Trad. di Giovanni Festa

Il muro sfondato di un vecchio ospedale psichiatrico nelle cui crepe sgretolate crediamo di leggere ciò che quel rudere racchiude: dolore, tristezza, abbandono. Sulla parete ormai vuota si sovrappone l'immagine fotografica di una giovane donna dal corpo nudo, esposta alle intemperie che segnarono l'inizio del XX secolo per diversi popoli indigeni del Abyayala, mentre fissa impassibile una macchina fotografica alla quale dà l'immagine di se stessa, del suo corpo esposto senza restituirle un centimetro in più del suo essere, senza nessun gesto di subordinazione.

La giovane donna è Damiana, o Kryygi, che è il nome postumo datole dalla sua comunità Aché in Paraguay quando nel 2010 è iniziato il recupero delle sue spoglie dal Museo Nazionale di La Plata. Ce lo spiega così Damiana-Kryygi (2015), il documentario del regista argentino Alejandro Fernández Mouján che, raccogliendo indizi, segue il percorso della vita di Damiana dal momento in cui venne rapita dal suo villaggio fino al recupero delle parti del corpo disgregato tra Argentina e Germania. La serie di immagini della ragazza indigena nuda, al freddo, davanti all'occhio fotografico, non smette di apparire e di farci comparire. Come se l'accettazione rassegnata del suo gesto ci chiamasse come un sussurro soffocato che ancora oggi macchia le pareti dell'ospedale con la traccia dei sogni, dei dolori e delle rassegnazioni delle centinaia di donne che sono passate per l'ospedale psichiatrico e per il padiglione Charcot, dedicato, come evoca il nome, alla cura dei molteplici sintomi di quella che la medicina ottocentesca classificava come isteria femminile. Ma non solo: un altro aspetto del dolore dei secoli aderisce alla foto, vive nel suo sguardo e ci trascina, ci fa comparire davanti a un tribunale per testimoniare, esige da noi parole, ancora e ancora, dal suo sguardo e dalla sua bocca serena ma imperturbabilmente chiusa. Bisogna dire, e chiederle, ma lei non pronuncia parole, una volta scaduta ogni parola, perché l'apparire del dolore richiede uno «spazio-tra», uno spazio di silenzio per vedere, per testimoniare (fare presenza) di quell' «aspetto politico [...] dei popoli» (Didi-Huberman 2014a: 22).

Fig. 1. Damiana- Kryygi. Dettaglio. Robert Lehmann-Nitsche, 1907. Fonte: Fotogramma del documentario de Damiana-Kryygi (2015), Dir: Alejandro Fernández Mouján.

Il documentario ricompone alcuni momenti della vita e della morte di questa ragazza Aché [1], la cui esistenza può ben essere intesa come un'allegoria della distruzione combinata e sistematica compiuta dagli stati latinoamericani sull'esistenza indigena del Abya Yala durante l'ultima parte del secolo XIX; per il terrore sui loro corpi e sulla loro vita integrale nella cosiddetta Seconda Conquista (Gabbert 2019), che aveva obiettivi politici ma anche e fondamentalmente economici, di appropriazione della natura e delle risorse autoctone per capitalizzarle nel mercato mondiale.

Nel 1896 una spedizione scientifica del Museo di La Plata in Argentina, guidata dall'antropologo olandese Herman FC Ten Kate e dal francese Charles de la Hitte, si recò in Paraguay per raccogliere i resti di alcune persone del popolo Aché che erano state assassinate dai coloni. Guidati dagli stessi sicari degli Aché, gli antropologi raccolsero, a seguito della loro spedizione, lo scheletro di una giovane donna uccisa a colpi di machete. L'altro ritrovamento fu quello di una bambina Aché viva, di meno di quattro anni, che era stata catturata durante l'attacco. La bambina, come ha spiegato La Hitte, venne battezzata Damiana da coloro che furono i rapitori e gli assassini della sua comunità. Nel 1898, quando aveva sei anni, fu consegnata al famoso medico Alejandro Korn, che la usò come domestica nella sua casa. All'età di circa quattordici anni, per ordine dello stesso Korn, la ragazza venne ricoverata nell'ospedale psichiatrico Melchor Romero, perché i suoi comportamenti sessuali disturbavano la famiglia, che li considerava indice di una qualche patologia.

Fu proprio in ospedale che, un giorno di maggio 1907, la ragazza fu costretta a posare nuda all'aperto per una sessione fotografica con l'antropologo tedesco. Due mesi dopo la ragazza morì malata di tubercolosi: la malattia, secondo recenti ricerche, era molto sviluppata al momento delle foto. Il Museo Nazionale di la Plata si fece carico del suo corpo e questo venne poi, come era comune fare, sezionato con zelo scientifico. La sua testa e i suoi capelli, tanto più preziosi per gli studi frenologici dell'epoca, furono inviati dall'antropologo tedesco Robert Lehmann-Nitsche [2] al suo amico, il berlinese Hans Virchow, con lo scopo di studiarne i caratteri razziali.

La vanità (dal latino vanĭtas, vanus, "cavo, vuoto"), riunisce orgoglio e futilità e, nelle arti e nel genere che ne porta il nome, esprime preoccupazione per la caducità e la fragilità della vita che ci sfugge mentre, ingenui, vuoti, ci ribelliamo ad essa attraverso l’arroganza.

La morte, ci dicono le arti, si annida in continuità metonimica con la superbia, perché non c'è superbia che non sia spinta alla rappresentazione di se stesso fino allo svuotamento dell'io: rappresentazione di una rappresentazione vuota: il cranio, tutto il vuoto nel fondo dell'io ingrassato; teschi accanto ai libri. Cadiamo, cadremo insieme a questa nostra superbia.

Cosa succede quando la vita è così slegata da quella della natura, degli altri, che nemmeno la sofferenza, il dolore dell'altro, ci sembra un teschio, un annuncio di vanità, cosa succede quando nemmeno le ossa degli altri bastano per ricordarci che la morte ci continua? Cosa succede quando il teschio diventa materia senza lingua, pura mimesi di ciò che non vuoi sentire perché hai dimenticato che stai per morire, perché la tua vita è stata unta con il potere di far parlare gli altri per te? Le fotografie di Damiana nuda ed esposta alle intemperie mostrano quanto fosse insensibile lo scienziato Lehmann-Nitsche, capace di dimenticare non solo il suo memento mori, il ricordo della propria morte nello sguardo della ragazza, ma ogni possibilità di comprendere la violenza della sua macchina fotografica che costringe all'estrema esposizione questo corpo di ragazza umiliata. Lehmann-Nitsche, che era responsabile della collezione del Museo di La Plata [3], composta da migliaia di ossa di indigeni uccisi nella campagna del deserto, documenta, nonostante la sua interlocutrice, che la sua vanità è enorme, lo divora, e nello stesso tempo lo fa sentire a disagio davanti all'alterigia di questa giovane donna che, diffidente, e pur conoscendo la lingua dell'altro (la ragazza aveva imparato il tedesco) non pronuncia una parola. L'antropologo aveva già realizzato in precedenza, nel 1902, una serie di fotografie di donne nude appartenenti al popolo Kawésqar [4], dove la nudità del corpo della donna indigena, come ha fatto notare Déborah Dorotinsky a proposito della fotografia etnografica messicana dell'epoca, nel medesimo tempo in cui si aggiunge all'immaginario generale del primitivismo, va oltre la mera aderenza a questo tratto per mostrarlo superato, evidenziando i desideri contrastanti «che le donne indigene suscitavano nei fotografi, esploratori e altri uomini bianchi, e il modo in cui questi ultimi le rendevano oggetti esotici di contemplazione e fantasie erotiche»(Dorotinsky, 2010). La scienza trabocca di mito, desiderio e curiosità morbosa.

La macchina fotografica, in questo senso una protesi della libido dello scienziato, lo rende incapace di mantenere il suo posto: e fa uscire la ragazza alle intemperie. E la espone, e si espone allo stesso tempo nella sua estrema vanità di uomo bianco, esercitando il dominio e incapace di guardarsi dall'esterno nell'estrema futilità del vuoto che lascia intorno a sé: un muro solitario, rovinoso , che ricorda ancora come la ragazza non si lamentasse, chiudendo invece la bocca in modo radicale, definitivo, sottraendo all’altro qualsiasi scoperta di rovina (non si può dimenticare che Lehmann-Nitsche svolgeva il suo lavoro quotidiano in mezzo al resti umani di migliaia di indigeni, che per lui erano proprio questo, resti, resti di un tempo compiuto, che gli parlava di una storia compiuta, di un popolo morto, finito o in procinto di terminare) [5].

