Traduzione di G. Festa
Lo scopo delle parole
è trasmettere idee
Quando le idee sono state comprese
le parole vengono dimenticate
Dove posso trovare un uomo
che ha dimenticato le parole?
Con lui mi piacerebbe parlare
(Chuang-Tzu)
Per molto tempo l'argentino Claudio Caldini è appartenuto alla stirpe sovrana dei registi segreti. Filma da più di 50 anni e il suo status di artista recondito è stato solo parzialmente ribaltato nell'ultimo decennio. Da un lato la sua produzione, sempre più riconosciuta all'interno del circuito ridotto del mondo dell'arte, ha goduto di possibilità di fruizione rinnovate dalla disponibilità propria del digitale. Dall'altro, la sua partecipazione attiva a festival, retrospettive a varie latitudini e un documentario su di lui e il suo cinema (Hachazos, di Andrés Di Tella, 2011) hanno contribuito a dare visibilità, in una dimensione sempre più internazionale, a una traiettoria di sorprendente coerenza. Oltre ad essere distribuiti da alcune etichette internazionali dedicate al cinema sperimentale e d'artista, alcuni dei suoi film più importanti sono ora visibili attraverso Vimeo e YouTube. In questo colloquio con e attraverso il cinema di oltre mezzo secolo, Caldini ha navigato senza tentennare tra i formati filmici a passo ridotto, in particolare il single 8 e il super 8, le cui particolarità si andavano diffondendo con successo tra cinema familiare e underground, e tra l'amateur e lo sperimentale. E in questi piccoli formati ha creato alcuni dei suoi pezzi più audaci. Ma si è anche cimentato nella creazione nel campo dell'immagine elettronica, che gli ha consentito una diffusione cruciale all'interno dei circuiti della videoarte negli anni novanta. Finalmente la panoplia proliferante del digitale, le edizioni BluRay, le reti e la distribuzione online, gli hanno permesso di espandere l'impatto della sua produzione, tanto da installarlo come punto di riferimento indiscusso del cinema sperimentale realizzato in Sud America. Potremmo parlare anche di un “riferimento storico”, se questa parola non tendesse a tracciare una traiettoria e a consolidarsi nel passato, quando il cinema di Caldini è, invece, un invito a un presente rinnovato, come testimonia ogni sua sessione di performance cinematografica dal vivo. Dotato di una batteria di proiettori, solitamente da tre a cinque dispositivi funzionanti contemporaneamente, Caldini riattiva immagini scattate di recente o filmate decenni fa.
Rifà i suoi film, inscrive di nuovo ciò che è stato inciso nella macchina da presa. Il regista crea un vero montaggio dal vivo in ogni spettacolo, sublimando alchemicamente un cinema che esplora e reinventa le sue stesse fondamenta. Le immagini coesistono, si sovrappongono e si fondono sullo schermo. In un certo senso in queste sessioni montare è anche comporre attraverso un esercizio di free play che richiama alla mente le fonti musicali della sua prima formazione. Non è inutile aggiungere che buona parte di ciò che si ascolta in queste esibizioni dal vivo è musica composta da lui stesso. Nella sua filmografia è possibile scorgere non solo un programma sperimentale di ampliamento delle capacità tecnologiche e percettive del cinema, ma anche una riflessione allo stato pratico su come certi pensieri, certi corpi, certe tecniche di immagine e suono si facciano cinema.
Il crescente riconoscimento del regista negli ultimi anni si è sviluppato parallelamente alla rottura delle barriere ideologiche che tradizionalmente separavano il cinema di finzione e quello documentario, o le divisioni canoniche tra il cinema narrativo, rappresentativo e industriale da un lato, e quello sperimentale e d'avanguardia, artigianale, dall'altra. Pur riconoscendo tradizioni e identità coltivate da lungo tempo, la cinefilia emergente ha iniziato a ibridare le categorie, per consentire dialoghi precedentemente vietati. In questo contesto, la carriera di Caldini, precedentemente conosciuta solo da un piccolo gruppo di seguaci, attenti allo sperimentalismo cinematografico o alle innovazioni della videoarte, ha visto ampliare il raggio della sua influenza. Infatti, senza sminuirne l'originalità, si può cogliere negli apprezzamenti che il regista fa a proposito del suo itinerario, l'eco inequivocabile di un distante però nitido "noi".
Questa identità collettiva rimanda al gruppo di film sperimentali a cui partecipò tra gli anni '70 e l'inizio degli anni '80, per lo più riuniti intorno al Goethe Institute di Buenos Aires. Lì, insieme a registi underground come Horacio Vallereggio, Juan Villola, Marie-Louise Alemann, Adrián Tubío o Narcisa Hirsch, Caldini incontrò un suo spazio di appartenenza, integrandosi a un gruppo che era stato precedentemente battezzato come Grupo Cine Experimental Argentino. Oggi quel collettivo ha acquisito un carattere al limite del leggendario. Senza pretendere di essere un'avanguardia consolidata, questo collettivo che in seguito sarebbe stato spesso chiamato “gruppo Goethe”, per via dell'istituzione che li riuniva e che a quel tempo ospitava artisti tedeschi come Werner Nekes o Werner Schroeter a Buenos Aires, ospitava anche altri cineasti alternativi, come Silvestre Byrón o Jorge Honik. In quegli anni il concetto di avanguardia in Argentina si era spostato verso forme di militanza cinematografica chiaramente orientate verso il politico. In questo contesto, aggiungendo l'arretramento e la dispersione provocati dalla repressione della dittatura, il cinema di Caldini accentuava il suo carattere eccezionale. Il gruppo Goethe era un rifugio che si disperse nella fase finale della dittatura argentina, il regime del terrore che aveva assassinato un amico regista, Tomás Sinovcic, al quale Caldini dedicherà la sua unica incursione in un progetto che unisce autobiografia e saggio a proposito di un'esperienza collettiva tra arte e politica, il cortometraggio Un nuevo día (2001-2016)
Nelle introduzioni al cinema di Claudio Caldini si trovano ripetutamente elencati due tratti salienti. Il primo è quello della sua condizione eccezionale. Nell’introduzione a un'antologia delle sue opere pubblicata a New York dalla Antennae Collection, Pablo Marín lo ha definito «un albero solitario», mentre David Oubiña, un decennio fa, lo ha opportunamente presentato come «il segreto meglio custodito del cinema argentino». Sebbene gli anni trascorsi da allora ci abbiano concesso di alzare un poco il velo di questo segreto, è comunque necessario ancora adesso svelarlo in tutta la sua rilevante attualità.
