All’esterno della modesta abitazione di Earl Stone, in Illinois, sventola appesa una bandiera a stelle e strisce, nobile vessillo d’America. È il primo dettaglio a risaltare nell’inquadratura con la quale si apre il film di Clint Eastwood – non avrebbe potuto essere altrimenti – , che poco dopo non manca di rimarcare con irriverenza un veloce scambio verbale con i dipendenti messicani della sua attività di floricoltura.
Soggetto senza troppi filtri nell’uso del linguaggio, continuamente inadempiente nelle relazioni familiari andate in malora, Earl è già dalle prime battute un personaggio che segna la traccia del tempo: reduce della vecchia guerra di Corea, si dedica adesso con estremo amore e dedizione ai fiori che conservano la loro bellezza per un solo giorno, simbolo assoluto dell’effimero; padre (e marito) sempre sbagliato, incapace di cogliere l’importanza dei valori familiari nel loro tempo esatto, inesorabilmente in ritardo sull’amore, mancante rispetto a ogni legame o responsabilità durevoli. Il tempo socio-tecnologico che avanza investe Earl – e tutti quelli come lui – nel giro di poco più di un decennio, costringendolo a fare i conti con la digitalizzazione forzata e la smaterializzazione di ogni corpo e volto; cosicché, persino i contatti essenziali tra i narcotrafficanti avvengono ora per il tramite di uno smartphone usa e getta e le prove in mano alla polizia sono scatti istantanei ottenuti con un semplice clic. L’evolvere del tempo e la sua inesorabilità sono racchiusi, inoltre, in quel cartello di pignoramento che campeggia di fronte ai pochi possedimenti di Earl, quasi un’esilarante beffa per chi come lui aveva tuonato un deciso «Internet: a chi serve?» anni prima, inconsapevolmente naïf rispetto all’andamento di un mondo cambiato al ritmo della rete.
Il personaggio accede così a un’epoca pressoché respingente nei confronti della corporeità, nella quale – evidentemente – non ci sono più fiori da curare con perizia per la bellezza di una sola giornata; un tempo nuovo eppure già datato da un pezzo, in cui il corpo anziano e curvato su di sé di Earl(-Eastwood) sembra provenire da una dimensione “aliena” e perturbante, troppo incarnata, troppo inosservante delle regole degli altri e imprevedibile rispetto ai codici e ai protocolli già scritti. Su questo livello “di superficie” riconosciamo il déjà-vu riprodotto dalla presenza doppia, in carne e ossa, del regista/attore Eastwood, sorta di fantasmatica figura riemersa dalle antiche radici del cinema americano che ben conosciamo – una citazione en passant a James Stewart non resta inosservata – , del quale rinnova la linfa ogni volta. Eastwood torna a incarnare l’anziano americano medio e anti-eroe scazzato e che non ha paura di niente (Gran Torino, 2008); ma è al contempo un combattente scanzonato e solo apparentemente ingenuo, che attraversa enormi distese texane d’altri tempi con pazzeschi carichi di droga sul retro del suo pick-up; colpevole di un grave reato eppure sempre così gentile e innocente nei modi e nei gesti del suo vagare in un tempo rinnovato. Earl si mette liberamente in movimento seppure in una situazione non favorevole; attraversa – persino linguisticamente – tutta un’epoca e una società dalle quali si prepara a uscire in modo definitivo, incontrando “lesbiche”, “negri”, messicani “mangiatori di fagioli” e reputati a prescindere criminali; ritrovando infine – per il tramite di insoliti scambi umani – , il senso vero di quell’errare nel deserto.
L’azione del cinema eastwoodiano è in questo caso sempre “di scarto”, (fuori)luogo letteralmente, minata alla base dall’anticonvenzionalità dell’operare (o non operare) del personaggio anti-eroe (Ore 15:17 – Attacco al treno, 2018), colto in tutta la sua più estrema e fragile umanità (Sully, 2016; American Sniper, 2014). L’incontro del vecchio “El Tata” (Leo Sharp nella realtà) con il giovane agente Colin Bates (Bradley Cooper), al termine di un classico montaggio alternato convergente che regge la pellicola, decreta lo scarto temporale definitivo, quello scontro necessario tra generazioni che Eastwood ha sottointeso energicamente anche in rapporto al cartello messicano (il controcanto criminale Andy García/Ignacio Serricchio) e grazie al quale il corriere troverà sorta di redenzione finale. Il senso del confronto rimane la (ri)scoperta umana in ciascuna delle sue sembianze e a partire dalla libertà dell’immagine stessa: quella di Eastwood e del cinema più sregolato e libertario, laddove ciò diventi sinonimo prossimo dell’espressione artistica più autentica.
Earl Stone, al termine dell’ultima corsa della vita, avrà raggiunto il traguardo più importante e, nella lotta contro il tempo (e la morte), ritrovato l’unicità dei rapporti umani più veri. Perché il tempo è l’unico valore che non si compra; perché l’amore è effimero come le emerocallidi più belle, ma il cinema riesce a raccontarli entrambi in questo quadro vitale – dallo sguardo limpido – , dipinto di fiori e semplicità.