Ruinare/apparescere

Ruinare (lat.): ciò che cade, dal latino ruere, cadere. Apparescere (lat.): Porre lo sguardo, apparire verso (ad-). I popoli che si vogliono cancellare ("Delenda Arauco!" gridava un liberale cileno nel 1868 [6]), sono completamente esposti alla vanità di chi crede di poterli illuminare. La vorace macchina fotografica dell'antropologo che accompagna l'avanguardia capitalista vuole modellarli a sua immagine (barbari nella sua impresa di civilizzazione). Però, quando sono esposti a una visibilità estrema, appaiono come popolo. Al di fuori di ogni calcolo di genocida, si rifanno popolo nel montaggio dei loro sguardi. Coloro che si vogliono mandare in rovina, far cadere, scomparire, appaiono, ci appaiono.

"Conquista del deserto" è il nome che lo stato argentino ha dato alla campagna militare intrapresa contro gli indigeni che abitavano i Puel Mapu, in particolare i Tehuelche, i Rangkülche [7] e i Puel Williche [8], e che ebbe il suo momento più brutale tra il 1879 e il 1885. Allo stesso modo, dal 1881 alla fine del secolo, lo stato cileno effettuò un intervento militare sul territorio del Ngülu Mapu, nella cosiddetta "Pacificazione dell'Araucanía". Questa seconda conquista del sud americano ebbe luogo su entrambi i lati della Cordillera, in tutto il Wallmapu o Paese Mapuche, e si concluse verso la fine della decade del 1880 con l'espropriazione delle terre ancestrali dei e delle Mapuche, che vennero poi imprigionati, esposti nei musei, reclutati con la forza nell'esercito o utilizzati come mano d'opera servile. La storiografia mapuche problematizza questa esperienza come «kuxanzuamkülen» («l'essere traumatizzati, rimanere nel trauma»), esperienza dello strappo (Antileo et al. 20) e della caduta del mondo. Così Kumillanka Naqill cantava le sue disgrazie, nei primi anni del XX secolo:

Così, quindi, vivo.

Ricordo quelli che vivevano prima,

Conoscevo i cacicchi buoni.

Così, quindi, abito di nuovo la mia terra.

io sono un uomo povero;

Dio mi compatirà.

Le mie idee se ne vanno via;

poi piango

(in Augusta, 1910: 170).

Non senza contraddizione, le narrazioni trionfanti, più che esaltare la conquista militare, davano nuova vitalità alle spiegazioni deterministiche; Forse perché queste ultime permettevano di sollevare da ogni responsabilità gli Stati nascenti che si fondavano, come quello coloniale, sulla violenza genocida, mentre evocava la resistenza, l'evidente presenza dei Mapuche, che, malgrado tutto, continuavano apparendo, cercando, percorrendo i loro sentieri. Mentre si spegnevano gli incendi nelle tolderías mapuche e nei campi di prigionia argentini, furono riclassificati per la nuova era come «indios inutili, di deposito o prigionieri» (Nagy e Papazian par. 36), si ripeté, poi, come una litania che la "razza araucana" era giunta nel suo periodo di estinzione.

Fig. 2. Carvajal y Valck. 1890/1900. Formato carta da visita. Fonte Margarita Alvarado, Pedro Mege & Cristián Báez, Mapuche. Fotografías secoli XIX y XX. Costruzione e montaggio di un immaginario. Santiago de Chile: Pehuén Editores, 2001. [9]

Durante gli ultimi decenni del XX secolo, in coincidenza con la guerra e la persecuzione o con il successivo momento di repressione e impotenza e disorientamento mapuche, vari fotografi cileni scattarono foto nel formato, famoso all'epoca, della carta da visita. Producendo vari contesti scenografici, i Mapuche vennero inscritti nel quadro dello studium dell'epoca, in scene spesso poco plausibili, posando davanti scenari importati dall'Europa o dal Nord America, con stampe di figure art noveau, giardini alla francese, palme, vasi e colonne, così care all’arredamento delle case delle nuove famiglie borghesi. Il ritratto individuale mapuche mette in evidenza i segni "etnici", l’abbigliamento, e le caratteristiche fisiche sempre tipiche quando ci si arrende al dictum che all'epoca attraversava la fotografia criminale e quella etnografica. I soggetti fotografati, allo stesso tempo, sviluppano gesti che il più delle volte non nascondono la distanza dall'ambiente e dalla mediazione. Le fotografie scattate in studio risultano essere strane composizioni che dislocano l'obiettivo della carta da visita e allo stesso tempo mostrano l'inadeguatezza dello studium fotografico borghese e antropologico nell’esprimere questi popoli e le loro culture. Sono, quindi, documenti particolarmente importanti per evidenziare questa dislocazione.

Nell'immagine precedente (Fig. 2) è il volto di un anonimo mapuche che ci viene imposto sotto forma di ritratto autonomo per una carta da visita. La vicinanza della cornice [10] ci permette di riconoscere i segni sulla sua pelle, i solchi e la malattia della vista (probabilmente un glaucoma). Il suo corpo è leggermente curvo. Ricordiamo, poi, la ragione del decadimento naturale degli indigeni: eludere la catastrofe, il genocidio. Ruinare: far cadere, comporre l'intera cultura mapuche come un sedimento, il resto di un mondo materiale decaduto per la scienza etnografica, e i suoi soggetti come uomini al collasso, uomini-rovina, presenze fantasmatiche di una distruzione che si nega ma che veniva esercitata sul corpo e l'intera cultura di quella nazione. La rovina, tuttavia, lo sappiamo, ha uno status ambiguo. Rovina è anche ciò che resta nel crollo, che compare nel giudizio dei secoli. Come può quel suo sguardo rovinoso, che immaginiamo coperto di opacità, chiamarci con tanta forza di interpellanza? Che cosa ci convoca del suo sguardo annebbiato? Sono immagini paradossali, prodotte per rovinare e commercializzare allo stesso tempo (fotografie di studio, carte da visita esotiche sugli "Araucaniani" del Cile); trasformando i corpi in resti e nello stesso tempo merce, essi diventano, al di là del controllo dell'occhio fotografico, materialità della memoria, testimonianze, prove sensuali della vita che si era cercato di catturare. Rivelazioni: perché siamo obbligati a fissare lo sguardo su quello della persona ritratta e immaginare ciò che vede, come gli appariamo davanti, e riconoscerci, in un'immagine che rivela anche il fatto estetico stesso – nell'imminenza di una rivelazione che non si verifica, come direbbe Borges [11]  –, una latenza, una continuità, uno sguardo che continua apparendoci come il disvelamento dell'intero io della persona ritratta [12] nel suo scindere il nostro stesso sguardo, producendo la scissione che ci attraversa nell'accogliere il suo; turbando i tempi e le certezze della fine e della caduta, pronunciate dalle vanità coloniali.

Restituire: il montaggio utopico di «Inakayal Vuelve»

Alla fine del 1886, il grande capo Inakayal [13], uno degli ultimi a resistere alla campagna militare di occupazione argentina, fu confinato nel Museo di Scienze naturali di La Plata. Il condottiero, che aveva dominato le vaste regioni meridionali tra il rio Negro e il fiume Limay, il lago Nahuel Huapi e il fiume Kaleufu (oggi chiamato Neuquén), dal Waizuf Mapu (territorio del Borde cordillerano) al Willi Mapu (Territorio del Sud), è imprigionato nel Museo insieme a Foyel e Sayhueque, alcuni dei più importanti capi Mapuche dell'epoca, alle loro famiglie e ai loro amici intimi. Circondati da resti umani indigeni che facevano parte delle collezioni antropologiche in mostra, Inakayal e la sua gente potevano immaginare il destino che li attendeva. Nella fotografia di Inakayal (Fig. 3), forse scattata nella prigione di Tigre, l'uomo che non ha mai voluto cedere il suo nome agli invasori (non ha negoziato la sua nazionalità e quindi non ha accettato nessuna regalia dallo stato argentino) osserva davanti all'occhio della macchina fotografica, in una delle immagini più espressive, le terribili conseguenze della sconfitta subita dal popolo Mapuche nel Puel Mapu, che aveva conteso in maniera decisa il proprio territorio, per tutto il secolo, con lo stato argentino. I suoi gesti sono pieni di qualcosa di simile ad un lontano rimprovero nei confronti di coloro che lo costringono all'immagine, ad un atto di dominazione miserabile e vano, sembra dire. Lo sguardo di Inakayal è, di nuovo, incommensurabile nel suo giudizio sulla "civiltà" che lo vuole assoggettare.

