Ammetto di essere molto sensibile alla questione metacinematografica (o viceversa), alle possibilità immaginifiche offerte dalla teoria, dall’avvilupparsi del discorso teorico su di sé, che genera fantasmi al quadrato, denudati nella loro carne fittizia, pulsante; spire di realtà, mondi impalpabili, effimeri, accavallati uno sull'altro in una specie di osmosi, o al contrario di iato; perciò è automatico che quando mi ritrovo di fronte a un film di questo tipo, per quanto mi sforzi di rintracciarvi incongruenze, lacune macroscopiche, veri e propri tonfi, non posso che entusiasmarmi, posto che l'entusiasmo è qualcosa che ogni singola immagine, anche la più vile, si porta appresso sin dal suo sorgere.

E così di fronte alla Vérité di Kore-eda, anche se questo metabolismo metacinematografico viene fuori solo dopo una mezzora dall’inizio del film fino ad allora irretito da materiale di autocompiacimento borghese - salotto, tè, vezzi familiari, pose quanto più artate -; non si può che riconoscere il persuasivo discorso intorno ai presupposti di ogni discorso, al loro farsi, pericolare, eternarsi sulla pellicola di un cielo autunnale. Il discorso di Kore-eda sulla famiglia, consolidatosi negli anni, forse anche, a tratti, appesantitosi, qui s'alleggerisce: diviene carne velina, foglia di teoria, fibra di fantasima, forse anche di miraggio, e sembra davvero galleggiare, danzare al ritmo di fisarmonica e contrabbasso, fuori da un ristorante, con tanto di autoironia.

Che è soprattutto della protagonista, Fabienna-Deneuve che si prende in giro e che pure, seriamente, non sa uscire dalla sua parte di congegno a incarnazione (e sublimazione) di caratteri, di donna posseduta di volta in volta da incarnazioni d'immaginazione, forse di poesia (lacrime e abbracci che si perdono nell'iperuranio del gioco, della finzione), che preferisce recitarla (e così autenticarla al massimo) la propria vita (e quella degli altri) piuttosto che viverla: l'immaginazione, l'arte hanno la meglio sulla realtà, anzi la innervano, la impregnano del loro seme di sogno, tant'è che non si fa fatica a credere che Pierre sia stato davvero trasformato dalla strega Fabienne, l'incantatrice, in tartaruga vegliarda, vagante nel giardino, salvo tornare uomo in un momento, per un momento utile al sedimentarsi del film. E allora questa Vérité, nonostante sia tutta scritta (nello stanco gergo della critica si dice "film tutto scritto"), sembra scriversi nel momento stesso in cui si svolge in flagranza, con una Lumir-Binoche che prepara discorsi, battute di dialogo, per sua figlia, sua madre, suo marito, fragile attore o goffo saltimbanco che sia: tutti, alla fine, usciti nel giardino autunnale, a scorgere l'azzurro del cielo di carta.

 

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