La seconda caratteristica evidenziata nei diversi approcci critici al regista è quella di concentrarsi sul lavoro con la macchina da presa. In effetti, Oubiña ha designato il suo cinema come «camarografico». Lo stesso artista è d'accordo su questo punto. Invitato alla Mostra del Cinema Periférico di La Coruña, Spagna, Caldini si è definito così: «Più che un regista, sono un cameraman e un operatore di proiezione». Nel documentario Hachazos, insieme al palese disagio del regista, riluttante a essere il protagonista e a riempire il film con la sua biografia, si può avvertire, nello stesso tempo, il peculiare godimento di entrambe le istanze, quella di cameraman e quella di proiezionista. Quando Caldini rivela a Di Tella i gadget tecnici delle sue mitiche riprese con cineprese rotanti, o quando allestisce le sue proiezioni, casalinghe o davanti al pubblico, con manufatti sull'orlo dell'obsolescenza, non fa altro che recuperare il substrato meccanico del cinema, la piccola ingegneria di bobine, pulegge e ingranaggi, o i misteri e le delucidazioni di luci e ottiche. Sono presenti anche le potenzialità e le incertezze della chimica, perché è anche un raffinato artista del colore. Tutte queste eterogeneità sono assemblate da operazioni radicali attraverso un montaggio che sfida le frontiere che gli sono proprie.
Dobbiamo adesso cercare di dare una svolta a questa autopercezione del regista come cameraman e proiezionista. Lo è, ovviamente, ma sembrerebbe che, in questo riconoscimento, la dimensione del montaggio dei suoi film sia stranamente bloccata. Quello che accade, in realtà, è che il montaggio si muove nel suo cinema a partire dall'istanza tecnica più ristretta, quella del tavolo di montaggio o delle macchine di editing in post-produzione, verso un intervento personale che riguarda le immagini o la loro proiezione. Il tallone d'Achille del formato single8 nel cinema era quello del montaggio, nel suo aspetto più meramente tecnico di taglio e giunzione. Fin dai primi tempi della sua filmografia, Caldini ha saputo procedere con un montaggio in macchina nello stile dei pionieri. Per questo ha sempre preferito il single8, caratterizzato dalla flessibilità della bobina e in grado di fare sovraimpressioni, manipolando il nastro fino al quattro per quattro, piuttosto che la cartuccia più rigida della super8. Lo ha fatto in Ventanas (1975) con le sue immagini sovrapposte, ottenute registrando ripetutamente, fino a cinque strati, lo stesso pezzo di materiale filmico nella macchina da presa. E ogni volta che Caldini installa i suoi dispositivi per una proiezione performativa, il montaggio è presente al momento della sessione. Combinando inquadrature in macchina o piani proiettati su uno schermo, si concretizza un'operazione che colloca il montaggio al livello di un evento: quello dell'incontro con le forme viventi. E a proposito di quest'ultimo punto, non è un caso che nel mondo rappresentato sullo schermo da Caldini, il protagonismo sembra allontanarsi dall'umano, e anche dal regno animale, per entrare in intimo contatto con il vegetale. Perché oltre ad essere un musicista e un regista, è un abile giardiniere. Ha infatti coltivato questo mestiere durante lunghi momenti della sua vita.
La produzione audiovisiva di Caldini comprende il corto documentario, il film sperimentale non narrativo, i brani registrati ed elaborati su video analogico o digitale, in un contesto che da decenni non rifugge dalle ibridazioni tecnologiche. Così un pezzo chiave del suo lavoro come Heliografía (1993) proviene da un disco in single8, trasferito e montato in video analogico U-Matic SD e presto si è convertito in una pietra miliare del video argentino di quel decennio. Successivamente, il regista ha continuato a lavorare su quel corto, ed è oggi possibile vederlo in un remix digitale in HD. L'incantevole bellezza di questo viaggio in miniatura, che evoca il famoso viaggio in bicicletta del Dr. Albert Hoffmann a casa sua mentre è immerso nel celebre esperimento personale con l'LSD, mantiene intatto il suo potere di cattura. Il tutto viene addirittura accresciuto dall'effetto liquido che si riversa sullo schermo del personal computer o del telefono cellulare, in un ambito di ricezione privata, all'estremità opposta del tradizionale territorio audiovisivo dell'esibizione pubblica nei teatri. In uno spazio o nell'altro, il corto è ugualmente adatto a evocare una fondamentale stranezza. Ma il cinema di Caldini è così, particolarmente propenso a intrufolarsi negli interstizi, a fluire da un medium all'altro, rifiutando l'incatenamento di categorie o etichette, tranne forse quella dello sperimentalismo.