Inakayal morirà alla fine del settembre 1888, ma solo dopo più di un secolo, nel 1994, parte delle sue spoglie (i suoi resti ossei) vennero restituite alla comunità mapuche a Tecka, Chubut; e vent'anni dovettero passare ancora affinché, nel 2014, toccasse alle sue parti restanti: cervello, cuoio capelluto, maschera mortuaria e il poncho che regalò una volta a Moreno in segno di amicizia, oltre ai resti dei suoi parenti.

Fig. 3. Antonio Modesto Inakayal (ca. 1884-86). Archivo Histórico Museo de La Plata

Quella di Inakayal è una foto scattata da un vanitoso vincitore per una società vana; una foto dell'espropriazione e dell'orgoglio del dominio sul destino dell'altro. Una foto di scienza e sicurezza. Una foto predatoria.

Il progetto #InakayalVuelve [14], di Sebastián Hache, evoca questo destino. Hache raccoglie queste immagini documentarie della vergogna contro il popolo mapuche e i suoi rappresentanti e propone l'intervento della loro materialità con l'obiettivo di restituire l'immagine come parte della memoria sensibile del corpo sociale mapuche, ancora lacerato dalla violenza simbolica e materiale della vanità dei vincitori. Così, la sua ricerca di natura performativa e transmediale si configura di per sé come ricomposizione di una rete di affetti, ricordi e creazione di nuove memorie sensibili intorno alla storia di questi popoli. #InakayalVuelve è poi un modo per comporre un altro tempo, sciogliendo la vergogna e restituendo la possibilità di immaginare utopicamente il reincontro con questi soggetti violati. Riprendendo lo spazio, percorrendolo al contrario, la squadra guidata da Hache ripercorre i sentieri dove i rapitori condussero gli indigeni catturati, costringendoli ad una marcia forzata partendo dal sud del paese. Il progetto ha così ripercorso diverse città nel "Paese dei meléti", e in ognuna ha portato a un incontro senza precedenti con le immagini delle e dei Mapuche.

In primo luogo, come spiegato dal regista, lo sviluppo delle fotografie venne realizzato sfruttando la particolare luminosità di ogni ambiente. Fu la luce della Patagonia, la stessa luce che un giorno aveva seguito gli indigeni nella loro esistenza piena, a dare vita (a dare-alla-luce) alle nuove immagini. Queste fotografie, ognuna unica, vennero successivamente e ulteriormente dipinte. Come dice il regista, «Nel gergo della fotografia, il fatto di dipingerle si chiama 'illuminarle'. La nostra intenzione era trascinarle fuori dall'oscurità in cui furono scattate» (Hache, Restitución, par. 1).

Dopo questo processo varie persone, convocate da ognuno di quei luoghi, hanno lavorato ricamando le immagini, intervenendo direttamente con fili colorati sulla carta di cotone, con tutta la cura che questo richiede. Per il popolo Mapuche il lavoro con il tessuto, con il ricamo, e, qui, per estensione, il bordato, possiede senza dubbio una proiezione allegorica che lega queste pratiche all'immaginazione di nuovi percorsi, alla creazione di altre strade, collegamenti e canali, così come l'autonomia di creare una propria storia; l'importante corrente della storiografia mapuche recente, infatti, parla lo stesso linguaggio quando mette in luce «la capacità del popolo mapuche di tessere nuove trame e tessere i propri passi. […] I vari wixal (telaio) che costruirono le nostre e i nostri nelle profondità e nelle estensioni del mapu in cui sopravviviamo» (Antileo et al., 2015: 18).

Il ricamo possiede, per Hache e il suo team, un significato riparatore. Di fronte alla concezione dell'immagine come prodotto dell'imitatio, della rappresentazione analogica delle e dei soggetti ritratti, l'intervento del ricamo li rielabora utopicamente come un modo per connettersi con l'esistenza integrale dei soggetti indigeni, che era stata paradossalmente negata dalla violenza della pratica fotografica coloniale e predatoria. Recuperare, attraverso la connessione sensibile che il lavoro di tessitura favorisce, la profondità della materia, la profondità di quell'esistenza imprigionata come forma di esaltarne l'apparenza (il contrario della scomparsa), reintegrando la figura, sperimentata da noi, come osservatori, grazie alla presentazione congiunta dell’immagine e del rovescio del ricamo che espone la cucitura e l'ordito come un lavoro umano di montaggio (Fig. 4 e 6 a destra), mettendo in evidenza l'intervallo tra loro e noi, e il necessario lavoro della memoria, che ci pone anche di fronte alla possibilità del vuoto, della scomparsa della figura che quest'opera cerca di evocare: «Il ricamo è un tentativo di restituire loro l'anima che gli venne tolta al momento dello scatto», dice Hache (¿Por qué bordar? par. 1).

Fig. 4. Inakayal. Sebastián Hache, proyecto #InakayalVuelve.

#InakayalVuelve è, allo stesso tempo, un intervento rituale, un cerimoniale che mira alla cura delle immagini attraverso l'espressione dell'empatia e dell'affetto come potenza in grado di produrre una comunità utopica con la storia di questi soggetti violati:

«Quando ho iniziato a dipingerla e ricamarla [l'immagine di Inakayal], l'idea era di curarlo […] Perché ricamarli? Ricamare e tessere sono atti di amore, di cura. È una cerimonia per riparare, guarire. È stabilire un dialogo con l'immagine per liberare ciò che era rimasto prigioniero in esse, per rivelare ciò che lo scatto nascondeva. Ricamare una foto trasforma l'immagine, ma anche a colui che la ricama» (Hache, Bordar el genocidio, par. 5).

Questo è ciò che viene fatto nel modo più delicato con il bellissimo intervento sulla foto del capo Foyel [15], che era stato costretto a posare nudo durante la sua prigionia:

Fig. 5. Cacique Foyel. Samuel Boote, ca. 1884-86.

Fig. 6. Foyel. Sebastián Hache, proyecto #InakayalVuelve.

Il corpo nudo del capo Foyel, vana espressione della completa espropriazione cui era sottoposto il suo popolo (Nahuelpán Moreno 2012), è qui letteralmente avvolto nel tessuto continuo di una veste che gli copre interamente il busto, in un montaggio utopico di materiale eterogeneo che aspira a una proiezione alchemica, purché non rinunci alla trasmutazione della cosa-immagine nel calore letterale sul corpo del cacique: «Il processo è chimico, ma anche alchemico. Si tratta di riportare alla luce ciò che fu fatto nell'oscurità del genocidio» (Hache, Alchimia, par. 14). Si tratta di produrre, sensibilmente, dalla matericità sensibile della lana sul corpo, la protezione, la cura dell'altro. E si tratta anche di rendere sensibile (Didi-Huberman, 2014b) la mostra del lavoro di montaggio (Fig. 6, a destra) l'estrema nudità a cui lo espone la vanità coloniale, mostrando, facendo apparire il buco, l'estremo vuoto – e il freddo – che si riverbera nell'immagine scientifico-poliziesca, senza l'intervento del tessuto, del rifugio comunitario.

La rappresentazione di una donna mapuche di cui non conosciamo il nome (Fig. 8) ci mostra anch'essa il potere ricostituente dell'intervento di #InakayalVuelve. La modalità della fotografia antropometrica coloniale che costituisce la base su cui si inscrive la performance (Fig. 7 a sinistra e a destra), viene da questa dislocata attraverso la colorazione dell'immagine della donna e del suo abbigliamento, e dell'intervento attraverso il ricamo di una sorta di corona costituita da un delicato pizzo di ñandutí (guaraní) ricamato in filo chiaro e che, in modo metonimico, posto sulla sommità del suo corpo, ridefinisce l'intera comprensione della figura di questa donna anonima, ora associata ad una speciale dignità spirituale e trascendente (come avviene nelle diverse culture attraverso il simbolo della corona).

