Lévinas scriveva che nell’epifania del volto altrui, nell’approssimarsi dell’«Io» all’altro, al volto «d’Altri» la cui realtà e vera natura non stanno nella contemplazione fisionomica, del dato, bensì altrove, si scopre che il mondo ci appartiene nella misura in cui lo si può condividere con l’altro.
E di qui l’«assoluto», e la pienezza di sé che si realizza nel volto inteso come alterità etica, necessità, quindi, non di un pensiero di ma pensiero per una non-indifferenza verso ciò o chi è altro, estraneo, indigente e «nudo»: giacché all’origine del pensiero lévisiano sta l’idea di un’etica fatta non soltanto di regole e prassi ma anche di un superamento di queste ultime, e di conseguenza, di attenzione a ogni realtà umana che si diversifichi. La riflessione del filosofo francese è un invito al senso di responsabilità che transita per ogni sequenza, inquadratura e immagine di Styx, reviviscenza lampante di una condizione odierna, di poveri vessati, umani alla mercé di chi non se ne fa carico ignorando quella «domanda che è al contempo una richiesta di aiuto e una minaccia».
La narrazione di Wolfgang Fischer si dispiega canonica come un raccordo tra tre momenti disgiunti: la dottoressa tedesca Rike parte sola da Gibilterra con la sua barca alla volta dell’isola di Ascensione, un paradiso in terra in mezzo all’Oceano Atlantico, fra l’Africa e il Sudamerica. L’attraversamento della palude stigia – metafora che avrebbe potuto avere del banale se il regista non avesse prediletto una forma a metà tra approccio documentario e mimesi raggelante – si arresta a causa di una tempesta che porta sulla rotta di Rilke un peschereccio alla deriva carico di centinaia di migranti. Epifania dell’umano, debole, fragile, incapace di fare scelte: «il volto si esprime come nudità del povero, dell’orfano e della vedova, figure bibliche emblematiche dell’alterità, che per la loro stessa miseria e indigenza sono per me comando di non lasciarli morire.»
Styx, dal verbo στυγέω, "odiare", da cui "fiume dell'odio" secondo la mitologia greca si estendeva in nove grandi meandri che ostacolavano il percorso per arrivare al vestibolo dell’oltretomba ed è come se dopo la tempesta Rike ci fosse arrivata, con il mare ribollente per le urla e i sospiri delle anime che ne sono completamente sommerse: qui però non si tratta degli iracondi del V cerchio dell’Inferno, la colpa è universale, collettiva, dilatandosi epidemica. Circolano in questi giorni in rete le foto di una barca di legno azzurro con una trentina di persone a bordo che se non fossero morte in mare sarebbe successo in Libia, dove li hanno riportati, in mezzo ai bombardamenti, alla guerra, ai lager, perché si è stati a guardare, impotenti, un manipolo di persone implorare aiuto: navi ONG ferme, nessuno che interviene, nessun soccorso. La medesima attesa della protagonista di Styx, lo sconvolgimento dell’egoismo dell’Io, disorientato, inquietato, accusato dal volto d’Altri: ma Fischer vuol dire che né la protagonista, da sola, né un singolo Stato può pensare di farsi carico di una simile tragedia umana, ma finché la si rifugge, nell’insieme, allora l’azione individuale è l’unica che può farsi giustizia e impegno: un liberarsi da modelli e misure per vivere nella responsabilità dell’altro.