Frame da "Heliografia (remix)", Claudio Caldini, 2021
“Vadi-Samvadi” è la coppia di note predominante nella struttura della forma musicale indiana conosciuta come raga. Ed è anche il titolo di un cortometraggio di Claudio Caldini che, a nostro avviso, fornisce alcuni elementi chiave per comprendere la sua concezione del montaggio. Il film è stato girato due volte in formato super8: la prima nel 1976, la seconda nel 1981. La prima copia è andata perduta durante il viaggio verso una mostra, e quello che vediamo oggi è un attento remake.
Nella prima parte di Vadi-Samvadi, sviluppata nello stile di un meticoloso documentario, si vede il cineasta seduto a un tavolo, su cui si trovano alcune piante, mentre aziona una piccola macchina: un motore a vapore in miniatura. Caldini non è affatto estraneo alla poesia della macchina, è possibile notare questa sensibilità nella lenta percezione dei manufatti urbani nei suoi documentari, nelle biciclette che a volte irrompono nelle sue immagini, e sicuramente in questo piccolo motore che fornisce una chiave essenziale per la sua connessione con il montaggio strutturante del film. Non appena il motorino si mette in moto il regime di Vadi-Samvadi viene guidato dall'accelerazione del raga che inizia ad elaborare la sua forma sonora: la struttura del film si sposta così dal soggetto umano alle piante della stanza. E inizia, allora, lo svolgersi di una formidabile coreografia vegetale che fa dello spettatore del corto il soggetto di una trance cinematografica dove gli ordini eterogenei di tecnica e natura, macchina e piante, immagine e suono, si amalgamano nell'esplorazione di un microcosmo dove l'intervallo, evocato dalle note vadi/sanvadi, ma anche osservato dalla danza delle inquadrature montate in macchina, rivela una natura assolutamente cinematografica.
A sua volta, Film Gaudí (1975) non è un documentario sull'arte, né ricostruisce una passeggiata nel Parc Güell di Barcellona, ma attraversa traiettorie curvilinee e si ferma lungo gli edifici e sui loro mosaici, come se il progetto del parco fosse il copione della messa in scena. Caldini fa appello al gioco permanente di uno zoom lanciato verso un contatto quasi tattile con il suo oggetto, e a un montaggio che emula la dinamica della passeggiata, conferendo uno stato al limite dell'animazione agli esseri creati da Gaudí come abitanti permanenti del parco. L'intima corrispondenza tra l'architettura di Gaudí e il cinema di Caldini è tesa a creare un continuum tra l'organico e l'inorganico, tra la pietra e la vita vegetale, con il cinema come garante di questa evidenza nel piano visibile.
Più concentrato su un soggetto particolare che su uno spazio, circondato ossessivamente da innumerevoli punti di vista, Ofrenda (1978) venne filmato da Caldini nel giardino del padre. Le immagini sono quelle di un cespuglio di margherite, accerchiato dalla macchina fotografica e scattate fotogramma per fotogramma. Come manifestazione culminante di una installazione tesa tra montaggio cinematografico e animazione, i fiori non solo si offrono alla visione della macchina da presa, ma danzano o addirittura svolazzano, prossimi alla loro metamorfosi in farfalle. Aspiraciones (1976), Vadi-Samvadi (1976/1981) e Ofrenda (1978) compongono una trilogia che nell'interrogazione dei ritmi e della respirazione del mondo vegetale anticipa Cuarteto. A loro volta, questo film e Poilean (2019) è possibile raggrupparli in un dittico, che traccia un ponte dal cinema con supporto filmico al digitale. Il titolo del secondo film, che in gaelico significa polline, preannuncia il viaggio attraverso un campo seminato di girasoli in fiore, attraverso inquadrature pensate non tanto attraverso le distanze poste dallo sguardo ma dal movimento del corpo tra i solchi del seminato, tra gli enormi fiori che si orientano verso il sole.
La citazione posta a esergo di questo scritto compare alla fine di Cuarteto (1978), liberamente ispirata a una raccolta di testi di estetica taoista con cui il cineasta incappò in quegli anni. È anche una forma di trasposizione di alcune premesse della pittura cinese antica. In particolare, richiama quei precetti scritti nel XVIII secolo da Shi Tao negli Insegnamenti sulla pittura del monaco della Zucca Amara, in relazione alla meditazione sulla singola pennellata come tecnica suprema della concezione plastica. Caldini stilizza la sua macchina da presa alla maniera di un pennello, catturando luce e colore prima della forma. In questo senso, sembra venire guidato anche da un altro precetto di Shi Tao, quello di «accogliere i fenomeni senza che questi abbiano (ancora) una forma». È in questo ambito che si avvicina al gioco con l'astratto. Caldini filma le piante, il che implica filmare la vita attraverso manifestazioni che evitano la velocità e perseverano in un'immobilità solo apparente, dove prevale la lentezza. L'incontro tra la macchina da presa e le piante riprese è quello fra due tempi diversi, e si risolve in una strategia multipla, dove il movimento di macchina, il montaggio e alcune procedure di confine, vicine all'animazione attraverso le riprese fotogramma per fotogramma, scrutano quella vita vegetale attraverso un'articolazione che implica la macchina cinematografica e il corpo del regista.