Fig. 7. Mujer de las tribus de Inakayal y Foyel. Fuente: Vignati, Lámina XXIII.

Fig. 8. Mujer de las tribus de Inakayal y Foyel. Sebastián Hache, proyecto #InakayalVuelve.

Sono sveglio: trepelen. Mi manca il tuo colore: duamnien tami adentungen. La tua presenza è confermata in noi: eymi tami mülepan pwefaluwkey inchiñ mew. Riposa: ürkütunge may. […] Ho scelto di ricamare Trepelen, sono sveglio. La traduzione è squisita perché il significato – come sempre accade con la lingua mapuche – è molto più profondo che in spagnolo. […] L'ho ricamato sulla coperta di una donna di cui non conosco il nome. Sulla sua testa, come un fiore, ho applicato un motivo ñandutí. Lo ha fatto Gilda, una tessitrice che ho conosciuto fuori Itauguá, in Paraguay. C'è qualcosa nei loro sguardi che li rende imparentati, che li unisce» (Hache, La lunga marcia, par. 19-21).

 Probabilmente Sebastián Hache ha voluto ricordare con questo ricamo e con questa donna la giovane Aché Damiana, sulle cui immagini di nudo ha anche ricamato. «L'11 giugno 2010, dopo più di cento anni dalla sua morte nell'ospedale psichiatrico Melchor Romero, la prima parte dei resti di Damiana è stata consegnata dal Museo di scienze naturali di La Plata alla sua comunità nella città di Ipetīmí in Paraguay, che le ha dato un nuovo nome: Kryygi; poi le autorità argentine restituirono la testa, la lingua e i capelli, che rimasero per più di cento anni in possesso dell'ospedale Charité di Berlino» (Bernabé, 2020: 165). Di fronte alla completa espropriazione dei soggetti indigeni in questa Seconda Conquista di Abya Yala, gli artisti che lavorano raccogliendo e ridiscutendo l'archivio attivano le forme eterogenee di restituzione [16] memoriale, promuovendo l'aspetto immaginale di questi popoli, quale risorsa utopica che aspira a riaprire il tempo storico all'empatia e al riconoscimento sensibile delle esistenze negate dalla vanità predatoria coloniale.

Fig. 9. Muri di Santiago del Chile, novembre, 2019. Al centro: immagine di Camilo Catrillanca Marín (1994-2018), assassinato alle spalle nella sua comunità di Temucuicui, Wallmapu, 14 de noviembre de 2018. Alejandra Bottinelli

Note

[1] Il popolo Aché (esp. persona), appartiene alle selve subtropicali dell'attuale Paraguay orientale. La lingua Aché fa parte della famiglia linguistica Tupí-Guaraní. Si conoscono diversi gruppi di Aché con specifiche caratteristiche culturali e dialettali. Gli Aché furono soggetti all'espropriazione delle loro terre come altri popoli del Paraguay, soprattutto a partire dal 1870, dopo la Guerra della Triplice Alleanza. Nel XX secolo, la dittatura di Alfredo Stroessner ha condotto una feroce repressione contro questo popolo, che soffre omicidi, cattura e riduzione in schiavitù dei propri figli. Cfr. Alejandro Parellada e María de Lourdes Beldi de Alcántara (a cura di), Los Aché del Paraguay: discusión de un Genocidio, Grupo Internacional de Trabajo sobre los Indígenas-IWGIA, 2008.

[2] «Nato il 9 novembre 1872 a Radonitz, Posen, Robert Lehmann-Nitsche ha studiato scienze naturali, antropologia e medicina a Monaco e ad Amburgo. All'età di venticinque anni, nel 1897, assunse la direzione del dipartimento di antropologia del Museo de la Plata». http://www.zeitenblicke.de/2008/2/projektskizze

[3] Centinaia di resti di indigeni vennero esposti al pubblico fino al 2006 nelle vetrine del Museo Argentino.

[4] Lehmann-Nitsche, Robert. Indigene Gruppen in Südargentinien: Alakaluf / Alacaluf (Kawesqar). Punta Arenas [u.a.]: Ibero-Amerikanisches Institut - Preußischer Kulturbesitz, 1902.

[5] Nonostante Lehmann-Nitsche si sia pronunciato in difesa degli indigeni, contro l'etnocidio commesso dallo Stato argentino e in favore del loro diritto al territorio, nello stesso tempo (come ben spiega Malvestitti) caratterizzava gli indigeni come "residui compatti di popolazione autoctona" (1915), "resti"» (1927b) (Malvestitti, 2012: 50).

[6] Cfr. Benjamin Vicuña Mackenna, 1868, 414.

[7] Gente dei canneti, nel linguaggio mapuche. Il discorso europeizzato li battezzò Ranqueles o Pampas.

[8] Gli europei e i creoli chiamavano Paese delle Mele o Manzaneros questo spazio situato nel Río Negro, Neuquén e Chubut.

[9] Ringrazio in particolare Pehuén Editores, attraverso il suo direttore Sebastián Barros, per l'aiuto fornito nell'ottenere alcune delle immagini incluse in questo saggio. La sua generosità è segno di una vocazione alla decolonizzazione degli archivi che è, finalmente, sempre più presente nel Cono Sur.

[10] «All'epoca, le inquadrature erano realizzate a partire dai movimenti in avanti e all'indietro della macchina fotografica, per i ritratti del busto o del viso era necessario avvicinarla a una distanza di un metro» (Carreño, 2001).

[11] J. L. Borges, La muraglia e i libri (1950).

[12] «[…] produrre il soggetto-esposto. Produrlo: portarlo in avanti, cacciarlo fuori ", afferma Jean-Luc Nancy (2012: 16). Ho lavorato più in dettaglio su questa fotografia in Sguardi mapuche: dislocazioni dell'esperienza nell'immagine fotografica all'inizio del XX secolo (2021).

[13] Antonio Modesto Inakayal era un capo Gününa Küne - Tehuelche nato a Tecka, Chubut, ca. 1829-1833. Inakayal, insieme a Foyel e a circa 3000 indiani, vennero sconfitti il 18 ottobre 1884 dopo aver resistito per più di tre anni. Insieme alla propria famiglia e ai loro compagni vennero fatti prigionieri e successivamente trasferiti nella prigione militare di Tigre, sull'isola Martín García. Dopo più di un anno e mezzo, Francisco P. Moreno, che una volta era stato ben trattato dagli indigeni durante i suoi viaggi nel sud, riuscì a trasferirli al Museo Nazionale di La Plata. Nel museo erano sistemati in una stanza sotterranea, dove venivano rinchiusi di notte e costretti a lavorare durante il giorno. Secondo le informazioni ufficiali, Inakayal morì per cause sconosciute il 24 settembre 1888. Il suo corpo venne smembrato e disseccato e poi esposto al pubblico del museo fino agli anni '40.

[14] «#InakayalVuelve è un'indagine performativa, il lancio di una rete, un'esperienza transmediale di non-fiction», afferma il suo direttore, Sebastián Hacher, che, insieme a Revista Anfibia e al Espacio de Articulación Mapuche y Construcción Politica, danno così continuità al progetto # Restitución, una mostra realizzata in collaborazione con Mariana Corral (http://inakayal.revistaanfibia.com/index.php/2018/10/03/restitucion/)

[15] Si dice che il capo Foyel estendesse i suoi domini fino al sud del lago Nahuel Huapi. Venne fatto prigioniero insieme a Inakayal ma riuscì a scappare dal Museo di La Plata e il luogo della sua morte è sconosciuto. Sua figlia Margarita morì in prigionia il 23 settembre 1887, lo stesso mese in cui morirono anche la moglie di Inakayal, Tafa, una donna indigena della Terra del Fuoco e una ragazza che non è stata identificata.

[16] Come spiega Mónica Bernabé, «Restituzione è una parola chiave in Argentina. L'idea della restituzione è associata alla ricerca dei bambini nati in cattività e sottratti ai genitori durante l'ultima dittatura militare. Si riferisce anche alla ricostruzione delle loro identità profanate, cancellate o distrutte come parte dell'esecuzione di un piano sinistro programmato nelle viscere stesse dello Stato» (2020: 163).

