Straniante, per certi versi kafkiano, immerso in uno spazio-tempo torrido, teso tra torpore e reazione; stasi, necessità domestica e un istinto animalesco a muoversi, Giulia – una selvaggia voglia di libertà, è un film sfuggente come la sua protagonista, difficile da classificare, se si pensa alla prima parte, quasi documentale, con una macchina da presa inquieta, nervosa, che fa pensare ai Dardenne (eppure c'è nello sguardo di De Caro qualcosa di gioioso, di entusiasta, di rado riscontrabile nei Dardenne), e una seconda parte che s'accosta alla commedia, a quello spirito autoironico, grottesco e intimamente drammatico di Ecce Bombo. Ma è sempre un percorso di approssimazione, mai di adesione: si tratta di un film che è né una cosa né l'altra; che si nega, si divincola dalla definizione e fugge verso un panorama cinematografico tutto suo, balzano, sbilenco, in cui non c'è sempre corrispondenza tra significanti (le immagini) e significati.

In sala in questi giorni, Giulia di Ciro De Caro è un film pieno di aperture, di spiragli in cui inserirsi e testare il peso delle immagini, interpretato da un gruppo di attori molto bravi con a capo Rosa Palasciano (che riesce a rendere la protagonista un coacervo di sfumature, di commoventi ingenuità e di illogicità fastidiose) e Valerio Di Benedetto, con intorno dei comprimari sorprendenti quali Fabrizio Ciavoni, biascicante ed elegante nelle sue movenze pingui, Cristian Di Santo, Matteo Quinzi, fino ad Anton Giulio (Onofri), protagonista di una delle sequenze più belle del film dopo che si è ballato sulle note di Yes Sir, I Can Boogie.

È il panegirico autoironico del critico cinematografico ed enogastronomico, autore anche di due libri che «parlano di cazzi», a cui «viene da piagne» mentre parla delle aperture del cinema, perché «il cinema apre». Allora il film di De Caro è un film di scelte formali, un film posto sotto l'egida della forma piuttosto che della narrazione; un film che assume una sua specifica profondità filosofica e narrativa proprio grazie al tipo di scrittura praticata dal regista, a certa sintassi cinematografica che nella sua allusività, e, si potrebbe dire, elusività (di significati certi), è la commessura di questo cinema iper-contemporaneo, attuale (tant'è che vi compaiono mascherine, test per il covid, gel igienizzanti), con alcuni grandi modelli del cinema italiano. Penso a cose molto diverse, che danno il senso di questo cinema spurio, contaminato, irregolare: oltre al primo Moretti, il Pietrangeli di Io la conoscevo bene.

La forma del racconto di De Caro è forma precaria come i suoi personaggi, alla ricerca continua di mezzi di sussistenza; è forma in fuga, oscillante tra realismo, umorismo, malinconia, che definiscono il mondo in quanto grottesco, contraddizione costante, costante inconoscibilità. Che è l'inconoscibilità, l'io-la-conoscevo-bene di Giulia, correlativo soggettivo di una realtà refrattaria, provvisoria, insondabile. In effetti se c'è una chiave per decifrare il film questa è nell'aggettivo presente nel titolo, «selvaggia», non nel sostantivo «libertà»: Giulia è imprevedibile, spesso irrazionale e contraddittoria come un animale. Eppure nonostante o proprio in virtù di questo palinsesto refrattario di immagini (resistente cioè alla spiegazione univoca dei segni che la compongono), proprio come fenomeno accessorio, accidentale della presenza pervicace e indistinta delle cose, si ricava un che di conoscenza, qualcosa di pulsatile e autentico (la comica e tragica e tarpata emotività dei personaggi), qualcosa di assimilabile alla luce limpida che regna in tutto il film e poi all'acqua, al mare sospeso al tramonto che alla fine sembra inghiottire i destini ridicoli e dolenti degli esseri.