«Aspettiamo che la luce vada via».
Nell’attesa di cui il film si compone, il regista è soggetto-oggetto iperbolico della visione, incluso nell’inquadratura fissa che (lo) contempla e che procede in apparente assenza di direzione; al centro della scena, l’incarnato vivente della sua immaginazione: Lee Kang-sheng è contemporaneamente l’amante confidente, l’interrogato muto, l’oggetto attuale della visione e la proiezione ancora possibile. L’attesa immobile nella luce equivale alla parola detta (di Tsai) e a quella mancata (di Lee), è l’evento puro che non si vede e che, non essendo subordinato al risultato, fa a meno dell’azione1.
Gli uomini di questa città io non li conosco: eppure Scaldati, come Maresco, sembra conoscere benissimo gli uomini, che siano o meno di una determinata città, regione o nazione. Nel dire di non conoscerli si riflette piuttosto una dichiarazione di distanza, voluta e al tempo stesso subita, che una minoranza pone nei confronti della maggioranza.
Luccica, il nero. La Folie Almayer si apre così, dentro una musica (wagneriana) dispiegata nella piega arancia delle acque, nel buio arcano della notte e nell’apparente immobilità del fiume. Il buio come presentimento sul limite dell’acqua, tenebra conradiana ai confini del mondo. Lì, nel mezzo, c’è la casa di Almayer, luogo di sospensione, di messa in dubbio, di assenza. Almayer si è perso nel desiderio, perso in un luogo che non gli appartiene ma che in qualche modo lo tiene ancora stretto.
Del che cosa sia, alla fine, il desiderio per un corpo, Wakamatsu ne ha fatto visione e immagine sino al limite attraverso il quale il corpo scompare. Nella sua produzione, terminata nel 2012 a causa di un incidente, il finale è etereo, in Hotel Blu Kaien tutto ruota attorno all'immagine pura di un corpo, il corpo di Rika, donna immagine, appunto, priva di parola e di volontà che aleggia in virtù degli spettri che da sempre invadono il mondo letterario e cinematografico.
Comme le feu,
l’amour n’etablit sa clarté
que sur la faute e la beauté des bois en cendres.
(Philippe Jaccottet)
È nel continuo palesarsi di un’ombra, nel suo espandersi attraverso gli spazi vuoti eppure quasi claustrofobici delle stanze e dei locali, della notte riversa sul cemento dei palazzi, dei corridoi deserti di un ospedale, che David cerca, con tenera inconsapevolezza, di uscire dal bozzolo buio della sua adolescenza.
E vi è un punto fosforoso dove si trova tutta la realtà,
ma cambiata. Un punto d’utilizzazione magica delle cose.
(Antonin Artaud)
«Mar Nero, 22 giugno 1939. Cara mamma, sul mare fa freddo ed è grigio. È cosi bello viaggiare lentamente e vedere l’Europa trasformarsi impercettibilmente in Oriente». La voce è quella di Irène Jacob, i pensieri, gli occhi, il tempo, la vita, sono della ginevrina Ella Maillart (1903-1997), chiamata “Kini”, partita su una Ford Cabriolet quell’estate insieme svizzero-tedesca Annemarie Schwarzenbach – un’amicizia forte, anche difficile, con la zurighese che forse nutriva anche qualcos’altro, un bisogno soprattutto – alla volta dell’Est.