 

Testi citati:

Alvarado, Margarita, Mege, Pedro y Christian Báez, Mapuche. Fotografías siglos XIX y XX: Construcción y montaje de un imaginario, Santiago, Pehuén Editores, 2001.

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Bottinelli Wolleter, Alejandra, “Miradas mapuche: dislocaciones de la experiencia en la imagen fotográfica a comienzos del siglo XX”, en Cora Requena Hidalgo · Alejandra Bottinelli Wolleter (eds.), en Dislocaciones de la modernidad iberoamericana: Escrituras de los márgenes en el primer tercio del siglo XX, Berlín: Peter Lang, 2021, pp. 25-50.

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Gabbert, Wolfgang. “The Second Conquest: Continental and Internal Colonialism in Nineteenth-Century Latin America”, en Dittmar Schorkowitz · John R. Chávez · Ingo W. Schröder (Eds.), Shifting Forms of Continental Colonialism: Unfinished Struggles and Tensions, 2019, pp. 333-362.

Malvestitti, Marisa. Mongeleluchi zungu: los textos araucanos documentados por Roberto Lehmann-Nitsche, Berlín: Ibero-Amerikanisches Institut Gerbr. Mann Verlag, 2012.Editorial/Editor

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Vicuña Mackenna, Benjamín, “Segundo discurso”, en Obras completas de Vicuña Mackenna, Vol. XII, Santiago, Universidad de Chile, (11 de agosto de 1868) 1939.

Web:

Hache, Sebastián. “¿Por qué bordar?”. Proyecto #InakayalVuelve. https://inakayal.revistaanfibia.com/

___. “Alquimia para la foto de un prisionero”. Proyecto #InakayalVuelve. https://inakayal.revistaanfibia.com/index.php/alquimia-para-la-imagen-un-prisionero/

___. “Restitución”. Proyecto #InakayalVuelve. http://inakayal.revistaanfibia.com/index.php/2018/10/03/restitucion/

___. “Bordar el genocidio: La larga marcha de un lonko para volver a su tierra”. http://revistaanfibia.com/cronica/la-larga-marcha-de-un-lonko-para-volver-a-su-tierra/

Film:

Damiana-Kryygi (Argentina, 2015). Guión y dir.: A. Fernández Mouján. Documental.

Fotografíe:

Lehmann-Nitsche, Robert. Indigene Gruppen in Südargentinien: Alakaluf/Alacaluf (Kawesqar). Punta Arenas [u.a.]: Ibero-Amerikanisches Institut - Preußischer Kulturbesitz, 1902.

Interviste:

Hache, Sebastián. “La larga marcha de un lonko para volver a su tierra”. Cosecha Roja. 24/09/2018 http://cosecharoja.org/la-larga-marcha-de-un-lonko-para-volver-su-tierra/





Testo originale

Vanitas

El muro quebrado de un antiguo hospital psiquiátrico en cuyas derruidas grietas creemos leer lo que guarda esa ruina: dolor, tristeza, abandono. La imagen fotográfica de una jovencita cuyo cuerpo desnudo en la intemperie que fue ese comienzo del siglo XX para distintos pueblos indígenas del Abyayala, se superpone al muro ahora vacío, y observa impasible a una cámara a la que le da la imagen de sí, de su cuerpo expuesto sin darle ni un centímetro más de su ser, ningún gesto de subordinación. La joven es Damiana, o Kryygi, que es el nombre póstumo que le otorgó su comunidad aché del Paraguay cuando en 2010 comenzó la recuperación de sus restos desde el Museo Nacional de la Plata. Así nos lo explica Damiana-Kryygi (2015), el documental del director argentino Alejandro Fernández Mouján que recogiendo indicios sigue el proceso de la vida de Damiana desde que fuera secuestrada de su aldea hasta la recuperación de las partes de su cuerpo disgregadas entre Argentina y Alemania. La serie de imágenes de la niña indígena desnuda a la intemperie, ante el ojo fotográfico no dejan de aparecer y hacernos comparecer. Como si la resignada aceptación de su gesto nos llamara como un sordo susurro que tiñe hasta el presente las paredes del hospital con la huella de sueños, dolores y renuncias de las centenares de mujeres que pasaron por el psiquiátrico y por el Pabellón Charcot, dedicado, como evoca su nombre, al tratamiento de los múltiples síntomas de eso que la medicina decimonónica catalogó como histeria femenina. Pero no solamente: otra vertiente del dolor de siglos se pega a la foto, convive en su mirada y nos tira, nos hace comparecer, en juicio, a dar testimonio, nos exige palabras, una y otra vez, desde su mirada y su boca serena pero imperturbablemente cerrada. Necesitamos decir, y preguntarle, pero ella no profiere palabras, vencida la palabra, porque el aparecer del dolor exige un «espacio-entre», un espacio de silencio para ver, para presenciar (hacer presencia) de ese «aparecer político […] de los pueblos» (Didi-Huberman 2014a: 22).

El documental recompone algunos momentos de la vida y la muerte de esta niña aché [1], cuya existencia bien puede ser entendida como una alegoría de la destrucción combinada y sistemática que sobre las existencias indígenas del Abya Yala, acometieron los estados latinoamericanos durante la última parte del siglo XIX; por el terror sobre sus cuerpos y su vida integral en la llamada Segunda Conquista (Gabbert 2019), que tuvo objetivos políticos pero también y fundamentalmente económicos, de apropiación de la naturaleza y recursos indígenas para capitalizarlos en el mercado mundial.

En 1896 una expedición científica procedente del Museo de la Plata, en Argentina, encabezada por el antropólogo holandés Herman F. C. Ten Kate y el francés Charles de la Hitte, se dirigió a Paraguay para recoger los restos de algunas personas del pueblo aché que habían sido asesinados por colonos. Guiados por los propios asesinos de los aché, los antropólogos recogen, como fruto de su expedición, el esqueleto de una mujer joven asesinada a machetazos. El otro hallazgo fue una niña aché, viva, de menos de cuatro años que había sido capturada en la embestida. La niña, según explicó La Hitte fue bautizada Damiana por sus captores, asesinos de su comunidad. En 1898, con seis años, fue entregada al famoso médico Alejandro Korn, quien la ocupó como sirvienta en su casa. A la edad de aproximadamente catorce años, la niña fue internada en el Hospital Psiquiátrico Melchor Romero, por orden del propio Korn, debido a que sus comportamientos sexuales liberales perturbaban a la familia que los consideraban índice de alguna patología. En el hospital es cuando, un día de mayo de 1907, la niña fue obligada a posar desnuda a la intemperie para una sesión fotográfica con el antropólogo alemán. Dos meses después la niña falleció aquejada de una tuberculosis que, según recientes investigaciones, tenía muy desarrollada al momento de las fotos. El Museo Nacional de la Plata se encargó de su cuerpo y este fue partido, con afanes científicos, como era corriente que hiciera el museo. Su cabeza y pelo, valiosos cuanto más para los estudios frenológicos de la época, fueron enviados por el antropólogo alemán Robert Lehmann-Nitsche [2] a su amigo, el berlinés Hans Virchow, con el objetivo de estudiar sus caracteres raciales.

La vanidad (del latín vanĭtas, vanus, «hueco, vacío»), reúne en sí misma la soberbia y la futilidad y, en las artes y el género que lleva el nombre, expresa la preocupación ante la fugacidad y fragilidad de la vida que se nos escapa mientras, ingenuos, vacuos, nos revolvemos en la arrogancia. La muerte, nos dicen las artes, acecha en continuidad metonímica con la soberbia, porque no hay soberbia que no se vea impelida a la autorrepresentación de sí hasta que el yo se vacía: representación de una representación hueca: calavera, todo el vacío en el fondo del yo engordado; cráneos al lado de libros. Caemos, caeremos junto con esa soberbia.

