risultati per tag: cinema marginale

  • Trad. di Giovanni Festa

    Il muro sfondato di un vecchio ospedale psichiatrico nelle cui crepe sgretolate crediamo di leggere ciò che quel rudere racchiude: dolore, tristezza, abbandono. Sulla parete ormai vuota si sovrappone l'immagine fotografica di una giovane donna dal corpo nudo, esposta alle intemperie che segnarono l'inizio del XX secolo per diversi popoli indigeni del Abyayala, mentre fissa impassibile una macchina fotografica alla quale dà l'immagine di se stessa, del suo corpo esposto senza restituirle un centimetro in più del suo essere, senza nessun gesto di subordinazione.

  • La Tavola di montaggio si articola in tre sequenze longitudinali, dall’alto verso il basso. La prima a sinistra è dedicata alla borghesia: dai primi dagherrotipi al ritratto di famiglia, dagli avi mostruosi di Bataille alla classe dei padroni nel giardino delle delizie di Metropolis di Lang, fino al fotografo che, sulla spiaggia di People on Sunday, fa un ritratto involontario, composto da immagini fisse, della società “paralizzata” dell’epoca (si tratta, in un certo senso, non di un album di famiglia, ma di un album di società, fatto non di foto, ma di fotogrammi).

    La sequenza centrale è quella che ripensa e rimonta alcune immagini da Barthes, Sebald e Bressane, associandole fra loro. Quella di destra monta insieme foto che risalgono all’inizio del XX secolo (lo stesso periodo di quelle nell’album di Rua Aperana 52 di Bressane, scattate a partire dal 1909) che fanno parte dell’album di famiglia di un’amica argentina. Come sempre accade davanti ad una tavola di ispirazione warburghiana è possibile (o auspicabile), a partire (o nonostante) queste brevi indicazioni, creare montaggi e percorsi propri.

  • Traduzione di G. Festa


    Lo scopo delle parole

    è trasmettere idee

    Quando le idee sono state comprese

    le parole vengono dimenticate

    Dove posso trovare un uomo

    che ha dimenticato le parole?

    Con lui mi piacerebbe parlare

    (Chuang-Tzu)

     

    Per molto tempo l'argentino Claudio Caldini è appartenuto alla stirpe sovrana dei registi segreti. Filma da più di 50 anni e il suo status di artista recondito è stato solo parzialmente ribaltato nell'ultimo decennio. Da un lato la sua produzione, sempre più riconosciuta all'interno del circuito ridotto del mondo dell'arte, ha goduto di possibilità di fruizione rinnovate dalla disponibilità propria del digitale. Dall'altro, la sua partecipazione attiva a festival, retrospettive a varie latitudini e un documentario su di lui e il suo cinema (Hachazos, di Andrés Di Tella, 2011) hanno contribuito a dare visibilità, in una dimensione sempre più internazionale, a una traiettoria di sorprendente coerenza. Oltre ad essere distribuiti da alcune etichette internazionali dedicate al cinema sperimentale e d'artista, alcuni dei suoi film più importanti sono ora visibili attraverso Vimeo e YouTube. In questo colloquio con e attraverso il cinema di oltre mezzo secolo, Caldini ha navigato senza tentennare tra i formati filmici a passo ridotto, in particolare il single 8 e il super 8, le cui particolarità si andavano diffondendo con successo tra cinema familiare e underground, e tra l'amateur e lo sperimentale. E in questi piccoli formati ha creato alcuni dei suoi pezzi più audaci. Ma si è anche cimentato nella creazione nel campo dell'immagine elettronica, che gli ha consentito una diffusione cruciale all'interno dei circuiti della videoarte negli anni novanta. Finalmente la panoplia proliferante del digitale, le edizioni BluRay, le reti e la distribuzione online, gli hanno permesso di espandere l'impatto della sua produzione, tanto da installarlo come punto di riferimento indiscusso del cinema sperimentale realizzato in Sud America. Potremmo parlare anche di un “riferimento storico”, se questa parola non tendesse a tracciare una traiettoria e a consolidarsi nel passato, quando il cinema di Caldini è, invece, un invito a un presente rinnovato, come testimonia ogni sua sessione di performance cinematografica dal vivo. Dotato di una batteria di proiettori, solitamente da tre a cinque dispositivi funzionanti contemporaneamente, Caldini riattiva immagini scattate di recente o filmate decenni fa.

  • «Il nascere e il morire sono i due momenti unicamente reali. Il resto è sogno, interrotto da qualche insignificante sprazzo di veglia»: così Manlio Sgalambro in apertura di Perduto amor, opera prima di Franco Battiato, riportando gli estremi di una dichiarazione di poetica che già configura non solo quel film ma tutta la produzione dell’autore come sponda, congiunzione, zona di confine. La marginalità di alcune opere cinematografiche, inteso questo “marginale” come sostanza divergente, decentrata rispetto alle più consuete modalità di attuazione dello sguardo – delle pupille aperte/chiuse tra veglia e sonno, tra morte e vita  –  produce un decentramento dei punti di vista rispetto al consuetudinario, non certo una condizione subordinata alle più comuni modalità percettive, piuttosto l’attuazione di una teoretica della visione che riguarda, sempre, la proiezione verso qualcos’altro, al margine appunto, in una zona di fuga che è zona liminare. Le immagini marginali in qualche modo, allora, attenendoci ad un discorso più propriamente cinematografico, recano anch’esse il seme di un mondo possibile, de-siderabile, che proviene da uno spazio di per sé deterritorializzato, che trae origine dall’altro da sé, discostandosene, allontanandosene, fedele al movimento dell’immagine che è cinema.

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