Juan Pablo Richterd, boliviano, sembra accogliere l'immaginario sudamericano compreso tra le forme del realismo magico e una distorsione di queste forme, queste figure; il loro deterioramento realistico, dilatato, fino ad avvicinarsi a una poetica espressionistica.
C'è una rudezza nella messa in scena di 98 Segundos sin sombra, esaltata dal formato in 4:3, una dilatazione del tempo, dei tempi morti, che fa pensare a tratti a Lucrezia Martel, quella della Nina Santa: come un annaspare, un morire del tempo cinematografico, un ammutolirsi nella complessione del cadavere che arriva a essere un decomporsi del tempo. Se il modello tarkovskjano - a cui questo film potrebbe essere ricondotto - si prefiggeva di scolpire il tempo, qui Richter pensa a decomporre il tempo.
Che è una specie di assopimento del senso motorio, dell'azione; la sospensione in un nulla, in una mancanza di tempo, dell'esistenza della protagonista e dei comprimari. Dicevo, si sente la presenza della tradizione letteraria e cinematografica sudamericana: da Arturo Ripstein a Lucretia Martel, fino a Pablo Larrain, passando magari per le rudezze di Oswaldo Reynoso. I personaggi sono irretiti in questo stabbio temporale che distorce le indoli: maschere grottesche; altre deformate dalla violenza perpretata; figure irrigidite nell'impossibilità di essere o violentate, sanguinanti. Nel mezzo di questo scorcio rude boliviano, la volontà di evadere (sia pure in una fuga sognata, delirata), di tornare a rivere l'innocenza, di immaginare una palingenesi.