Frame da "Cuarteto", Claudio Caldini, 1978
Il primo segmento di Cuarteto è interpretato da felci, il terzo da tigli e il quarto da piante di ibisco. Il secondo, che completerebbe il quartetto del titolo, è rimasto incompiuto in una sorta di limbo: era dedicato alla jacaranda, l'albero americano che ogni primavera trasforma la sua chioma in un enorme pennacchio viola, in una fioritura che ne racchiude tutto il fogliame. Caldini dice che si trovò obbligato a scartare questo segmento perché l'emulsione di colore della pellicola super8 trasformava il viola della jacaranda in una strana sfumatura in bilico tra il magenta e il rosa. I verdi del primo e del terzo segmento danzano accanto al rosso scintillante dei fiori di ibisco. Il fantasma della jacaranda assente completa il quartetto, che si può vedere in formato monocanale, in una sequenza di quasi mezz'ora, oppure può venire proiettata come un trittico durante gli spettacoli del regista.
In un'intervista per la rivista Lumière, Francisco Algarín Navarro chiese a Caldini a proposito della funzione del montaggio in Cuarteto a partire dalla combinazione dei colori delle piante: il problema di questo segmento fallito non riguardava solo la conversione del viola intenso dei fiori in uno strano tono impreciso, ma il modo in cui questo colore contrastava in modo irregolare con lo sfondo celeste del cielo. Caldini ricordava come il primo titolo de Il deserto rosso di Antonioni doveva essere «Celeste e verde». Non un colore, ma una combinazione, un montaggio di colori, che venne poi superato dalla preminenza del rosso nel titolo e in alcuni dei suoi interni, sebbene siano l'azzurro e il verde a dominare la terra desolata del film.
Nella suddetta intervista, l'interlocutore gli chiedeva a proposito delle sovrastampe, delle dissolvenze concatenate, della comparsa e scomparsa delle immagini sullo schermo nero. Caldini rispondeva che tra il 1969 e il 1977 sperimentò con diverse forme di montaggio. Cercava di giocare con piccoli pezzi connessi attraverso i consueti rapporti di raccordo, elaborando piccole finzioni dove erano presenti il corpo e i gesti umani, ma partendo da essi si lanciava in un'esplorazione formale dove la presenza umana si ritirava nello spazio dietro la macchina da presa, o nella manipolazione dei frammenti filmati in frasi di montaggio o al limite del cinema d'animazione. Cercava così di creare scene in cui la dinamica era fornita dal movimento vertiginoso del punto di vista ottico o dalla danza di fotogrammi presi uno per uno, animati nella proiezione. Ha anche provato, come facevano alcuni operatori di Lumière, le modalità di montaggio in macchina.
Caldini non privilegia, in questa opzione di pensare se stesso come un cameraman o un proiezionista, la classica istanza di montaggio sviluppata in post-produzione. Ma avventurandosi nel montaggio in macchina, o nel montaggio dal vivo durante le sessioni di proiezione, attiva in modo superlativo un montaggio di diverso tipo, e fonde un regime del macchinico (che ha saputo appassionare diverse avanguardie storiche), con un altro, tipico del mondo organico, che è possibile approssimare per mezzo di funzioni di corpi viventi, come quelle del battito cardiaco o della pulsazione.
In un precoce e breve testo teorico che segnerà tutto il suo itinerario, Montage mon beau souci (1955), Jean-Luc Godard annotava: «se la regia è uno sguardo, il montaggio è un battito del cuore». Di fronte alle utopie macchiniche del montaggio, l'autore faceva appello ad una immagine organica, non lontana da quella che Albert Jurgenson, montatore abituale di Alain Resnais, avrebbe scelto molto più tardi, quando dichiarò che ciò che cercava nel montaggio di un film era nient'altro che ottenere un respiro. In questo senso il montaggio in Vadi-Samvadi batte e respira, e la cosa più sorprendente è che lo fa in consonanza con la pulsazione meccanica della piccola macchina a vapore che accende questo regime di esplosione organica che ne anima la parte centrale. In questa pulsazione si incontrano il polso dei corpi organici che svela il fluido vitale che si nasconde al loro interno, e la pulsazione degli elementi meccanici in un motore a pistoni. Nel film si scontrano quindi due forme di energia, due mondi: quello della macchina filmante e quello della macchina filmata. Inoltre, nella percezione aperta a partire dal funzionamento del motore, si fondono il regime tecnico del montaggio cinematografico e quello delle vite in gioco: le vite filmate, umane e vegetali, e quella dello spettatore.
Se il cinema di Caldini si affida alla potenza della macchina da presa ricordiamoci, per concludere, che colloca le sue operazioni anche sull'altro estremo, quello della manipolazione del proiettore o dei proiettori. È un operatore cinematografico nel senso più ampio del termine. Installa i suoi film in una rete di dispositivi tecnici che di solito designa scherzosamente come rottami metallici, macchine obsolete, e dall'interno di questo groviglio che coinvolge sessioni di proiezione dove unisce l'immagine fino a un massimo di cinque proiettori simultanei e mette in marcia una reinvenzione dell'esperienza cinematografica. Non sarebbe esagerato ammettere che se come proiezionista evoca operazioni di montaggio, lo fa davanti a spettatori che a loro volta inscrivono queste esperienze attraverso un proprio montaggio di ciò che si presenta nella simultaneità di schermi multipli.
