto – partecipano all’intento nominale di esistenza, sussistenza degli oggetti, del creato: nella sintesi primigenia degli elementi che scandisce lo storico, primordiale ammutinarsi delle forme, dotate di propria vita dietro la macchina da presa.

Invece all’esperienza sul set di Il pianeta azzurro di Paola Agosti si uniscono idealmente i ricordi del Maestro provenienti dall’infanzia di Alessandra Agosti, cui si aggiungono altri ricordi, quelli di Claudio Casazza che, a proposito di Habitat, documentario girato insieme a Luca Ferri, testimonia del profondo equilibrio del regista fra natura e uomini, realtà e finzione. Di Habitat più in particolare scrivono Giulio Sangiorgio e, appunto, Luca Ferri: il primo ponendo l’accento sullo scivolamento strutturale, semantico che Piavoli mette in atto, operando perennemente, reiteratamente un decentramento degli oggetti in fase di montaggio, nonché del loro portato polisemico, come se fossimo dinanzi ad una sorta di «sfasamento di prospettiva»; il secondo, intrecciando alla memoria disquisizioni metacinematografiche sull’importante ruolo del linguaggio e del cinema come medium.

Allo stesso modo, la proliferazione dei segni, dotati della capacità di pulsare, di dare cioè «[…] vita, che è appunto pulsazione, ritmo vitale, slancio: in un certo senso, parafrasando Truffaut, il passaggio stesso tra la Gioia e l’Agonia, come movimento incessante e continuo» (Daniele Dottorini) converge da quelle visioni in uno studio sul discorso del tempo, qui colto nei sincretismi con Vigo, Ruttmann e Vertov: circolare, ritornante, sinestesico, simultaneo, toccando Gilles Deleuze; oppure in Voci nel tempo la dimensione temporale è ritmata analizzando nei dettagli la pellicola, descrivendone le inquadrature come appartenenti ad un «poema lirico in quattro canti» (Adriano Aprà); grondante, questa voce – del tempo –, poesia, che è «[…] un’ellissi del concetto, una fuga dal discorso, direbbe Derrida […] trasfigurazione del segno […]» nel contributo di Luigi Abiusi il quale, nella musica del simbolo, richiama Pascoli, senza tralasciare nel «desiderio dei nomi» di Piavoli altre presenze liriche spazio-temporali persino tra loro discordanti, come quelle di Pasolini, degli ermetici, di Campana: e indugiando con la scrittura sul finale, sulla neve, nel quadro emerso con le grida sul Canone di Pachelbel.

Ed è tutto il cinema di Franco Piavoli un tripudio danzante, al culmine della gioia o del dolore: «Un nugolo di moscerini danza nell’aria, nel residuo di un raggio solare».

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