¿Qué pasa cuando la vida está tan desafiliada de la vida de la naturaleza, de los otros, que ni siquiera el sufrimiento, el dolor del otro, se nos parecen calavera, anuncio de la vanidad, qué pasa cuando ni los huesos de otros son suficiente materia para recordar que la muerte nos continúa?, ¿qué pasa cuando la calavera se tornan materia sin lengua, pura mímesis de lo que quieres oír porque has olvidado que vas a morir, porque tú vida ha sido ungida con el poder de hacer hablar a los otros para ti? Las fotografías de Damiana desnuda en toda su intemperie muestran hasta dónde el hombre de ciencia que era Lehmann-Nitsche era insensible y capaz de olvidar no solo su memento mori, la recordación de su propia muerte en la mirada de la niña, sino toda posibilidad de comprender la violencia de su cámara que obliga a la extrema exposición a ese cuerpo de niña humillada. Lehmann-Nitsche, que estaba a cargo de la colección del museo del Plata [3], compuesta de miles de huesos de indígenas asesinados en la Campaña del Desierto, documenta, a pesar de su interlocutora, su vanidad es mayor, le devora, la misma que le hace sentir incómodo por la altivez de esa joven que, desconfiada, y aún a pesar de conocer su propio idioma (la niña había aprendido alemán) no profiere palabra. El antropólogo había realizado ya antes, en 1902, una serie de fotografías de mujeres desnudas pertenecientes al pueblo kawésqar [4], donde la desnudez del cuerpo de la mujer indígena, como ha señalado Déborah Dorotinsky a propósito de la fotografía etnográfica mexicana de la época, al tiempo que abona al imaginario general del primitivismo, a menudo supera la mera adscripción de ese rasgo para notarse excedida, evidenciando los encontrados deseos «que las mujeres indígenas despertaron en fotógrafos, exploradores y otros hombres blancos, y la forma en la que aquéllos hicie­ron de éstas objetos exóticos de contemplación y fantasías eróticas» (116). La ciencia se desborda de mito, de deseo, de morbo. La cámara, en este sentido prótesis de la libido del científico, le muestra incapaz de mantener el lugar: y hace salir a la niña a la intemperie. Y la expone, y se expone a la vez en su extrema vanidad de hombre blanco, ejercitando el dominio e incapaz de mirarse desde fuera en la extrema futilidad del vacío que deja a su alrededor: un muro solo, ruinoso, que aún recuerda que la muchacha no se quejó, que cerró su boca de manera radical, definitiva, restándole todo hallazgo de ruina (no es dable olvidar que Lehmann-Nitsche ejercía su labor diaria en medio de los restos humanos de miles de indígenas, que eran para él justamente aquello, restos, remanentes de un tiempo cumplido, que le hablaban de una historia terminada, de un pueblo muerto, acabado o en proceso de acabar [5]).

Ruinare / apparescere

Ruinare (lat.): lo que cae, del latín ruere, caer. Apparescere (lat.): poner la vista, aparecer hacia (ad-). Los pueblos que quieren borrados (Delenda Arauco! imprecaba un liberal chileno en 1868 [6]), son completamente expuestos a la vanidad lumínica del que se cree capaz de echarles luz. La cámara voraz del antropólogo que acompaña a la vanguardia capitalista quiere modelarlos a su imagen (bárbaros de su civilización). Pero expuestos a la extrema visibilidad se aparecen pueblo. Por fuera de todo cálculo de genocida, se rehacen pueblo en el montaje de sus miradas. Los que quieren ser ruinados, hechos caer, desaparecidos, aparecen, se nos aparecen.

«Conquista del Desierto» es el nombre que el estado argentino dio a la campaña militar emprendida contra los indígenas que habitaban el Puel Mapu, sobre todo sobre los tehuelche, rangkülche [7] y los puel williche [8], y tuvo su momento más fuerte entre 1879 y 1885. Asimismo, desde 1881 y finales de ese siglo, el estado de Chile llevó a cabo una intervención militar sobre el territorio del Ngülu Mapu, en la llamada «Pacificación de la Araucanía». Esta Segunda Conquista del sur americano se desarrolló a ambos lados de la Cordillera, en todo el Wallmapu o País Mapuche, y concluyó hacia fines de la década de 1880 con el despojo de las y los mapuche, a quienes se asesinó, se les arrebató sus tierras ancestrales, se les encarceló, se les expuso en museos, se les reclutó forzadamente para el ejército u obligó como mano de obra servil. La historiografía mapuche problematiza esta experiencia como el «kuxanzuamkülen» («el estar traumado, estar en el trauma»), en la vivencia del desgarro (Antileo et al. 20) y la caída del mundo. Así cantaba sus desdichas Kumillanka Naqill, en los primeros años del siglo XX:

Así, pues, vivo.

Recuerdo los que vivían antes,

Yo me conocía los buenos caciques.

Así, pues, otra vez habito mi tierra.

Hombre pobre soy yo;

Dios me tendrá lástima.

Se me van mis ideas;

Entonces lloro

(en Augusta, 1910: 170).

 

En aparente contradicción, sin embargo, las narrativas triunfantes menos que ensalzar la conquista militar, otorgaron nueva vitalidad a las explicaciones deterministas; tal vez si porque permitía dispensar de responsabilidades a los nacientes estados que se fundaban, como el colonial, sobre la violencia genocida, a la vez que conjurar la resistencia, la evidente presencia de las y los mapuche que, a pesar de todo, seguían apareciendo, buscando, andando sus caminos. Mientras se apagaban los incendios de las tolderías mapuche y en los campos de prisioneros argentinos se les re-clasificaba para la nueva época entre «indios inútiles, de depósito, o presos» (Nagy y Papazian párr. 36), se repitió, entonces, como letanía que la «raza araucana» había llegado a un período de extinción.

Durante las últimas décadas del siglo XX, coincidiendo con la guerra y la persecución o con el momento posterior, de reducción, represión y desamparo y desorientación mapuche, diversos fotógrafos chilenos realizan imágenes de personas de este pueblo en el formato, famoso en la época, de la carta de visita. Produciendo diversos contextos escenográficos, los mapuche son inscritos en el marco del studium de la época, en escenas muchas veces inverosímiles, modelados por telones importados de Europa o Norteamérica, que tenían impresas figuras art nouveau, jardines franceses, palmeras, jarrones y columnas, tan caras a la modelación de las nuevas familias burguesas. El retrato individual mapuche destaca en general las marcas «étnicas», siempre atavíos típicos, y las características físicas cuando se rinde al dictum que en la época cruzaba la fotografía criminal y la etnográfica. Los sujetos fotografiados, a la vez, desenvuelven gestualidades que la mayor parte de las veces no oculta la distancia respecto del medio y la mediación. Las fotografías hechas en estudio resultan, así, en extrañas composiciones que dislocan el objetivo de la carta de visita a la vez que evidencian la impropiedad del studium fotográfico burgués y antropológico para expresar a estos pueblos y sus culturas. Son, por ello, especialmente ricas para evidenciar esa dislocación.

En la imagen precedente (Fig. 2) es el rostro de un anónimo hombre mapuche el que se nos impone en la forma de un retrato autónomo para una carta de visita. La cercanía del encuadre [10] nos permite reconocer las marcas de su piel, sus surcos y la afección en sus ojos (probablemente un leucoma). Su cuerpo está ligeramente encorvado. Recordamos, entonces, el motivo del decaimiento natural del indígena: elusión de la catástrofe, del genocidio. Ruinare: hacer caer, componer la entera cultura mapuche como un sedimento, resto de un mundo caído material para la ciencia etnográfica, y a sus sujetos como hombres que se derrumban, hombres-ruina, presencias fantasmáticas de una destrucción que se niega pero que estaba siendo ejercida sobre el cuerpo y la cultura entera de esa nación. La ruina, sin embargo, sabemos, posee un estatuto ambiguo. La ruina es también aquello que permanece al colapso, que comparece en el juicio de los siglos. ¿Cómo puede ésa, su mirada ruinosa, que imaginamos transida por la opacidad, llamarnos con tal fuerza de interpelación?, ¿qué es lo que nos convoca de su vista nublada? Son estas, imágenes paradójicas, producidas para arruinar y mercantilizar a la vez (fotografías de estudio, cartas de visita exotizantes sobre los «araucanos» de Chile); para volver los cuerpos restos a la vez mercancías, se tornan, fuera de todo control del ojo fotográfico, materialidades de memoria, testificaciones, pruebas sensuales de la vida que intentaron apresar. Revelaciones: porque estamos obligados a fijar nuestra vista en la mirada del retratado e imaginar qué ve, cómo nos aparecemos ante él, y reconocer, en una imagen que revela también el hecho estético mismo -en la inminencia de una revelación que no se produce, como diría Borges [11]-, una latencia, una continuidad, una mirada que continúa apareciéndose como la develación de todo el yo del retratado [12] en su hendir nuestra propia mirada, producir la escisión que nos cruza a nosotros al acoger su mirada; perturbando los tiempos y las certezas del acabamiento y la caída, proferidas por las vanidades coloniales.

