Piccolo corpo è la rivendicazione di un respiro. È la lotta dell’esistenza per affermare se stessa, per quanto poco sia durata, è l’affermazione del diritto di avere un corpo, reale, tangibile, «piccolo» nel corpo immenso della madre terra, che dà e toglie, aggiunge e sottrae, nasconde, inghiotte, ridà: quel corpo-mare che ha attraversato lo specchio dell’acqua, scissione di un altro corpo, del corpo-ma(d)re che lo ha partorito senza potergli dare un nome e che quindi lo conduce verso le montagne, al di là del corpo-ventre della pietra scavata, cava, muta, nera, lucente a tratti di un bagliore fioco, che si spegne, muore, atterrisce e mette in fuga con gli occhi stralunati.

Ma l’attraversamento dei piani, il procedere dissestato della camera nell’intrico dei rami secchi, le sue pause sul nero – sfondo di tenebra che “mette a fuoco” la condizione lacerata d’essere «femmine» o di non volerlo essere, di essere madri private dei figli o figlie misconosciute: la “mette in abisso” mediante il rallentare delle inquadrature, l’arrestarsi sulla fragilità della pelle, delle membra stanche, provate dalla stanchezza e dal dolore indicibile – focalizzano la dispersione degli altrui sguardi che non vedono, che non comprendono il coraggio di “vedersi”, invece, perfettamente centrate: Agata nella ricerca di un nome (e di un’esistenza) per sua figlia, Lince in una ritrovata compassione, entrambe grandi nel coraggio di andare, sprofondare in quell’abisso, riemergere come dall’utero stesso della terra a rivedere la luce.

Laura Samani non teme di essere una donna che parla di corpi dati e tolti, appartenuti, che sono stati vivi, accolti, negati, trattenuti, strattonati, capaci di suscitare pietà, di esistere persino nella morte, più ancora nella morte. «Non si può dare un nome alle cose che sono morte», dice un altro corpo di donna che non sembra avere un nome a lei che risponde: «È venuta fuori da me!», ossia da un corpo del quale si è detto che se ne sarebbe dimenticato, così anche del cuore, un giorno. Eppure quel corpo sanguina, ha in sé e fuori di sé l’evidenza della vita che duella con la morte: corto circuito violento e accorato che i movimenti di macchina documentano – ne documentano il paradosso, lo strappo tragico della natura che compie il suo corso, cieca di fronte a quella neonata che giace nella misera scatola di legno – nella visione del sangue che scorre sotto le vesti, della montata lattea che inonda e brucia, che si propaga a bagnare la stoffa del vestito consunto sul seno febbricitante, anticipando così la fiammella della caverna, quando le tre donne saranno al suo interno, corpi nei corpi, corpi nel corpo-ventre della montagna madre, lì dove proprio «le femmine non possono entrare», tutte e tre “velate”, una nascosta dai quattro piccoli pannelli di legno, le altre due dalla terra spalmata sui volti, che sono volti di esseri randagi, combattivi, semi dispersi nel mondo.

La ferinità del concetto espresso dalle immagini, presente per quasi tutta la durata del film, di tenersi stretta a sé una bambina esanime, di doverla proteggere dalla brutalità degli uomini, dalle credenze, dal non riconoscimento di “esserci” è impregnata tuttavia di quella particolare capacità della Samani di rendere dolcissima la ridondanza di parlare di un «piccolo corpo» mediante, appunto, altri corpi, insistendo con la dinamica delle inquadrature su un aspetto, per così dire, “locativo”, evidente da espressioni come: «Fuori la disgrazia, entra la grazia. Disgrazia vai via, entra Maria», sul taglio provocato sulla mano, tolto il velo, andando verso il mare; «Dov’è?», alla cui domanda viene risposto, in momenti diversi «Al bosco» e «Al limbo»; «Cos’hai lì dentro? Le mie cose», «Al Santuario potrò darle un nome», «Andiamo per di qua». È così che ci troviamo continuamente di fronte alla percezione che il luogo dell’immagine è il suo stesso “respiro”, la rivendicazione di un reale nel quale dare luce alla meccanica delle scene, al loro «respirare», tornando all’immaginazione da cui sono nate, al pensiero delle «onde del mare» per combattere la paura e il buio.

Un respiro a cui si fa ritorno, nel finale circolare del film che rievoca la ninna nanna sul fluire della barca iniziale e che ora chiude con una danza acquatica, in apnea onirica, nella misura del galleggiamento delle scene, pure sospese, in bilico sul limite tra la morte e la vita: «L’acqua del mare è salata. Se la bevi ti gratta forte la gola. Se hai un taglio ti brucia. Ma ti guarisce. Il sale ti resta addosso. Ti si secca sulla pelle e lo puoi leccare via. Il mare va dappertutto…». Lunghissimo piano-sequenza a trattenere il fiato: «…e anche se sei lontano ti arriva l’odore».

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