altNon c’è dubbio che il cinema di Francesco Dongiovanni sia tutto concentrato nella riflessione abissale sul tempo e non c’è dubbio che questa riflessione, travalicando se stessa, investa gli spazi di una memoria sconosciuta per lasciarli riemergere come microcosmi residuali di un’interiorità misteriosa.

Il rigore della ricerca del posto con passo sospeso riguarda anche uno speciale contorcimento della parola che manca di racconto ma è esubero di senso in tutti i titoli dei suoi film: Densamente spopolata è la felicità (2011); Elegie dall’inizio del mondo – Uomini e Alberi (2013); Giano (2014); Anapeson (2015)1.

La concentrazione della visione del mondo in una sola enigmatica parola (quelle degli ultimi due lavori) dice molto di un cambio prospettico che discretamente si apre a luoghi privati e paesaggi affettivi. La parola che sempre manca o che c’è in forma scritta per ripetere la propria insufficienza a dire (è in Giano la ripresa del Qoèlet: «Tutte le parole si esauriscono e nessuno è in grado di esprimersi a fondo. Non si sazia l’occhio di guardare né l’orecchio è mai sazio di udire») diventa in Anapeson la “parola prima” di un personaggio fantasma, quasi virgiliana cosa a sé, che accompagna nella discesa insondabile.

Giano e Anapeson sono in qualche modo il riflesso speculare di un’indagine a ritroso che si chiude con la sorpresa di sentirsi contemporanei e postumi di un’altra era spaziale: se Giano è il dio degli inizi, il custode della porta che guarda contemporaneamente all’interno e all’esterno, al passato e al futuro; Anapeson è un Cristo bambino in stato di sospensione insonne, né seduto né steso, che guarda alla sua fine con gli occhi aperti e chiusi.

La singolarità nomadica di Dongiovanni attraversa la “contemporaneità” di questi spazi con sapienza da genealogista e la compara ad altre disabitazioni, ad archivi e biblioteche che conservano quanto la polvere custodisce delle rovine.

E forse, viene da pensare, che niente di quello che resta è possibile dimenticare. Ogni cosa vista una volta resta per sempre nella vista, tutte le forme si succedono in una pervicace ripetizione ad occhi chiusi aperti dietro e davanti ogni soglia, la medesima immagine riabilita gli spazi e niente, per quanto si sforzi di esserlo, resta incontaminata visione.

Certamente è “denso” questo filmare perché è pensiero gestuale esatto e asciutto di un’immagine che lascia presagire molto più di quello che mostra: sparito l’uomo, le cose iniziano a somigliargli nella coesistenza di un tedio lentissimo che le trasforma lasciandole essere nella loro apparenza corrosa, nostalgicamente appartenenti alla specie del residuo.

Della ricca tenuta dei Caracciolo di Martina, zona San Basilio, visitata nel 1789 dal botanico svizzero Carl Ulysses von Salis-Marschlins che ne scrisse nel libro Viaggio nel Regno di Napoli (1793), restano il perimetro e alcuni ambienti enormemente vuoti con radici rampicanti e ricordi di echi ripercorsi dalla voce dell’attore Salvatore Marci. Resta soprattutto una stele fulminata nel tentativo di custodire, in un ricordo di pietra che si ergeva maestoso sui campi, un legame di sangue dolorosamente spezzato. Nel film si intravede appena in un attimo indiscreto e, come la vigile previsione di un insonne, rimane accenno non svelato; ciò che conta è l’incedere tra gli antri, nella luce persistente. Che si tratti di scalare gli alberi, di scendere nelle grotte o di scoprire icone sepolte, questa archeologia peripatetica e silenziosa è sempre alla ricerca di abitare l’elemento, di trovare una casa ideale che, in un azzardo di comparazione, avvicina nelle intenzioni Dongiovanni all’ultimo Tsai Ming Liang, non tanto per la predilezione degli spazi diroccati, quanto per la postura attonita davanti a quello che resta dello spazio immaginato (e dei legami) come a lasciarsi guardare dalla cosa perfetta nella sua progressiva corrosione senza ansia di eterno, entrambi (il regista e la cosa; Dongiovanni e Tsai Ming Liang) complici della corruttibilità. La cosa deteriora e non ne fa un dramma; da fine documentarista, Dongiovanni non dà giudizi sulla storia maiuscola, ma empatizza con la trasformazione della forma e le rende grazia.

Per quanto rigoroso il suo sguardo non è quello scientifico da analista: una lacrima probabilmente ne orienta la direzione.


Note

1. Scritto insieme a Marco Cardetta, con la produzione esecutiva di Murex Production, il film è stato presentato in questi giorni al “Torino Film Festival” e al “Filmmaker” di Milano. ↑





Titolo:
Anapeson
Anno: 2015
Durata: 38'
Origine: Italia
Colore: C
Genere: DOCUMENTARIO
Produzione: MUREX PRODUCTIONS

Distribuzione: The Open Reel

Regia: Francesco Dongiovanni

Attori: Salvatore Marci
Sceneggiatura: Marco Cardetta, Francesco Dongiovanni
Montaggio: Francesco Dongiovanni
Fotografia: Vincenzo Pastore
Suono: Salahaddin Roberto Re David

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