 

Restituir: el montaje utópico de «Inakayal Vuelve»

A fines de 1886 es recluido en el Museo de Ciencias Naturales de la Plata el gran cacique Inakayal [13], uno de los últimos en resistencia a la campaña militar de ocupación argentina. El líder, que había dominado las amplias regiones meridionales entre el río Negro y el Limay, el lago Nahuel Huapi y el río Kaleufu (hoy llamado Neuquén), del Waizuf Mapu (territorio del Borde cordillerano) al Willi Mapu (Territorio del Sur), es encarcelado en el Museo junto a Foyel y Sayhueque, algunos de los más importantes caciques mapuche de la época, sus familias y cercanos. Rodeados de restos humanos indígenas que formaban parte de las colecciones antropológicas en exhibición, Inakayal y los suyos podían imaginar el destino que les esperaba. En la fotografía de Inakayal (Fig. 3), posiblemente tomada en la prisión de Tigre, el hombre que nunca quiso rendir su nombre a los invasores (no negoció su nacionalidad y por ello no accedió a ninguna regalía de parte del estado argentino) observa de frente al ojo de la cámara, en una de las imágenes más expresivas de las terribles consecuencias de la derrota sufrida por el pueblo mapuche en el Puel Mapu, que había disputado decididamente su territorio, por todo el siglo, al estado argentino. Su gestualidad está transida de algo como una reprensión distante hacia quien le obliga a la imagen, un acto de dominación miserable y vano, parece decir. La mirada de Inakayal es, nuevamente, inconmensurable en su juicio a la «civilización» que le quiere sujetar.

Inakayal habría muerto a fines de septiembre de 1888, pero tuvo que pasar más de un siglo, hasta que en el año 1994 se restituyeron parte de sus restos (sus restos óseos) a su comunidad mapuche en Tecka, Chubut; y veinte años después, para que en el año 2014 fueran restituidas sus restantes partes: cerebro, cuero cabelludo, la máscara mortuoria y el poncho que le regalara a Moreno alguna vez en muestra de amistad, así como los restos de sus familiares.

La de Inakayal es una foto hecha por un vanidoso vencedor para una sociedad vana; una foto del despojo y de la soberbia del dominio sobre el destino del otro: una foto de la ciencia y de la seguridad. Una foto predadora.

El proyecto #InakayalVuelve [14], de Sebastián Hache, conjura este destino. Hache recoge estas imágenes documentales del oprobio contra el pueblo mapuche y sus representantes y propone la intervención de su materialidad con el objetivo de restituir la imagen como parte de la memoria sensible del cuerpo social mapuche, aún hendido por la violencia simbólica y material de la vanidad de los vencedores. Así, su investigación de carácter performático y transmedial se produce en sí misma como la recomposición de una red de afectos, rememoranzas y la creación de nuevas memorias sensibles en torno a la historia de estos pueblos. #InakayalVuelve es entonces una forma de componer otro tiempo, desandando el oprobio y restituyendo la posibilidad de imaginar utópicamente el reencuentro con estos sujetos violentados. Recogiendo el espacio, recorriéndolo en reversa, el equipo dirigido por Hache se traslada desandando los caminos que los captores obligaron a marchar, derrotados, a las y los indígenas que fueron apresando, desde el sur del país. El proyecto recorrió, así, distintas localidades de retorno al «País de los manzanares», y en cada una, propició una inédita encuentro con las imágenes de las y los mapuche.

En primer lugar, el revelado de las fotografías se realizó aprovechando la especial luminosidad de cada entorno, como explica el director. Fue la luz de la Patagonia, la misma que algún día les siguiera en su existencia plena, la que dio vida (dio-a-luz) a las nuevas imágenes. Esas fotografías, única cada cual, fueron luego y suplementariamente, pintadas. En palabras del director, «En la jerga de la fotografía al hecho de pintarlas se le llama ‘iluminarlas’. Nuestra intención era sacarlas de la oscuridad en las que fueron tomadas» (Hache, Restitución par. 1).

Después de ese proceso, personas convocadas de cada uno de los lugares trabajaron bordando las imágenes, interviniéndolas directamente con hilos de colores sobre el papel de algodón, con todo el cuidado que eso requiere. Para el pueblo mapuche, el trabajo con el tejido, con el enlace, y, aquí, por extensión el bordado tiene sin duda una proyección alegórica que vincula estas prácticas a la imaginación de nuevos caminos, la creación de otras vías, enlaces y cauces, así como de la autonomía para crear su historia; la importante corriente de la historiografía mapuche reciente, de hecho, habla el mismo lenguaje cuando pone de relieve «las capacidades del Pueblo Mapuche de urdir nuevas tramas y tejer sus pasos. […] los diversos wixal (telar) que construyeron las nuestras y los nuestros en las profundidades y extensiones del mapu en que sobrevivimos» (Antileo et al., 2015: 18).

El bordado tiene, para Hache y su equipo, un sentido restitutivo. Ante la concepción de la imagen como producto de la imitatio, de la representación analógica de las y los retratados, la intervención del bordado las reelabora utópicamente como una vía para la conexión con la existencia integral de los sujetos indígenas, aquella que había sido paradójicamente negada por la propia violencia de la práctica fotográfica colonial predadora. Recuperar, a través de la conexión sensitiva que propicia la labor del tejido, del calado sobre la materialidad, la profundidad de esa existencia encarcelada como una forma de potenciar su aparecer (como lo contrario de desaparecer), de reponer su figura, experimentada por nosotros, como observadores, gracias a la presentación conjunta que dispone el proyecto, del revés del bordado que expone la costura y la urdimbre como un trabajo humano de montaje (Fig. 4 y 6 der.), que pone en evidencia el intervalo entre ellos y nosotros, el trabajo necesario de memoria, y que nos enfrenta, por ello, también a la posibilidad del vacío, de la desaparición de la figura que este trabajo intenta conjurar: «El bordado es un intento para restituirles el alma que les fue quitada al momento de las tomas», afirma Hache (¿Por qué bordar? párr. 1).

#InakayalVuelve es, al mismo tiempo, una intervención ritualística, ceremonial que pretende la sanación de las propias imágenes a través de la expresión de la empatía y del afecto como potencia para producir una comunidad utópica con la historia de estos sujetos violentados:

«Cuando empecé a pintarla y bordarla [la imagen de Inakayal], la idea era sanarla […] ¿Por qué bordarlas? Bordar y tejer son actos de amor, de cuidado. Es una ceremonia para dar abrigo, sanar. Es establecer un diálogo con la imagen para liberar lo que quedó encerrada en ellas, para revelar lo que ocultó la toma. Bordar una foto transforma la imagen, pero también al que borda» (Hache, Bordar el genocidio par. 5).

Es lo que se efectúa de la manera más sensible con la hermosa intervención sobre la foto del cacique Foyel [15], quien había sido obligado a posar desnudo en su cautiverio:

El cuerpo desnudo del cacique Foyel, expresión vana de la completa desposesión a la que estaba siendo sometido su pueblo (Nahuelpán Moreno 2012), es aquí literalmente abrigado con el tejido continuo de un chaleco que le cubre íntegramente el torso, en un montaje utópico de materias heterogéneas que aspira a una proyección alquímica, en tanto no renuncia a la transmutación de la cosa-imagen a la calidez literal sobre el cuerpo del cacique: «El proceso es químico, pero también alquímico. Se trata de devolver a la luz lo que fue hecho en la oscuridad del genocidio» (Hache, Alquimia párr. 14). Se trata de producir, sensiblemente, desde la materialidad sensitiva de la lana sobre su cuerpo, el amparo, el cuidado del otro. Y se trata, también, en la exposición del trabajo del montaje (Fig. 6, der.), de volver sensible (Didi-Huberman, 2014b) la extrema desnudez a la que lo expone la vanidad colonial, mostrando, haciendo aparecer el hueco, el vacío -y el frío- extremo que reverbera en la imagen científico-policial, sin la intervención del tejido, del abrigo comunitario.

