La storia inizia con una lite, di quelle banali tra vicini – che la cronaca ci insegna possono sempre finire male – per un giardino incolto che somiglia a una giungla, tanto fitto che il sole non ci entra e nemmeno le luci delle altre case pure se siamo in pieno centro cittadino. Solo che il proprietario accusato dal vicino di non tagliare i rami e di lasciare crescere selvaggiamente l’erba a rischio di animali – topi, serpenti … – dovrebbe essere la legge, Gigi, il vigile di San Michele al Tagliamento, un piccolo centro nel mezzo della campagna friulana, che con l’accento cantilenante del luogo risponde a quella voce arrabbiata di cui non vediamo (non vedremo) mai il viso. Non sarà la prima volta – anzi questo lunghissimo inizio si fa quasi dichiarazione di stile – che il controcampo rimane «parallelo» o addirittura invisibile, per sorprenderci in modo inaspettato quasi a dirci di un personaggio che nonostante il ruolo pubblico abita una dimensione segreta, e forse persino un po’ stridente rispetto al resto.
CHI È GIGI, dunque? Un vigile che non fa multe e che ama le donne, seduttore «pirata e signore» alla Julio Iglesias (sparato a palla in macchina) che corteggia ogni nuova voce (femminile) alla radio della centrale, vive solo e non ha famiglia, ogni tanto si prende delle «libertà» che in servizio non dovrebbe prendere – come sconfinare nei comuni vicini. E che segue piste tutte sue, indagini che somigliano a fantasie, quasi a ossessioni, o che forse racchiudono le domande sulle cose del mondo vita al di là del lavoro: perché tanti ragazzi si buttano sotto al treno chiede a un certo punto a uno di lì, la cui casa confina coi binari dopo che hanno ritrovato qualche giorno prima il corpo di una donna, e Gigi (Pier Luigi Mecchia) sospetta di un ragazzo, un tipo un po’ bizzarro che lo ha segnalato.
Per il suo nuovo film, presentato nel concorso di Locarno, Alessandro Comodin torna ai paesaggi della sua terra (San Michele al Tagliamento è il paese in cui è nato), che erano già nell’esordio L’estate di Giacomo (2011), il racconto dei vagabondaggi estivi sulle rive del Tagliamento di un giovane sordomuto e di una sua amica nel passaggio tra l’adolescenza e l’età adulta, che lo ha rivelato e proprio al festival svizzero – dove vinse i Cineasti del presente. E che nel successivo (e molto bello) I tempi felici verranno presto (2016) ha trasformato in una terra astratta, lo spazio di una foresta ideale dal tempo sospeso in cui avanzano i protagonisti.
MA IL PAESAGGIO per Comodin non è «reale», esprime piuttosto una sua geografia interiore e il desiderio di un immaginario cinematografico nei quali prendono forma le storie e le fisionomie dei suoi personaggi, tutti «veri» e tutti invenzione, le cui vite nella distanza narrativa portano in sé il quotidiano e si fanno ugualmente qualcos’altro. Come accade a Gigi (Pier Luigi Mecchia) che è vigile e zio del regista – «Quando mio nipote mi ha chiesto di interpretare me stesso sono rimasto un po’ perplesso, poi mi sono convinto» ha detto nell’incontro stampa al festival – pure lui vagabondo in un’estate sulla sua macchina della polizia locale, le cui conversazioni con la collega Annalisa svelano poco di come è, non più degli incontri casuali con qualche ragazzo che ha elaborato il motorino o delle battute galanti che scambia con Paola, la collega più giovane (Ester Vergolini, la sola figura di «finzione» che infatti non è vigile ma ostetrica) attratto dalla sua bella voce. E intanto va su e giù a cercare un incendio segnalato da qualcuno che per fortuna non c’è, sbircia i passanti, si ferma a fumare sul bordo della strada o scambia due chiacchiere.
FUORI DAL FINESTRINO si scorgono una campagna sempre uguale, piccoli centri quasi deserti dove la calura sembra avere fermato gli istanti e l’unico movimento risuona nelle parole di Gigi, personaggio maschile tipico verrebbe da dire, quasi da commedia nel suo modo di essere galante e sfuggente, di rispondere con qualche battuta e di evitare di affrontare i discorsi spiacevoli nascondendosi dietro altro – per esempio l’amore per gli alberi. Però di Gigi – appunto – non sappiamo nulla di più di quel ripetersi ogni giorno, non entriamo mai a casa sua, non vediamo cosa fa fuori dal ruolo pubblico. È proprio questo scivolare su una superficie possibile che interessa il regista: Gigi la legge non è un film «sulla» provincia italiana ma su un rito (e un ritmo) del tempo e sulle possibilità di scoprire la corazza dell’apparenza, il mistero di un personaggio, il suo essere creatura enigmatica nel rapporto con la sua «giungla» un po’ alla Apichatpong Weerasethakul – coi suoi fantasmi notturni tenuti dentro fino allo svelarsi che esplode nell’ultimo pezzo del film, il più intenso e emozionante; non solo in un controcampo che si fa tale con la presenza di Paola – e la sua canzone, Amore disperato di Nada- ma perché lì Comodin coglie quell’epifania che ha cercato col suo dispositivo, qualcosa che accade all’improvviso inattesa. Un momento magico che viene dal cuore.