Repertorio di psicologie, di emotività a confronto, tra tenerezze e ruvidità improvvise in un mondo che non smette di sibilare la propria refratterietà, lo strazio, la bellezza: questo è il cinema di Chiara Bellosi, tra le registe più sensibili del panorama italiano contemporaneo. Già nel suo primo film, Palazzo di giustizia, tra i corridoi e le aule di marmo freddo, reticente di un tribunale, si muovevano franti metabolismi, anime in pena, in piena balia di un'esistenza franante, frastornante, che però all'improvviso ti pone nella penombra di un vecchio archivio in cui, insieme ad altre anime perse, potersi ritrovare alla ricerca di un passero, tutti: bambina, adolescente antagonista e il giovane, sensibile inserviente. Insomma, il tribunale – dal sapore vagamente kieslowskiano – a un certo punto diveniva dimensione astratta, quasi metafisica, com'era il carcere di Ariaferma di Di Costanzo e com'è ora in Calcinculo, l'ultimo film di Bellosi, il luna park itinerante e poi la roulotte di Amanda – l'alcova in cui si sedimenta il piacere – che procede lenta e stanca per le vie del mondo.

Cinema non solo di trame, di personaggi, ma anche di luoghi topici, luoghi cinematografici innanzitutto, e di corpi: e in questo senso molto cinema italiano indipendente crea un rapporto osmotico tra psicologie, corpi e luoghi, se si pensa ad esempio ai Giganti di Angius, a Piccolo Corpo di Samani, o a Giulia di De Caro tutto giocato intorno al corpo d'alabastro di Rosa Palasciano e al disordine, all'anarchia psichici di Giulia, quasi alimentati o altrimenti smorzati dalla città e poi dal mare.

Proprio su un'osmosi continua tra luoghi (cinematografici) e corpi, si fonda Calcinculo a cui la rassegna barese “Registi fuori dagli scheRmi” dedica la serata di giovedì 7 luglio ospitando la regista all'arena della Film House, giusto all'entrata della Fiera del Levante. E da questo rapporto, travaso di materia granulare, immaginale, per lo più luce, condizioni di luce, tra spazio e metabolismi, emergono pezzi di psicologie o forse, meglio, comportamenti, gesti tutti esteriori che spesso si stagliano nella refratterietà dell'inquadratura: l'ingombro del corpo, il senso della carne (anche un pollo mangiato crudo), l'attrazione sessuale, non si sa bene se per il maschio o la femmina, ammesso che importi e che invece non ci si protenda verso altre, inedite identità sessuali.

Certo Calcinculo è un film ben più ambizioso di Palazzo di giustizia il quale era come messo al riparo tra le mura del tribunale, mentre ora il cinema di Bellosi si espone all'esteriorità, alle intemperie: per lo più la periferia, desolata, puntellata da campi di fiori che sono, quando compaiono all'improvviso chiedendo di essere contemplati in silenzio, il tratto più poetico, epifania immanente, del film. Qui arriva una sparuta carovana di giostrai tra cui Amanda interpretata da Andrea Carpenzano, specie di musa da lì in poi, per Benedetta (Gaia Di Pietro), quindicenne corpulenta, insicura, alle prese con la famiglia, la scuola, con la madre inebriata dai modelli di bellezza contemporanei, e in genere con gli spazi che la sovrastano costantemente, nella misura in cui invece Amanda li domina.

È il caso della sequenza più bella di tutto il film – proprio dal punto di vista della sintassi cinematografica – quando Amanda e Benedetta vanno a un provino: Amanda è spavalda con le persone, sicura di sé, governa lo spazio con il suo incedere flessuoso, vanitoso, così Benedetta comincia ad assorbirne i modi. La macchina da presa le segue nel transito naturale dalla penombra del teatro di posa a quella della discoteca, passando anche musicalmente da un contesto all'altro, da Progresso di Fabrizio Campanelli (autore della colonna sonora insieme a Giuseppe Tranquillino, tra le più belle ascoltate ultimamente) alla musica dance, in cui finalmente Benedetta si libera e si mette a ballare: si libera di quell'anchilosi in cui aveva relegato il suo corpo, così braccia, gambe prendono a muoversi, a vibrare.

È la meccanica – la spinta da dietro perchè ci sia uno scarto rispetto alla gravità: bellissimo il rutilare della macchina da presa, la sospensione, il silenzio mentre la giostra fa girare Benedetta e Amanda – e la metafora del calcinculo – il soccorso da parte dell'altro, al momento giusto – che Chiara Bellosi impianta nei vuoti, negli slarghi della periferia, un dispositivo di creazione di senso posto nello spazio vuoto del potenziale: un luna park e una giostra sempre deserti, desolati in cui sembrano sopravvivere solo questi esseri monchi, mancanti di qualcosa eppure marcati da qualcos'altro, dalle stigmate della sussistenza.

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