In alcune interviste Caldini ha ricordato un testo di Paul Virilio, L’arte del motore: questa nozione ha permesso al critico e teorico francese di riflettere sulle trasformazioni dell'immagine e del mondo dalla rivoluzione industriale all'era digitale, con particolare riferimento alla rete di immagini che nel presente ci catturano imponendo l'imperio della loro crescente velocità. Il cinema di Caldini lavora sulla modulazione di quelle velocità e le evoca. Se in alcuni passaggi invita alla contemplazione ritardata, meditativa, in altri non rifiuta il vertiginoso, ma in un raggio assolutamente opposto alla usuale mitragliatrice retinica che si annida dentro gli schermi contemporanei. Quello che fa con i suoi film non è altro che una spolverata per ripristinare una, necessaria, forma di chiarezza. Il motore che attiva il cuore dei film di Caldini è volto ad affinare e ravvivare il nostro sguardo, in uno stato di reinvenzione permanente di quell'esperienza che chiamiamo cinema.
TESTO ORIGINALE
Entre la pulsación y el motor: el montaje en el cine de Claudio Caldini
Eduardo A. Russo
El propósito de las palabras
es transmitir ideas
Cuando las ideas se han comprendido
las palabras se olvidan
¿Dónde puedo encontrar un hombre
que haya olvidado las palabras?
Con ése me gustaría hablar
(Chuang-Tzu)
Durante mucho tiempo el argentino Claudio Caldini perteneció a la egregia estirpe de los cineastas secretos. Filma desde hace más de 50 años, y su condición de artista recóndito ha sido sólo revertida parcialmente en la última década. Por una parte, su producción, de reconocimiento creciente dentro del reducido circuito del mundo del arte, ha accedido a posibilidades de acceso renovadas por la disponibilidad propia de lo digital. Por otra, su activa participación en festivales, las retrospectivas en diversas latitudes y un documental sobre él y su cine (Hachazos, de Andrés Di Tella, 2011) contribuyeron a otorgar visibilidad, en una dimensión crecientemente internacional, a una trayectoria de pasmosa coherencia. A la vez de se distribuidos por algunos sellos internacionales dedicados al cine experimental y de artista, algunos de sus films más destacados son hoy accesibles a través de sus propios canales en Vimeo y Youtube. En ese trato de más de medio siglo con el cine, Caldini ha navegado sin conflictos los formatos fílmicos de paso reducido, muy en particular el single 8 y el super 8, cuyas particularidades se han extendido exitosamente entre el cine familiar y el underground, entre lo amateur y lo experimental. Y en esos pequeños formatos ha creado algunas de sus piezas más audaces. Pero también ha incursionado en la creación en el campo de la imagen electrónica, lo que le permitió una difusión crucial dentro los circuitos propios del video arte durante los años noventa. Pero es la panoplia proliferativa de lo digital la que le ha permitido, edición BluRay, redes y distribución online mediante, ampliar el impacto tal que lo ha instalado como referente indiscutido del cine experimental realizado en Sudamérica. Diríamos también referente histórico, si esta palabra no tendiera a fijar una trayectoria y consolidarse en un pasado, cuando el cine de Caldini es una invitación a un presente renovado, como lo prueba cada una de sus sesiones performáticas de cine en vivo. Equipado con una batería de proyectores, usualmente de tres a cinco aparatos funcionando simultáneamente, Caldini reactiva imágenes tomadas recientemente o décadas atrás. Rehace sus películas, inscribe nuevamente aquello que ha sido inscripto en la cámara. El cineasta elabora uen cada función un verdadero montaje en vivo, sublimando alquímicamente un cine que explora y reinventa sus mismos fundamentos. Las imágenes conviven, se superponen y fusionan en la pantalla. En cierto modo, en esas sesiones montar también es componer mediante un ejercicio de free play que trae al recuerdo las fuentes musicales de su formación temprana. No es ocioso agregar que buena parte de lo que se escucha en esas performances es su propia música. En efecto, es posible ver en su filmografía no solamente un programa experimental de expansión de las potencias tecnológicas y perceptivas de lo cinematográfico, sino una reflexión en estado práctico sobre cómo ciertos pensamientos, ciertos cuerpos, ciertas técnicas de la imagen y el sonido se hacen cine.
El reconocimiento creciente del cineasta en los últimos años ha sido paralelo a la ruptura de barreras ideológicas que tradicionalmente separaron al cine de ficción y el documental, o a las divisiones que separaron al cine narrativo, representativo e industrial, por una parte, y al experimental y de vanguardia, de factura artesanal, por la otra. Sin dejar de reconocer tradiciones e identidades largamente cultivadas, las cinefilias emergentes comenzaron a hibridar categorías, a permitir diálogos anteriormente vedados. En ese contexto, la trayectoria de Caldini, previamente reconocida sólo por un reducido núcleo de seguidores, atento al experimentalismo cinematográfico o a las innovaciones del video arte, expandió su influjo hacia un impacto mayor. De hecho, sin disminuir su originalidad, puede advertirse en sus propias apreciaciones de su itinerario, el eco inequívoco de un distante pero nítido “nosotros”. Esa identidad colectiva remite al grupo de cine experimental en el que intervino entre los años setenta e inicios de los ochenta, mayormente congregado en torno al Instituto Goethe de Buenos Aires. Allí, junto a cineastas underground como Horacio Vallereggio, Juan Villola, Marie-Louise Alemann, Adrián Tubío o Narcisa Hirsch, Caldini encontró un espacio de pertenencia, integrando un colectico que previamente había sido bautizado como Grupo Cine Experimental Argentino. Hoy aquel colectivo ha adquirido un carácter al borde de lo legendario. Sin pretenderse como una vanguardia consolidada, ese conjunto que más tarde sería frecuentemente denominado como “Grupo Goethe”, por la institución donde se congregaban y que en aquel entonces recibió en Buenos Aires a referentes alemanes como Werner Nekes o Werner Schroeter , era también frecuentado por otros cineastas alternativos, como Silvestre Byrón o Jorge Honik. En esos años, el concepto de vanguardia en la Argentina se había desplazado hacia formas de militancia cinematográfica claramente orientadas hacia lo político. En ese contexto, sumando el repliegue y la dispersión provocadas por la represión de la dictadura, el cine de Caldini acentuó su carácter de excepción. El grupo Goethe fue un refugio que se dispersó en la etapa final de la dictadura argentina, el régimen de terror que había asesinado a su amigo cineasta, Tomás Sinovcic, a quien dedicaría su única incursión en un proyecto que fusiona autobiografía y ensayo sobre una experiencia colectiva entre arte y política, el del corto Un nuevo día (2001-2016)
Reiteradamente vemos en las introducciones al cine de Claudio Caldini dos rasgos resaltantes. El primero es el de su condición de excepción. En su introducción a una antología de sus obras editada en Nueva York por Antennae Collection, Pablo Marín lo ha definido como “un arbol solitario”, mientras que David Oubiña, una década atrás, lo introducía apropiadamente como “el secreto mejor guardado del cine argentino”. Si bien los años recorridos desde entonces han permitido descorrer bastante el velo de aquel secreto, aún es preciso descubrirlo en toda su relevancia.
