Gli occhi deragliano tra le nuvole in lento movimento, ne seguono gli spostamenti, con un ritmo ipnotico, come in una danza arcaica, si perdono negli spazi sconfinati, si elevano al di sopra di ciò che è terreno, spingendosi oltre, verso approdi mitologici. La visione della mdp è rapita da una natura arsa dal sole, in un bianco e nero tagliente e lancinante, echi poetici in cui il vento canta la sua canzone tra i rami degli alberi. Un incipit di una bellezza straziante, una sinfonia, armonica e sontuosa, in cui il tempo è dettato dalla natura e dalle sue sonorità.


Una bambina, sola, percorre a piedi nudi un non luogo, sotto una luce abbacinante, attraversa spazi urbani e rurali abbandonati, in uno scenario postapocalittico; il silenzio avvolge tutto, cosa è mai accaduto? Una voce esce dall’autoradio di una macchina capovolta sulla strada, da un flusso di parole che si rincorrono, rimangono le domande: «Who is the killer? Who Killed the future?» . Slittamenti delle immagini, tra suggestive sinestesie e simboliche metafore, riempiono lo schermo di potenza visionaria, richiami eschilei all’Orestea impreziosiscono l’opera.

Under the Sky, di Michele Salimbeni, proiettato a dicembre a Roma, nell'ambito della seconda edizione della rassegna Fuorinorma, diretta da Adriano Aprà, è un magma immaginifico che relega il logos in spazi ristretti, avvalendosi di immagini dense e catalizzanti che rendono lo sguardo vittima della fascinazione, uno straniante viaggio nella mente, una sperimentazione visiva anarchica che va oltre il nomos, «The mind is the killer!» .

Under the sky comunica per immagini con una lirica che raggiunge picchi altissimi, soprattutto nel finale, cupo e a tratti feroce, pregno di significati filosofici e in cui i piani temporali, grazie anche all’alternanza tra bianco e nero e colore, slittano l’uno sull’altro fino a confondersi. Michele Salimbeni affascina con la sua regia e regala allo spettatore una magia arcana, tra piani sequenza e riprese a mano, che rincorrono da vicino la piccola protagonista, la giovanissima Carolina Vinci, vista precedentemente in Les bronzèes 3, di Patrice Leconte, nel 2006.

La messa in scena, allestita in un futuro distopico post-apocalittico, è immersa in una poesia onirica e tratteggia un itinerario perfetto nella costruzione tra narrazione filmica ed eleganza stilistica. Salimbeni dirige il suo primo lungometraggio ma vanta alle spalle un ampio curriculum come regista teatrale e sceneggiatore. Sua la sceneggiatura de I magi randagi, di Sergio Citti, nel 1996; ha collaborato come sceneggiatore ed aiuto regista con Dario Argento e Sergio Stivaletti e la sua carriera spazia dal cinema al teatro, dirigendo cortometraggi e spettacoli tratti dalle opere di Shakespeare, Dostoevskij, Nietzsche, Buñuel e Andrzej Zulawski. Salimbeni confeziona un’opera di grande forza visionaria, usando un linguaggio narrativo denso e una poetica stratificata e misticheggiante che si avvale di un’estetica filmica in bilico tra Bela Tarr e Tarkovskij, ma mantenendo una sua forte autonomia stilistica.

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