Sin dai suoi esordi, lo slasher movie (sottofilone dell'horror caratterizzato da assassini seriali all'arma bianca) si è caratterizzato per una coazione a ripetere l'omicidio che diventa tentativo di disincarnare l'atto violento stesso. La ripetitività meccanica del congegno narrativo concretizza la sostanza del racconto nell'accumulo segnico che diventa traccia iperbolica e pertanto astratta.
La sperimentazione sulle possibili variazioni degli attacchi e degli oggetti utili allo scopo, e sul numero delle vittime, tanto più significativo quanto è alto, segna la transizione dall'omicidio alla pratica del “body count”, la conta dei corpi – perché tale è la dinamica cui tutto è ricondotto, una ricognizione sul “corpo”, prima ancora che sulla persona, dove non a caso gioca un ruolo fondamentale anche l'atto sessuale o la sua implacabile repressione.
L'astrazione del gesto viene così sublimata dallo stile di ripresa in soggettiva assoluta, utilizzato non soltanto perché lo spettatore sia partecipe (e complice) del punto di vista dell'assassino, ma anche per rendere il dispositivo cinematografico stesso il reale artefice degli attacchi. L'intera sovrastruttura visiva e uditiva si attiva, si appropria dello spazio filmico trasformando l'inquadratura in un oggetto affilato e contundente che affonda nel corpo altrui. Il celebre incipit di Halloween – La notte delle streghe di John Carpenter è lì posto a perenne monito di questo slittamento di senso, con la soggettiva del piccolo Michael Myers che spia e uccide la sorella: mentre seguiamo la sua ricognizione negli spazi esterni e interni della casa e sentiamo il suo roco respiro, siamo “dentro” la mente dell'assassino.
Ma nel momento dell'attacco, quando le pugnalate si susseguono veloci, la mdp si sposta a inquadrare la mano che colpisce a ripetizione, segnando uno stacco di senso: perché l'assassino dovrebbe “guardare la propria mano” colpire, quasi a considerarla altro da sé, se non per mero espediente cinematografico volto a mostrare a noi spettatori la forza percussiva del gesto? La soggettiva diventa in quel momento un'oggettiva in cui il cinema ribadisce la centralità della propria messinscena, sublimata poi dal controcampo finale che illustra il totale della scena del crimine con lo smascheramento del giovane assassino.
Sebbene la fase iniziale del genere cerchi spesso un appiglio narrativo di tipo psico-patologico (quasi sempre il killer è mosso da un trauma legato al passato), nel tempo il gioco si fa esplicito nella sua posa in opera di un meccanismo che è soprattutto un artificio cinematografico, in cui sono gli elementi sopra elencati a fare la sostanza del racconto, al di là di ogni possibile chi e perché. Un primo possibile punto di arrivo è rappresentato dalla saga di Scream che in mano al genio di Wes Craven ribadisce il gioco metanarrativo delle “regole”, innestandole su una narrazione che nel suo farsi rimanda in senso postmoderno a una classicità perduta. Ma è anche la stessa azione disincarnata di assassini sempre più astratti, nascosti dietro maschere intercambiabili – nella saga di Scream ogni volta è un personaggio diverso a indossare il costume – o addirittura frutto di una forza che eterodirige il mondo. A cavallo del millennio, la saga di Final Destination sancisce l'approdo a una dimensione extra corporea, in cui la Morte stessa colpisce le sue vittime con precisione balistica, utilizzando lo spazio scenico come arma dalle risorse infinite.
Non c'è più un assassino concreto, nemmeno una maschera che ne sintetizzi la natura ossessiva e diabolica, ogni simulacro è bandito per diventare espressione di un cinema che si esibisce nell'inventiva con cui reimmagina a ogni passo il set e la sua rappresentazione transitoria da semplice luogo dell'azione a trappola di morte. In Final Destination 2 (il migliore della saga), la regia è affidata a David R. Ellis, forte di una gavetta come stuntman e direttore di seconda unità, quindi una figura che bene riesce a capire l'importanza scenica del corpo quale strumento espressivo e del set come ricettacolo di infinite possibilità di utilizzo della macchina-cinema, degli attori e dei tempi narrativi. Rispetto al capitolo iniziale, Ellis esaspera la natura paradossale di un racconto astratto nel giocare con le leggi della fisica (spesso dribblandole quando la necessità espressiva lo richiede) ma concreto nel rimettere al centro il corpo quale contenitore da smontare e offendere nel parossismo dell'effetto splatter – e gioverà ricordare come il film segni di fatto il ritorno a un horror più fisico dopo l'autocensura che aveva afflitto il genere nei Novanta. Della saga si attende ora il nuovo, imminente, capitolo, dopo oltre dieci anni di silenzio.
Nel 2024 è invece un ex tecnico degli effetti speciali a intervenire sul tema. Con il sorprendente In A Violent Nature, Chris Nash riprende i codici essenziali del filone sublimandone la componente panica. Il suo killer Johnny riemerge dalla terra, profanata da alcuni avventori che hanno sottratto un pendaglio dalla sua tomba, per farsi forza espressiva della natura che si riappropria di ciò che è suo, a scapito degli incauti umani. La trovata vincente di Nash è accompagnare la missione di Johnny in lunghi piani sequenza in cui il suo corpo putrefatto attraversa lo spazio boschivo, lavorando sulla dilatazione dei tempi narrativi, fino a rendere il mostro un tutt'uno con il proprio ambiente.
Il killer uccide tradizionalmente con feroce sistematicità, ma ciò che conta è la forza espressiva astratta di un muoversi nello spazio che diventa timor panico rispetto a una “natura violenta” di cui il mostro è espressione e propaggine. Eliminando ogni artificio che non siano i suoni del bosco incontaminato e del killer che lo attraversa, In a Violent Nature diventa esperienza a un tempo terrificante e meravigliosa: lo spettatore segue la “missione” assassina, partecipando della spietatezza implacabile di una dimensione selvaggia che non concede sconti all'umano disturbatore. Ma, al contempo, l'immersione in quello spazio incontaminato, esasperato dalla sapienza cinematografica che ne sottolinea spazi, suoni e cromatismi ora naturalistici, ora più marcati, riverbera la sua peculiare bellezza. L'impressione è come ritrovarsi alle prese con un Lav Diaz in riscrittura horror, tale è la presenza scenica imponente della natura rispetto alle dinamiche che coinvolgono gli umani.
In questo senso, l'omicidio quando avviene è iperbolico come da tradizione, scioccante ma anche (e ancora) disincarnato anche se compiuto da mano feroce e con esiti devastanti per il corpo. Nash lavora costantemente sulla forza della dimensione panica offerta dal mostro-natura, creando uno sfasamento fra la percezione horror della missione omicida e il fascino/timore poetico per l'ambiente. Il tutto trova una perfetta sintesi nel finale in cui l'unica sopravvissuta osserva con crescente tensione il fogliame da cui potrebbe o meno comparire ancora una volta il mostro: Nash “tiene” l'inquadratura a lungo senza sciogliere la riserva, consapevole com'è che ormai la partita è nelle sue mani. L'horror ha definitivamente disincarnato la mano assassina consegnandola alla dimensione assoluta del cinema e di tutte le sue possibilità: un gatto di Schrodinger perenne in cui lo spazio e l'orrore esistono e si negano contemporaneamente.