La segunda característica remarcada en los acercamientos al cineasta es el de su centramiento en el trabajo con la cámara. De hecho, Oubiña ha designado su cine como “camarográfico”. El mismo artista acuerda en ese punto. Invitado a S8, la Mostra de Cine Periférico de la Coruña, España, Caldini se definía así: “Más que cineasta soy un camarógrafo y un operador de proyección”. En el documental Hachazos, a la par de la manifiesta incomodidad del realizador, reacio a ser protagonista y llenar al film con su biografía, puede advertirse, por el contrario, su goce de ambas instancias, las de camarógrafo y proyectorista. Cuando Caldini revela ante Di Tella los artilugios técnicos de sus míticos rodajes con cámaras giratorias, o cuando monta sus proyecciones caseras o ante el público, con artefactos al borde de la obsolescencia, no hace otra cosa que recuperar el sustrato mecánico del cine, la pequeña ingeniería de los carretes, poleas y engranajes, o los misterios y dilucidaciones de las luminarias y las ópticas. También se hacen presentes el potencial y las incertidumbres de la química, porque también es un refinado artista del color. Todas esas heterogeneidades son ensambladas por radicales operaciones de un montaje que desafía sus fronteras habituales.
Debemos otorgar entonces un giro a esa autopercepción del realizador como cámarógrafo y proyectorista. Lo es, por cierto, pero parecería que, en dicho reconocimiento, la dimensión del montaje de sus films se encuentra extrañamente obturada. Lo que ocurre, en realidad, es que el montaje se desplaza en su cine desde la instancia técnica más restringida, aquella de la mesa o las máquinas de edición en la postproducción, hacia su intervención en el mismo registro de imágenes o en su proyección. El talón de Aquiles del pequeño formato 8 en cine era el del montaje, en su costado más técnico de corte y empalme. Desde los tiempos más tempranos de su filmografía, Caldini supo avanzar mediante un montaje en cámara, al estilo de los pioneros. Por ello, siempre prefirió el single8, por la flexibilidad del carrete para filmar con sobreimpresiones, manipulando la cinta hasta el cuatro por cuatro, antes que el más rígido cartucho del super8. Así lo hizo en Ventanas (1975) con sus imágenes sobreimpresas, obtenidas mediante el registro reiterado, de hasta cinco capas, del mismo tramo de material fílmico en la cámara. Y cada vez Caldini que instala sus proyectores para una proyección performática, el montaje se hace presente en el tiempo mismo de la sesión. Combinando tomas en la cámara o planos proyectados sobre una pantalla, asoma una operación que instala al montaje en el rango de un acontecimiento: el del encuentro con formas vivas. Y respecto de este último punto, no es casual que en el mundo representado en pantalla por Caldini el protagonismo parece alejarse de lo humano, incluso del reino animal, para ingresar en un contacto íntimo con lo vegetal. Porque además de músico y cineasta, es un consumado jardinero. De hecho, ha cultivado ese oficio durante algunos tramos de su vida.
La producción audiovisual de Caldini ha abarcado el documental de breve extensión, el film experimental no narrativo, las piezas grabadas y procesadas en video analógico o digital, en un contexto que desde hace décadas no rehúye las hibridaciones tecnológicas. Así, una pieza clave de su obra como Heliografía (1993) proviene de un registro en single8, transferido y editado en video analógico U-Matic SD y así pudo convertirse en un hito del video argentino de esa década. Posteriormente, el cineasta siguió trabajando en ese corto, y hoy es posible visualizarlo en su remix digital en HD. La arrebatadora belleza de ese viaje en miniatura, que evoca la famosa vuelta a casa en bicicleta del Dr. Albert Hoffmann mientras se hallaba inmerso en su célebre autoexperimento con LSD, mantiene intacto su poder de captura. Hasta acaso resulta aumentado por el efecto líquido que derrama en la pantalla de la computadora personal o el teléfono móvil, en un ámbito de recepción privada, en el extremo opuesto del tradicional territorio audiovisual de la exhibición pública en salas. En uno u otro espacio, es igualmente apto para convocar una extrañeza fundamental. Pero así es el cine de Caldini, especialmente apto para colarse en intersticios, fluir de un medio a otro, rechazando el encadenamiento a categorías o etiquetas, salvo, acaso, la de lo experimental.