La representación de una mujer mapuche de la cual no conocemos el nombre (Fig. 8) nos muestra, asimismo, la potencia restitutiva que tiene la intervención de #InakayalVuelve. La modalidad de la fotografía antropométrica colonial que constituye la base sobre la cual se inscribe la performance (Fig. 7 izq. y der.), es dislocada por esta a través de la colorización de la imagen de la mujer y de sus atavíos, y, de la intervención a través del bordado de una especie de corona elaborada por un delicado encaje de ñandutí (guaraní) bordado en hilo de color claro y que, de manera metonímica, así ubicada en la cima de su cuerpo, resignifica la entera comprensión de la figura de esta anónima mujer, ahora asociada con una especial dignidad espiritual y trascendente (como ocurre en distintas culturas con el símbolo de la corona).

«Estoy despierto: trepelen. Añoro tu color: duamnien tami adentungen. Tu presencia se confirma en nosotros: eymi tami mülepan pwefaluwkey inchiñ mew. Reposa: ürkütunge may. […] Elegí bordar Trepelen, estoy despierto. La traducción es exquisita porque el significado -como siempre pasa con la lengua Mapuche- es mucho más profundo que en el español. […] La bordé sobre la frazada de una mujer cuyo nombre no conozco. Sobre su cabeza, como una flor, apliqué un dechado de ñandutí. Lo hizo Gilda, una tejedora que conocí en las afueras de Itauguá, Paraguay. Hay algo en sus miradas que las emparenta, que las une» (Hache, La larga marcha párr. 19-21).

Sebastián Hache probablemente quiso recordar en este bordado y en esta mujer a la joven aché Damiana, sobre cuyas imágenes desnudas también bordó. El 11 junio de 2010, luego de más de cien años desde su muerte en el Hospital Psiquiátrico Melchor Romero, la primera parte de los restos de Damiana fueron entregados por el Museo de Ciencias Naturales de la Plata a su comunidad en el pueblo de Ipetīmí en Paraguay, quienes le otorgaron un nuevo nombre: Kryygi; luego les serían entregadas su cabeza, lengua y cabellos, que se mantuvieron por más de cien años en poder del hospital Charité de Berlín (Bernabé, 2020: 165).

Ante la completa desposesión de que fueron objeto los y las sujetos indígenas en esta Segunda Conquista del Abya Yala, las y los artistas que trabajan recogiendo y rediscutiendo el archivo activan las heterogéneas formas de la restitución [16] memorialística, propiciando el aparecer imaginal de estos pueblos, como un recurso utópico que aspira a reabrir el tiempo histórico a la empatía y al reconocimiento sensible de las existencias negadas por la vanidad predadora colonial.

 

Notas

[1] El pueblo aché (Esp. persona), pertenece a las selvas subtropicales del actual Paraguay oriental. la lengua aché pertenece a la familia lingüística Tupí-Guaraní. Se conocen varios grupos de aché con características culturales y dialectales específicas. Los aché fueron sometidos al despojo de sus tierras al igual que otros pueblos del Paraguay sobre todo desde la década de 1870, después de la Guerra de la Triple Alianza. En el siglo XX, La dictadura de Alfredo Stroessner efectúa una feroz represión contra este pueblo, que sufre del asesinato y captura y esclavización de sus niñas y niños. Cf. Alejandro Parellada y María de Lourdes Beldi de Alcántara (eds.), Los Aché del Paraguay: discusión de un Genocidio. Grupo Internacional de Trabajo sobre los Indígenas-IWGIA, 2008.

[2] «Nacido el 9 de noviembre de 1872 en Radonitz, Posen, Robert Lehmann-Nitsche estudió ciencias naturales, antropología y medicina en Munich y Hamburgo. A los veinticinco años, en 1897, asumió la dirección del departamento de antropología del Museo de la Plata».  http://www.zeitenblicke.de/2008/2/projektskizze

[3] Centenares de restos de indígenas estuvieron hasta 2006 expuestos al público en las vitrinas del Museo argentino.

[4] Lehmann-Nitsche, Robert. Indigene Gruppen in Südargentinien: Alakaluf/Alacaluf (Kawesqar). Punta Arenas [u.a.]: Ibero-Amerikanisches Institut - Preußischer Kulturbesitz, 1902.

[5] A pesar de que Lehmann-Nitsche se pronunció en defensa de los indígenas, contra el etnocidio cometido por el estado argentino y en favor de su derecho a territorio, como bien explica Malvestitti, al mismo tiempo caracterizó a los indígenas «como “residuos compactos de población autóctona” (1915), “restos”» (1927b) (Malvestitti, 2012: 50).

[6] Cf. Benjamín Vicuña Mackenna, 1868, 414.

[7] O gente de los carrizales o cañaverales, en la nominación mapuche. El discurso europeizado los bautizó ranqueles o pampas.

[8] Los europeos y criollos denominaron País de las Manzanas o Manzaneros a este espacio ubicado en Río Negro, Neuquén y Chubut.

[9] Agradezco especialmente a Pehuén Editores, a través de su director Sebastián Barros, por la ayuda brindada para la obtención de algunas de las imágenes incluidas en este ensayo. Su generosidad es nota de una vocación de descolonización de los archivos que está, enhorabuena, cada vez más presente en el Cono Sur.

[10]  «En la época los encuadres se realizaban a partir de los acercamientos y alejamientos de la cámara, para retratos de busto o rostro, se requería acercar la cámara a una distancia de un metro» (Carreño, 2001).

[11] Jorge Luis Borges, La muralla y los libros (1950).

[12] «[…] producir lo expuesto-sujeto. Pro-ducirlo: conducirlo hacia adelante, sacarlo afuera», dice Jean-Luc Nancy (2012: 16). He trabajado más detalladamente sobre esta fotografía en «Miradas mapuche: dislocaciones de la experiencia en la imagen fotográfica a comienzos del siglo XX» (2021).

[13] Antonio Modesto Inakayal fue un cacique Gününa Küne–tehuelche- que nació en Tecka, Chubut, ca. 1829-1833. Inakayal, junto con Foyel y un número estimado de tres mil indígenas, fueron derrotados el 18 octubre de 1884 después de resistir por más de tres años. Ellos, su familia y sus compañeros fueron tomados prisioneros y trasladados luego a la prisión militar Tigre, en la Isla Martín García. Transcurrido más de un año y medio, Francisco P. Moreno, que antaño había sido bien tratado por los indígenas en sus viajes al sur, consiguió trasladarlos al Museo nacional de la Plata. En el museo, fueron ubicados en una habitación del subsuelo, donde eran encerrados durante la noche y obligados a trabajar en el día. Según la información oficial, Inakayal falleció por causas desconocidas el 24 de septiembre de 1888. Su cuerpo fue desmembrado y descarnado y luego fue exhibido al público del museo hasta los años ‘40.

[14]«#InakayalVuelve es una investigación performática, el tendido de una red, una experiencia transmedia de no ficción», señala su director, Sebastián Hacher, quien, junto a Revista Anfibia y al Espacio de Articulación Mapuche y Construcción Política, dan así continuidad al proyecto «#Restitución», una muestra realizada en colaboración con Mariana Corral (http://inakayal.revistaanfibia.com/index.php/2018/10/03/restitucion/ )

[15] Se dice que el cacique Foyel extendía sus dominios al sur del Lago Nahuel Huapi. Fue tomado prisionero junto con Inakayal pero logró salir del Museo de La Plata y no se conoce el paradero de su muerte. Su hija Margarita, sin embargo, muere en cautiverio el 23 de septiembre de 1887, el mismo mes en el que también murieron la mujer de Inakayal, Tafa, una indígena fueguina y una niña que no se ha podido identificar.

[16] Como bien explica Mónica Bernabé, «Restitución es una palabra clave en Argentina. La idea de restitución está asociada a la búsqueda de los niños nacidos en cautiverio y robados a sus padres durante la última Dictadura Militar. También a la reconstrucción de sus identidades profanadas, borradas o destruidas como parte de la ejecución de un plan siniestro programado en las entrañas mismas del Estado» (2020: 163).

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