Cinema minerale, elementare – sinfonia degli elementi: acqua innanzitutto, mare disseminato nel quadro, poi riflessi di luce, aria, espanso vociare; e terra, concrezioni terragne, finanche affioramenti che si sviluppano su lamiere –: quello di Helena Wittmann è uno degli immaginari più connotati del cinema contemporaneo, qualcosa che si ricongiunge a visioni classiche, a modalità di rappresentazione eponime (Akerman soprattutto, poi Claire Denis, Herzog, Wim Wenders, Antonioni) sfociando in forme di «presentazione» sperimentali. Non più rappresentazione, al limite, al di là del racconto o riducendosi la trama a un esile canovaccio, a una sfilacciatura narrativa; ma scoperta continua del visibile.
Ecco perché il viaggio: il cinema di Wittmann è in movimento, itinerario nel mondo alla scoperta di cose, sagome semoventi, immagini primeve; è prospettiva euristica da parte di chi pensa le immagini, le ricerca al di là del visto (la regista, che a un tratto, sovrastata dalla materia eidetica, si ritrova a farsi pensare dalle immagini, a farsi cercare e trovare da questa materia fermentante, straripante del visibile, del visibilio), accolta pienamente dai personaggi, che allora vanno per mare alla scoperta di forme, e di forme di vita, cioè escrescenze della pelle dei segni. Quindi non solamente il mondo, la natura e l'umanità che ne calca la superficie, ma l'immagine, l'aggregazione di significanti che si distende nel senso di un'epifania o di una fata morgana, piuttosto che del simbolo, come nel finale di Human Flowers of Flesh.
Helena Wittmann aveva esordito alla Settimana della Critica nel 2017 con quell'apnea straordinaria, visibilio di oscillazioni, qualcosa come un'esperienza di espiazione in nave che è Drift. Figure umane sparute, corpi senza volto, ridotti ad avvisaglie della solitudine, a una ricerca di se stessi, delle motivazioni del proprio sussistere nonostante i flutti. Che è il presupposto, il motivo (la carne) affiorante anche del secondo lungometraggio di Wittmann presentato al Festival di Locarno del 2022, Human Flowers of Flesh, in proiezione questa sera a Bari per la rassegna «Registi fuori dagli Sche[r]mi». La storia – diradata nelle pieghe di una continua efflorescenza luminosa, immaginifica, in una filigrana di spazio-tempo che con il passare del tempo risulta stupefacente, ipnotica, stordente – è quella di una donna (interpretata da Angeliki Popoulia) che mette su un equipaggio cosmopolita per seguire con la sua nave le tracce di alcuni miliziani della Legione Straniera, spersi per il mondo, di cui arrivano strane storie di corpi folli, forsennati, ossessi.
È una storia di fantasmi, quelli dell'equipaggio (sradicati, opachi, intenti a leggere cartoline, citazioni da poesie, da frammenti letterari, mentre intorno a loro scroscia il mare e li inghiotte), alla ricerca di altri fantasmi: ne trovano uno, che appare all'improvviso, spettro di carne segnato dal tempo delle sabbie. Vive in tenuta soldatesca – anfibi, pantaloni con tasche ampie – ed è quasi assorbito dallo sfondo scialbo del suo appartamento, dalla filigrana di scialbore, di antico sopore che domina tutto il film: una luce tenue, lontana, un «rumore di fondo» invadente, ecosistemico, incline a rompere gli argini del quadro, della macchina fissa, ostinata sui piani-sequenza, quasi un flusso psichedelico che intacchi l'orientamento dello sguardo, abbatta le quarte pareti in un deliquio che è lo stesso che si respira in un film di Albert Serra o di Weerasethakul.
E ancora una volta, come già in Drift, quest'atmosfera sinergetica, traspirante, diviene apnea audio-video: sul ponte della nave, il lasso in dimenticanza, in caotica, lenta immanenza; il brusio radicato alla luce di fondo, si fa accelerazione elettronica, techno, grazie alle musiche di Nika Son nel cui ritmo incalzante danzano i fantasmi, i fiori umani nati dalla carne del cinema, insieme a infiorescenze pullulate sulla coltre dei relitti, genesi microbiche, acquatiche, metamorfosi marine che non fanno che sperimentare lo spazio della visione.