Vadi-Samvadi es el par de notas predominantes en la estructura de la forma musical india conocida como raga. Es también ese el título de un cortometraje de Claudio Caldini que, creemos, aporta elementos clave para la comprensión de su concepción del montaje en el cine. Fue filmado dos veces en formato super8: la primera en 1976, la segunda en 1981. La primera copia se perdió en tránsito a una muestra, y la que hoy podemos ver es una cuidadosa remake.
En la primera parte de Vadi-Samvadi, desarrollada al estilo de un meticuloso documental, se observa al cineasta sentado en una mesa, en la que hay algunas plantas, alimentando una pequeña máquina: un motor a vapor en miniatura. Caldini no es nada ajeno a la poesía de la máquina, es posible advertir esta sensibilidad en la morosa percepción de artefactos urbanos en sus documentales, en las bicicletas que a veces irrumpen en sus imágenes, y por cierto en este pequeño motor que brinda una clave esencial por su conexión con el montaje estructurante del film. Ni bien el motorcito comienza a funcionar, el régimen de Vadi-Samvadi, guiado por la aceleración de la raga que comienza a elaborar su forma sonora, la estructura del film se desplaza desde el sujeto humano hacia las plantas de la habitación. Y comienza el despliegue de una formidable coreografía vegetal que hace al espectador del corto sujeto de un trance cinematográfico donde los órdenes heterogéneos de la técnica y la naturaleza, la máquina y las plantas, la imagen y el sonido, se amalgaman en la exploración de un microcosmos donde el intervalo, aquel evocado por las notas vadi/sanvadi, pero también el observado por la danza de los planos montados en cámara, revela una naturaleza que no es sino cinematográfica.
A su vez, Film Gaudí (1975) no es un documental sobre arte, ni reconstruye un paseo por el Parc Güell de Barcelona, sino que recorre las trayectorias curvas del recorrido de sus caminos y se detiene en las construcciones y sus mosaicos, como si el diseño del parque fuera un guión de su puesta en escena. Caldini apela al juego permanente de un zoom que se lanza hacia un contacto casi táctil con su objeto, y un montaje que emula la dinámica de los pasos, a la vez que dota de un estado al borde de la animación a los seres creados por Gaudí como habitantes permanentes del parque. La correspondencia íntima entre la arquitectura de Gaudí y el cine de Caldini se dirige a elaborar un continuum entre lo orgánico y lo inorgánico, entre la piedra y la vida vegetal, con el cine como garante de esa evidencia en el plano de lo visible.
Más concentrada en un sujeto particular que en un espacio, rodeado obsesivamente desde innumerables puntos de vista, Ofrenda (1978) fue filmada por Caldini en el jardín de su padre. Sus imágenes pertenecen a un arbusto de margaritas, rodeado por la cámara y tomado cuadro por cuadro. Como manifestación culminante de su instalación entre montaje cinematográfico y animación, las flores no solamente se ofrecen a la visión de la cámara, sino que danzan o hasta aletean, cercanas a su metamorfosis en mariposas. Aspiraciones (1976), Vadi-Samvadi (1976/1981) y Ofrenda (1978) configuran una trilogía, que en su interrogación de los ritmos y la respiración del mundo vegetal anticipan a Cuarteto. A su vez, este film y Poilean (2019) se agrupan en un díptico, que traza un arco del cine en soporte fílmico al digital. El título del segundo film, que significa polen en gaélico, preanuncia su recorrido por un campo sembrado de girasoles en flor, en encuadres guiados no tanto por las distancias que plantea la mirada sino por el desplazamiento del cuerpo entre los surcos del sembrado, entre las enormes flores que se orientan al sol.
La cita que encabeza este artículo aparece al final de Cuarteto (1978), libremente inspirado en una compilación de textos de estética taoísta que el cineasta encontró en aquellos años. También es una forma de transposición de ciertas premisas de la antigua pintura. En particular, recuerda aquellos preceptos escritos en el siglo XVIII por Shi Tao en las Enseñanzas sobre pintura del monje Calabaza Amarga, en relación al cultivo de la pincelada única como técnica suprema de su concepción plástica. Caldini estiliza su cámara a la manera de un pincel, a la captura de la luz y el color antes que la forma. En ese sentido, también parece guiarse por otro precepto de Shi Tao, el de “acoger los fenómenos sin que éstos posean (aún) forma”. Es en ese ámbito donde se acerca al juego con lo abstracto. Caldini filma plantas, lo que implica filmar la vida en manifestaciones que rehúyen la velocidad y perseveran en una inmovilidad sólo aparente, donde lo que impera es la lentitud. El encuentro entre la cámara y las plantas filmadas es el de dos tiempos diferentes, y se resuelve en una estrategia múltiple, donde el movimiento de la cámara, el montaje y algunos procedimientos fronterizos, cercanos a la animación a través de la filmación cuadro por cuadro, escrutan esa vida vegetal mediante una articulación de máquina cinematográfica y cuerpo del cineasta. El primer segmento de Cuarteto es protagonizado por helechos, el tercero por tilos y el cuarto por plantas de hibiscus. El segundo, que completaría el cuarteto del título, quedó inacabado, en una suerte de limbo: estaba dedicado al jacarandá, ese árbol americano que convierte a su copa en un enorme penacho violeta cada primavera, en una floración que abarca todo su follaje. Cuenta Caldini que debió desestimar ese segmento porque la emulsión de color del film super8 convirtió al violeta del jacarandá en un extraño tono entre magenta y rosado. Los verdes del primer y tercer segmento danzan junto al rojo restallante de las flores del hibiscus. El fantasma del jacarandá ausente completa el cuarteto, que puede verse en formato monocanal, en una secuencia de casi media hora, o que puede proyectarse como un tríptico en las funciones que el mismo cineasta activa desde sus proyectores en formato fílmico.
