alt«Aspettiamo che la luce vada via».
Nell’attesa di cui il film si compone, il regista è soggetto-oggetto iperbolico della visione, incluso nell’inquadratura fissa che (lo) contempla e che procede in apparente assenza di direzione; al centro della scena, l’incarnato vivente della sua immaginazione: Lee Kang-sheng è contemporaneamente l’amante confidente, l’interrogato muto, l’oggetto attuale della visione e la proiezione ancora possibile. L’attesa immobile nella luce equivale alla parola detta (di Tsai) e a quella mancata (di Lee), è l’evento puro che non si vede e che, non essendo subordinato al risultato, fa a meno dell’azione1.

Il segreto delle parole è custodito nel buio ideale, nello stacco che separa tre momenti di un'unica scena, dove l’immagine si ferma. L’immagine ferma è prima e dopo l’evento, è lo sfondo del movimento impercettibile (Walker; Journey to the west; No no sleep) e la lacrima originaria che filtra i ricordi e prelude ad un’inevitabile separazione (Stray dogs), tuttavia finché si attende nella luce (era una lampada a fili fosforescenti quella di I don’t want to sleep alone) l’irreparabile è sospeso.
Nell’attesa si parla e il suono aggiunge una piega nell’ordine lacerato delle cose illuminate: la luce scandisce il tempo della rappresentazione e vincola al suo fondamento chiaroscurale una narrazione che si compone di salti temporali, vuoti d’aria, silenzi significanti e parole irrilevanti. Nell’inquietante immobile della profondità di campo invasa dall’elemento (l’imponenza degli alberi esterni irrompe dalle aperture nella parete di fondo), Tsai dice «aspettiamo che la luce vada via», ma avrebbe potuto anche dire: «parliamo finché c’è luce».

La parola sovverte la pratica del vedere: anche nel buio che alimenta l’immagine cinematografica si pronunciano parole, ma farlo nel mezzo (per mezzo) della luce calante del pomeriggio equivale a tradire i presupposti sia della confessione che della visione, mettendo in mostra le fondamenta di un mondo in smottamento2 e mantenendo nell’oscuro il segreto di un rapporto amoroso affidato solo allo sguardo anteriore: il cinema si confonde con il ricordo evocato, l’al di là del cinema è nella vita condivisa che non si parla.
La luce pacata del pomeriggio è la testimonianza corrispondente alle macerie, un riparo dall’abbaglio delle costruzioni che furono, il riflesso immanente del ricordo. Il rudere, come la salda anteriorità che resta, conserva il segreto della vita che un tempo l’ha attraversata, dove la storia è estromessa dalla superficie invisibile percorsa dall’innocente vibrazione di uno sguardo a piedi nudi. I pensieri hanno la voce dell’immagine e il parlare a se stessi permette di essere contemplati (inclusi) nella visione del medesimo, nella prossimità minima della duplicazione di sé in cui l’identità esplode.

A chi si parla? Qual è l’io impersonale che si pronuncia? Quando tenta di definirsi, Tsai balbetta all’altro la propria essenza di soggetto parlante alla prima parola (che è un “tu” fondante); Lee, l’altro in quanto medesimo, deve essere muto per dire il segreto dell’identità impossibile e mantenere lo statuto di fantasma. In un faccia a faccia con la propria fine una voce comincia a raccontarsi a partire dal rudere che rimane dell’io-diverso-da-me, il me medesimo è la figura senza età che appartiene ad un tempo smisurato, quello del ricordo che trattiene senza intrattenere.
La quadrettatura iniziale a partire dalla quale il linguaggio disegnava il mondo degli esseri parlanti e lo rendeva ad essi riconoscibile, svanisce. Svanisce ogni probabile teoria della rappresentazione. Resta il suono delle parole non dette – negli intervalli che scandiscono il film, le voci restano udibili testimonianze della modulazione dell’immagine nella luce calante – all’interno di un’inquadratura fissa sulle macerie dell’irrappresentabile.

Tsai è il controcampo di un dialogo impossibile quanto Lee è l’incarnato della visione di Tsai, il custode silenzioso di un cinema che non esiste al di fuori del piano sequenza sentimentale che li tiene insieme.
Quando si spegne l’ultima luce, un film da qualche parte tra gli alberi è già parlato.


Note

1. «L’azione non è mai autenticamente sovrana, avendo un significato servile inerente alla ricerca dei risultati; l’azione è sempre subordinata.», (Bataille 1999, p. 88).

2. Qualcosa di simile aveva tentato anche Kim Ki-duk con Arirang (2011) in cui però il regista era il soggetto unico di una autoconfessione popolata da spettri. Mentre al centro della parola-visione di Kim ki duk era il canto, in quella di Tsai Ming-liang è il volto di Lee, proiezione di un dialogo mancato.

BIBLIOGRAFIA

Bataille G. (1999): Kafka, Postfazione a Kafka F., Lettera al padre, Feltrinelli, Milano.

Foucault M. (2004), Le parole e le cose. Un’archeologia delle scienze umane, Bur, Milano.





Titolo: Na ri xiawu (Afternoon)
Anno: 2015
Durata:
137'
Colore: C
Genere: SPERIMENTALE
Specifiche tecniche: DCP (16:9)
Produzione: HOMEGREEN FILMS

Regia: Tsai Ming-liang

Attori: Tsai Ming-liang, Lee Kang-sheng
Soggetto: Tsai Ming-liang


http://www.youtube.com/watch?v=8zzzfjt4zuI

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