Fuori di Mario Martone, in concorso a Cannes 2025, è una parentesi dichiarata intorno all’attuale biografismo fluviale su Goliarda Sapienza, scrittrice dalla fama postuma, personalità complessa, passato ingombrante, visione concreta e sovversiva. Una parentesi intensa, che dissimula una spirale. Una dialettica che rimbalza dentro e fuori la finzione della sorte, dei luoghi e dei ruoli, all’interno di una concertata pianificazione produttiva, che ha portato lo scorso anno proprio a Cannes la miniserie L’Arte della gioia, trasposizione del capolavoro di Goliarda Sapienza, per la regia di Valeria Golino, che in Fuori interpreta la stessa Goliarda.

La co-sceneggiatura di Mario Martone e Ippolita Di Maio si ispira alle opere L’università di Rebibbia e La certezza del dubbio, ma non può certo evitare in apertura le imprescindibili didascalie biografiche, le precedenti parentesi-abisso della Sapienza, che da bambina non frequentò la scuola per scampare all’influenza del regime fascista, subendo però quello ideologico anarchico-socialista dei fratelli maggiori, sino al ricovero psichiatrico, durante il quale patì ben sette elettroshock. Tuttavia, la stessa Goliarda in altre sedi confiderà che la sua famiglia non le diede la fede, ma le diede l’arte. Poliedrica, scelse di lasciarsi ardere dal sacro fuoco della scrittura, di lasciarsi caparbiamente consumare nell’indigenza, in cui versava proprio a cavallo tra gli anni settanta e ottanta, messi in scena in una esemplare ricostruzione d’epoca e non a caso in un innesto di sfasata analessi, a partire dalla detenzione per furto di gioielli nei salotti buoni romani

Sfida estrema al “fascismo culturale dell’editoria”.

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Goliarda, che mancava di una infanzia smarginata (per usare il neologismo di Elena Ferrante, altra scrittrice portata al cinema da Martone e senza dubbio debitrice dell’archetipo letterario della Sapienza) nei giorni di Rebibbia s’abbandona totalmente all’ebrezza travagliata e sofferta delle compagne di cella, Barbara (Elodie, nella parte) e Roberta (Matilda De Angelis, sopra le righe) toccando con mano la diatriba della loro nudità esistenziale, oltre ogni connotazione fisica. Le donne vagabondano fuori, braccate alla luce di una commovente Roma monumentale e nella cupa, sediziosa metrò degli anni di piombo, ma restano sempre dentro, nelle mura mentali del carcere, paradossalmente più libere di ridere, tremare e tramare. Lì dove non vige un tribunale della personalità e la solidarietà incondizionata è sorella della furia collettiva. La parentesi di repertorio televisivo sui titoli di coda suggella il tributo di Martone, che apre sulla nudità inerme della protagonista durante l’ispezione in carcere e chiude invece sull’euforia di avere tra le mani la ricchezza inestimabile di storie da raccontare impudentemente, perché Goliarda non ha timore di denudare a sua volta prevaricazioni e ipocrisia secolari. Se Valeria Golino incarna una Goliarda quasi ostentatamente smarrita, sprovveduta e ingenua (aprendo a sua volta parentesi sulle sue precedenti prove attoriali: quando si isola dalle chiacchiere delle compagne, attorcigliandosi nella tenda della doccia, riecheggia il personaggio di Grazia aggrovigliata nella rete dei pescatori in Respiro di Crialese, come la resiliente Anna, che le valse la Coppa Volpi nel film Per amor vostro di Gaudino) è proprio perché nei suoi silenzi attoniti affiora l’adattamento registico: una Goliarda puro sguardo, osservatrice virtuosa in balia del caso e quindi perfettamente aderente alla definizione che ne diede Dacia Maraini «donna dal sorriso infantile», con-fusa nell’intreccio inestricabile di immedesimazione immaginifica, di irrefrenabile e salvifica rielaborazione della realtà. Le annotazioni sui taccuini, pur nelle scorribande, ci dicono ben oltre gli studi d’attrice. 

A quel tempo la scrittrice fallita aveva già partorito la prematura figlia del suo ingegno, la Modesta (nome prodromo di atavico riscatto) scandalosa, scaltra e impunita antieroina de L’Arte della gioia, contromanifesto del Novecento. E già, che la parentesi-voragine più grande che il film apre nella sospensione di questi ondivaghi giorni d’estate, è proprio l’astrazione del rapporto filiale, dove Martone, in un programmatico inciso, lascia solo trapelare, l’ineludibile influenza di Maria Giudice, la madre, prima femminista nella storia italiana. Tra sublimazione e paranoia si esplica la relazione tra la scrittrice e il personaggio espiatorio di Roberta, tossicodipendente, forse vicina alle Brigate Rosse. Un rapporto ambiguo, che dall’impulsività dell’attrazione fisica scende nei meandri più intimi di compassione e pietà, sino alla perturbante tenera supplica di baci e carezze, che una figlia ripudiata rivolge a una madre elettiva, per affinità di vitale desiderio. La Roberta e la Goliarda cinematografiche ricalcano la Modesta e la suor Leonora del romanzo, spirale metalinguistica, paventato incesto autoriale, al punto che l’epilogo pare quasi riavvolgersi in una proiezione inconscia, in un sogno in rewind, sicuramente fuori dalla cronaca di una vita ingrata.