En una entrevista para la revista Lumière, Francisco Algarín Navarro inquirió a Caldini sobre la accion del montaje en Cuarteto a partir de la combinación de los colores de las plantas: el problema de ese segmento fallido no era solamente la conversión del intenso violeta de las flores en un extraño tono impreciso, sino la forma en que ese color contrastaba erráticamente con el fondo celeste del cielo. Caldini recordaba cómo el primer título de Il deserto rosso, de Antonioni iba a ser Celeste e verde. No un color, sino una combinación, un montaje de colores, que luego quedó superada por esa preeminencia del rojo que menta el título y alguno de sus interiores, aunque son el celeste y el verde los que dominan su paisaje de desolación.
En la citada entrevista, entrevistador lo inquiría por las sobreimpresiones, los fundidos encadenados, la aparición y desaparición de las imágenes en la pantalla en negro. Caldini respondía que entre 1969 y 1977 experimentó extensivamente con distintas formas de montaje. Trataba de jugar con pequeños tramos conectados por las usuales relaciones de raccords, elaborando pequeñas ficciones donde estaba presente el cuerpo y los gestos humanos, pero a partir de de ellos se lanzaba a una exploración formal donde la presencia humana quedaba replegada en el detrás de la cámara, o en la manipulación de los fragmentos filmados en sintagmas de montaje o al borde del cine animado. Trataba de crear escenas donde la dinámica era aportada por el movimiento vertiginoso del punto de vista óptico o por la danza de fotogramas tomados de a uno, animados en la proyección. Incluso ensayó, como lo hacían algunos operadores de los Lumière, modos de montaje en cámara.
Caldini, como hemos expresado, no privilegia, en esa opción por pensarse como camarógrafo o proyectorista la clásica instancia del montaje desarrollada en la postproducción. Pero incursionando en el montaje en cámara, o en vivo durante las sesiones de proyección, ese montaje se activa en grado superlativo, y fusiona un régimen propio de lo maquínico, aquel que supo entusiasmar a diversas vanguardias históricas, con otro propio del mundo orgánico, que es posible acercar mediante funciones de cuerpos vivientes, como las del latido o la pulsación.
En un temprano y breve texto teórico que marcaría todo su itinerario, “Montage mon beau souci” (1955), Jean-Luc Godard anotaba: “si la puesta en estena es una mirada, el montaje es un latido”. Frente a las utopías maquínicas del montaje, el autor apelaba a una imagen orgánica, no distante a la que elegiría bastante más tarde Albert Jurgenson, habitual montajista de Alain Resnais, cuando declaraba que lo que buscaba al montar un film no era otra cosa que obtener una respiración. En ese sentido, el montaje en Vadi-Samvadi late y respira, y lo más asombroso es que lo hace en consonancia con la pulsación maquínica de la pequeña máquina de vapor que dispara ese régimen de explosión orgánica que anima su parte central. En esa pulsación se reúne el pulso de los cuerpos orgánicos que delata el fluido vital en su interior, y el pulsar de los elementos mecánicos en un motor a pistón. Dos formas de energía, dos mundos se encuentran en el film: el de la máquina filmadora y la máquina filmada. También, en la percepción abierta a partir de la marcha del pequeño motor, se fusionan el régimen técnico del montaje cinematográfico y el de las vidas en juego: las vidas filmadas, humana y vegetal, y la del espectador.
Si el cine de Caldini se apoya en el poder de la cámara, recordemos para concluir, también localiza sus operaciones en el otro extremo, el de la manipulación del proyector, o de los proyectores. Es un operador de cine en el sentido más lato del término. Instala sus producciones en un entramado de aparatos técnicos que suele jocosamente designar como chatarra, máquinas obsoletas, y desde el interior de esa maraña que implican sesiones de proyección donde combina la imagen procedente de hasta cinco proyectores simultáneos, pone en marcha una reinvención de la experiencia cinematográfica. No sería exagerado evocar que si en tanto proyectorista convoca operaciones de montaje, lo hace frente a espectadores que a su vez inscriben esas experiencias mediante su propio montaje de lo que presenta en la simultaneidad de sus múltiples pantallas.
En algunas entrevistas Caldini ha recordado un texto de Paul Virilio, El arte del motor, en el cual esta noción permitía al crítico y teórico francés pensar las transformaciones de la imagen y el mundo a partir de la revolución industrial hasta la era digital, con especial referencia al entramado de imágenes que en el presente nos capturan e imponen el imperio de su velocidad creciente. El cine de Caldini trabaja en la modulación de esas velocidades y las conjura. Si en algunos pasajes llama a la contemplación demorada, meditativa, en otros no rehúsa lo vertiginoso, pero en un rango absolutamente opuesto a la habitual ametralladora retínica que acecha en las pantallas contemporánea. Lo que efectúa con sus films no es otra cosa que un barrido para devolver una limpidez necesaria. En síntesis, el motor que activa el núcleo de las películas de Caldini se orienta a depurar y revivir nuestra mirada, en un estado de reinvención permanente de esa experiencia que denominamos cine.